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CAPITOLO III.
Il discorso del Sindaco.
— L’ottantanove!... sempre l’ottantanove! — cominciò il sindaco levandosi in piedi dopo aver vuotato il bicchiere. — Robespierre! Danton! Marat!... Ecco il vostro ritornello, la vostra eterna minaccia, o infelici rimestatori di un passato che non può rinnovarsi!
«Tutto il progresso della civiltà europea, le poche franchigie, le poche libertà acquisite dal popolo da quell’epoca di sangue infino ad oggi, sono, a vostro dire, il frutto della rivoluzione. E sta bene, se col nome di rivoluzione voi intendiate designare il genio innovatore, la ribellione intellettuale del gran secolo che ci ha preceduti. Buffon, Beaumarchais, Voltaire, Diderot, Rousseau, D’Alembert, Volney, tutti i grandi pensatori di un’epoca luminosa — ecco la vera rivoluzione, la rivoluzione irresistibile, indomabile, soverchiatrice di ogni ostacolo.
«Chi ha ritardata l’opera della filosofia? quali furono i nemici più esiziali dell’idea? — quelli che allora rappresentavano il partito di azione, i demagoghi, i tiranni dal berretto frigio. Via! cessate una volta dall’adulare la ghigliottina, attribuendo all’istrumento feroce che ha mietuto tante nobili intelligenze la facoltà di rigenerare la terra e di fecondarvi il progresso!
«La filosofia è luce di verità. Dessa si espande libera e vivace nell’atmosfera tranquilla, ma rifugge dai cieli procellosi. I pensatori di quel secolo di luce, colla logica stringente dei diritti naturali, col sarcasmo demolitore, colla satira, coll’inno di libertà, avevano già compiuta la grande rivoluzione dell’ottantanove, prima che la ghigliottina si arrogasse il vanto di averla iniziata colle sue orgie di sangue.
«Quanti anni sono trascorsi dacchè Rousseau inaugurava l’epoca di redenzione col suo ; dacchè Voltaire, denudando le vergogne della terra e del cielo, le esponeva alla berlina dello scherno popolare! Nondimeno, quante tirannie, quanti pregiudizii nella nostra Europa di oggigiorno! Se la ghigliottina e le stragi napoleoniche non avessero interposto un torrente di sangue fra le idee degli enciclopedisti e le indefinite aspirazioni delle moltitudini ignare; non credete voi che ci troveremmo più avanzati nel progresso?
«Che avete fatto voi, o cannibali del liberalismo? Voi diffidaste della verità. La vostra impazienza sanguinaria non sofferse gli indugi. In luogo di aspettare la convinzione, presumeste violentarla col terrore. Per voi fu delitto l’esitanza. Agli attoniti, ai perplessi, che consultavano la propria ragione e la propria coscienza per ammettere le nuove dottrine; ai timorosi, agli onesti che discutevano, voi gridaste con efferata baldanza: o seguirci o morire!
«Che avvenne? I girondini, i moderati di allora, votarono la morte della monarchia rinnegando una convinzione; ma il re li precedette di pochi mesi al patibolo. Da Luigi XVI a Robespierre, tutte le teste più illustri della Francia caddero inesorabilmente troncate. Il berretto frigio non impose alla ferocia briaca più del diadema reale. E qual rimase la Francia dopo quelle orgie di sangue? Una bottega da macello piena di terrore, esalante ribrezzo. Dopo ciò, meditate quella istoria, e comprenderete come l’orrore delle stragi e del sangue potesse più tardi ispirare l’avversione alle idee.
«Ma non tutte le idee, non tutti i principii dell’ottantanove soccombettero ai massacri della ghigliottina. Un genio fatale, sorto dalla rivoluzione, ne impose all’Europa quel tanto che essa era in grado di comportarne. Napoleone, il despota dei nuovi tempi, coi lampi e le folgori della sua potenza, parve precludere il ritorno al despotismo passato; il codice di Napoleone fu il solo, il positivo risultato della grande rivoluzione francese.
