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CAPITOLO I.
Perchè quell’uomo si chiamasse
ABRAKADABRA.
Nell’aprile dell’anno 1860, un eccentrico personaggio venne ad abitare l’alpestre paesello di C....
Era un uomo sui cinquant’anni, magro, sparuto, dagli occhi incavati ed immobili, dal sorriso amorevole, tratto tratto mefistofelico.
La foggia del suo soprabito nero, ampio, abbottonato fino al mento e lungo fino al tallone; la callotta di tela ch’egli portava, a guisa di turbante, involta a più riprese da una fascia azzurra; tutto il suo abbigliamento formava una strana figura di prete e di pascià, che lungi dal riuscire ridicola, ispirava simpatia e rispetto.
Quell’eccentrico personaggio aveva preso in affitto una casa di rustiche apparenze, ma comoda e decente. Tutti lo sapevano ricco e di gran cuore. I poveri del paesello dicevano che quel forestiere era stato mandato in paese dalla Provvidenza. Nei primi tempi lo chiamavano il signore.
Erano con lui due domestici ed un medico. Questi gli stava sempre a lato. Rare volte parlavano assieme. Quando uscivano al passeggio, il medico leggeva o fumava; l’altro a giudicarne dalla immobilità dello sguardo, pareva assorto in una sola, irremovibile idea. In paese correva voce che il signore fosse malato di cervello per eccessiva applicazione agli studi, e avesse appunto abbandonata la città per ritemprarsi nella buon’aria dei monti.
In fatti, dopo un mese di vita campestre, a dire dei paesani, il signore aveva fatto una ciera più lustra. I suoi denti di alabastro brillavano più spesso nel sorriso dell’amorevolezza che non in quello della ironia mefistofelica.
Usciva più sovente al passeggio. Si intratteneva sulla piazzetta a udire i colloqui dei contadini, a veder giuocare i fanciulli. Riceveva qualche visita alla sera. Il curato, il sindaco ed il farmacista erano divenuti assidui nella sua sala, ed egli stava le lunghe ore ad ascoltare le loro polemiche religiose e politiche.
Il curato, il sindaco e il farmacista di C... per lui rappresentavano i tre partiti, la eterna invariabile trinità del pensiero umano, che a suo credere, era cominciata nella mente dei tre primi abitatori dell’universo.
Il curato rappresentava il non possumus, la forza reazionaria;
Il sindaco il liberale moderato o moderatore;
Il farmacista l’uomo del progresso ad ogni costo, l’utopista rivoluzionario, che non ammette intervallo tra il pensiero e l’azione.
Questi tre principii, come ognuno può immaginare, si detestavano cordialmente; e il loro attrito era scabro e sfavillante come quello dell’acciaio colla pietra.
Ciò nullameno, il curato, il sindaco e il farmacista venivano ogni sera ad occupare nella sala del signore tre lati di un tavolo coperto di ricco tappeto.
Nel centro di quel tavolo, quegli spiriti eterogenei, intolleranti, irreconciliabili, avevano trovato un punto di coincidenza simpatica. Era un’immane bottiglia, un’anfora imponente e generosa, il cui sugo inesauribile produceva nei tre antagonisti il doppio effetto di rifiammare gli ardori politici e di ammorbidire le gole. Il curato, il sindaco e il farmacista pigliavano un gusto matto a bisticciarsi e a contraddirsi in quel tiepido ambiente dove la più gustosa delle bevande era sempre là per estinguere ogni ardore di sete e di entusiasmo.
Essi amavano il buon vino con esemplare concordia; e siccome il buon vino non corre le bettole e le cantine del volgo, così la loro ripulsione politica si era mutata in attrazione pel fascino di un barolo squisito.
Il curato si scusava: — Forse che alla chiesa non conveniamo tutti, uomini dabbene e peccatori, papisti e scomunicati, intorno all’altare del Dio uno e vero?