«Qual fu la riconoscenza dell’Europa verso quel grande? La gloria di cento vittorie, il fascino del genio, l’apoteosi del trono, tutti i prodigi operati da lui nel più meraviglioso decennio della storia contemporanea, non bastarono ad invertire gli istinti della umanità. I macelli del cannone fecero inorridire l’Europa come i macelli della ghigliottina — e il mondo dissanguato domandò pace ad ogni prezzo, anche a costo di capitolare cogli antichi tiranni.
«Quando il leone dell’Elba scosse le catene per ritornare in campo a ricominciare la lotta, i popoli, scorati o ribelli, lo rinnegarono, lo consegnarono al nemico, l’obbliarono — o, peggio ancora, ricordarono lui vivo e sofferente a Sant’Elena come una sublime figura istorica già scomparsa dal mondo.
«Non serve falsare il passato. I trattati del 1815, che ribadirono i chiodi dell’antico servaggio, perciò solo che significavano tregua dal sangue, furono accolti dai nostri padri come una benedizione del cielo. Nel 1815, una buona metà dell’Europa — e dico poco — intuonò il Te Deum con sincera compunzione per quell’indegno mercato di popoli.
«Ho risuscitate queste memorie perchè desse, a mio credere, ritardarono di vent’anni la seconda riscossa, e arrestarono il corso delle nobili idee colla vergogna e col rimorso di atroci misfatti. Il terrore della anarchia repubblicana e di una conflagrazione universale, anche oggigiorno rende sterile il voto ed il lamento di tante nazionalità conculcate. La minaccia di una guerra Europea impone alle aspirazioni generose dei principi e dei popoli. La Polonia, segno di tante simpatie, di tanti voti, dovrà forse soccombere a questa minaccia.
«La guerra! sublime spettacolo nelle epopee di Omero e di Ossian! Quando nel 1859, il cannone degli invalidi annunziò alla Francia la grande battaglia, la grande vittoria di Solferino, tutta la nazione si scosse di entusiasmo. Le contrade pavesate di drappi tricolori, le luminarie, i fuochi di gioia salutarono il fausto avvenimento. Ma sotto quella superficie festante, nella retroscena di quei splendidi entusiasmi, quante lacrime, quanti terrori!
«Quarantamila morti! In verità il bullettino non poteva essere più splendido. Chi non ha gustato l’epico entusiasmo di quel grandioso massacro? L’avete voi veduto un campo di battaglia, una pianura di Solferino, dopo una grande vittoria? Quarantamila cadaveri o frammenti di carne umana, orribilmente pestati, confusi, ingrommati di caligine e di sangue?...
«Rifuggiamo dall’orribile spettacolo! Voi, filosofi della umanità, voi protettori del povero popolo, che nell’eccesso di una sensibilità altamente benefica, cadete in deliquio, e più sovente imprecate alla società tutta intera se la ruota incolpevole di una carrozza signorile offende lo strascico di una povera donna pedestre — voi che vi intenerite alla vista di un spazzacamino senza scarpe — voi, che gridate al delitto di lesa umanità, se il poliziotto non si mette i guanti per arrestare il cavaborse — voi, che tutte le mattine versate una lagrima sulla paziente schiavitù del somaro, e sulla fine miseranda del montone che vi fornisce il gigot — voi morireste di raccapriccio alla vista di quarantamila cadaveri umani! — Copriamoli di terra e di oblio, e ricominciamo i massacri!...
«Pur troppo! è la storia di tutti i tempi! è la condanna tremenda della razza ragionevole! — La guerra è un disastro inevitabile. — Tutte le riforme politiche e sociali, tutti i progressi della libertà domandano il loro tributo di sangue! Rispetterò questa barbara convinzione, sebbene io vi potrei rammentare la più grande delle rivoluzioni umane, la rivoluzione di Cristo, operata dagli inermi pescatori di Galilea col pacifico mezzo della predicazione — potrei mostrarvi le immense legioni del paganesimo, debellate da poche parabole ripiene di verità e di sapienza — potrei altresì ricordarvi che il codice di un vangelo altamente umanitario, allora soltanto cominciò ad ispirare diffidenza ed avversione, quando i successori dei primi apostoli si arrogarono di imporlo colle spade e coi roghi.
«Forse che l’Europa del 1864 si troverebbe meno avanzata nel progresso delle idee liberali, ove gli anni degli eccidii e del terrore fossero stati impiegati nella educazione del popolo, nella diffusione dei lumi? Vi par egli che un secolo padrone della stampa, del telegrafo, del vapore, abbia proprio bisogno dei massacri per civilizzarsi, per ottenere ciò che desidera?...
«Ma l’Europa liberalissima vuole affrettarsi. Un indugio di trent’anni, di mezzo secolo, sarebbe troppo grave alla impazienza dei dittatori umanitarii. — Povero popolo!... bisogna far presto a redimerlo, a patto che egli paghi il suo riscatto con un miliardo di vittime.
«Ebbene! accettiamo il barbaro assurdo! Ammettiamo che l’animale ragionevole non ceda che alla logica delle bombe. Dichiariamoci antropofagi, e rinunziamo ad ogni speranza di convertire il mondo alle pacifiche utopie. — Ma almeno — poichè la carneficina dovrà aver luogo, procuriamo di assicurarne i risultati a benefizio delle nostre idee; non prodighiamo le vittime; non avventuriamo ad un improvvido azzardo il passato, il presente e l’avvenire. I moderati non chiedono altro. Facciamo che questa lotta sia breve, sia decisiva, e sopratutto vittoriosa.
«Mentre voi, uomini dell’azione, urlate nelle piazze i vostri entusiasmi; noi nei nostri gabinetti calcoliamo i mezzi di riuscita — voi fidate nell’intervento di Dio: noi numeriamo i nostri cannoni e le nostre navi corazzate — voi dite: popolo, come direste venti milioni di combattenti; noi passiamo in rassegna l’esercito, e contiamo trecentomila soldati — voi sperate nell’alleanza di tutti gli oppressi, di tutti i malcontenti di Europa; noi domandiamo l’appoggio o la neutralità di potenti nazioni — voi minacciate e sfidate, noi destreggiamo perchè ci lascino fare — voi vi fate beffe della diplomazia; noi ci facciamo diplomatici per ischermircene.
«Ecco perché ci chiamate moderati, uomini della paura! Moderati? Oh sì! noi lo siamo... La moderazione è da esseri ragionevoli — i bruti, i selvaggi non la conoscono. Paura? Se la passione non vi impedisse di renderci giustizia, voi la chiamereste prudenza. Una sola cosa noi temiamo: perdere il frutto del sangue versato a prezzo di nuovo sangue.
«Gridateci codardi, impotenti, traditori! Abbiamo fatto il callo alle vostre invettive! Noi aspetteremo fino a quando la convinzione del poter fare non ci gridi: avanti!
«Frattanto, i giorni della attesa non saranno sprecati per opera nostra. Noi non turberemo la fede del popolo con suggestioni nefande; predicheremo la concordia e il compatimento — insegneremo la libertà, esercizio di equi diritti e legge di sacri doveri. Mentre l’esercito si agguerrisce, impareremo a divenire nazione.
«Non è malva, non è oppio quello che noi spargiamo nei circoli, nelle associazioni degli operai, nelle scuole gratuite da noi favorite e protette. Noi insegniamo la libertà ogni qualvolta voi non ci interrompiate per obbligarci a combattere la licenza e la violazione delle leggi.
«Più che altro ci sta a cuore di riconciliare alle idee di civiltà e di progresso i molti che finora le guardarono con isgomento. Noi vogliamo persuadere gli onesti di tutte le classi che libertà è ordine assoluto, che rivoluzione non è sinonimo di anarchia e di ghigliottina. La nostra moderazione ha già risolto molte esitanze, conquistato molte simpatie. Procediamo a questo intento! È a sperarsi che il nostro metodo riesca completamente. È a sperarsi che i pertinaci fautori del passato, i più accaniti nemici delle nostre idee, gli stessi clericali, si accostino un giorno al banchetto delle nazionalità redente, e vengano con noi a celebrare la Pasqua di riconciliazione. Non è vero, signor curato revendissimo?»