E il farmacista rifletteva: — Dinanzi alla malattia non conosco avversarii politici; io prodigo i miei medicinali anche ai vili moderati che vorrei avvelenare di arsenico. La malattia e la sete stanno al di sopra di ogni rancore di partito.
Il sindaco, nella sua qualità di moderato, credeva dar prova di sublime tolleranza, trincando coi due partiti estremi.
Di qual modo si erano introdotti nella casa dell’eccentrico signore tre individui di opinioni così avverse?
Il signore li aveva conquistati nei primi tempi del suo soggiorno in paese. Ciascuno alla sua volta, il curato, il sindaco e il farmacista, avevano ricevuto dal forestiere una carta di visita ed un autografo accompagnato da un biglietto a stampa di effetto miracoloso.
Sulle carte di visita era impresso uno stemma gentilizio sovrapposto ad una parola enigmatica, che i tre sapienti del villaggio non avevano osato interpretare: Abrakadabra.
I biglietti a stampa erano altrettanti boni della banca nazionale del valore di cinquecento franchi cadauno.
Le tre lettere determinavano lo scopo e l’indirizzo dell’oblazione.
La prima, al curato, per l’obolo di San Pietro;
La seconda, al sindaco, pel monumento a Vittorio Emanuele;
La terza, al farmacista, da suddividersi fra le due collette promosse da Garibaldi e da Mazzini pel milione di fucili... e pel soccorso alla libera stampa.
Il curato, il sindaco e il farmacista, nell’aprire quell’inatteso dispaccio, nel constatare le intenzioni del generoso oblatore, si erano fregati le mani a versarne sangue, esclamando con enfasi da partigiani: il signore è dei nostri!
Ed ecco per quale impulso i tre avversari politici del paesello si erano recati a visitare il signore, coincidendo intorno alla grossa bottiglia, che poi doveva riavvicinarli quotidianamente a discutere i grandi problemi della politica mondiale.
Durante la polemica, il contegno del signore era sempre enigmatico. Taceva con disperante costanza. La sua fronte spaziosa a volte si corrugava: i suoi occhi profondi vibravano lampi; le labbra tumide e sorridenti si contraevano, e i denti si serravano con sinistro cigolio.
Pareva ch’egli facesse uno sforzo violento contro gli impeti della propria volontà, per reprimere un torrente di idee e di parole che tentavano prorompere.
Quelle crisi erano passeggiere, ma atterrivano gli oratori, e imponevano agli entusiasmi della loro facondia.
Un silenzio solenne regnava per qualche tempo nella sala.
«Che razza d’uomo! — pensava il curato — credo ch’egli abbia il diavolo in corpo!»
E gli occhi dei tre antagonisti si incontravano nell’espressione di un sentimento comune: vattel’a pesca come la pensi costui!
Queste pause della politica erano ordinariamente impiegate nelle libazioni più generose. Tutti vuotavano il bicchiere, e si affrettavano a riempirlo come soldati che si preparino a nuovi attacchi.
Brevi uragani. Si scioglievano senza rumore e senza danno.
La fronte del signore riprendeva la sua calma severa — l’occhio si dileguava nelle palpebre folte, e il labbro si ricomponeva al più mite sorriso, nell’articolazione di una parola misteriosa: Abrakadabra.
Quella parola era il terrore del curato, il quale la riteneva diabolica.
Il farmacista, cui le spiegazioni del dizionario di scienze mediche l’avevano resa incomprensibile, sorrideva con aria sapiente e faceva lo sbadato.
Qualche volta, per soccorrere alla intelligenza dei suoi ospiti, il signore traduceva l’Abrakadabra nel motto latino: ibis, redibis.
Poi accennava ad essi di ripigliare la discussione — e in mezzo al frastuono delle voci mormorava fra i denti un fiat lux, che pareva il gemito di un Epulone assetato di luce.
Abrakadabra, che non cessava di essere un enigma per tutti, era divenuto dopo alcuni mesi il soprannome del signore.