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VII. Dove conduce il principio di nazionalità
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CAPITOLO VII.

Dove conduce il principio di nazionalità.

A quell’epoca — parlo del 1977 — l’Unione Europea1 era un fatto compiuto.

Quante transazioni di idee e di principii, quante lotte della intelligenza e della materia, quanti dolori, quanti sacrifizii, quanto sangue, per riuscire al patto federativo di tutti i popoli di Europa!

Non per questo dobbiamo ritenere illogici gli sforzi del secolo precedente per determinare e circoscrivere le nazioni entro i confini segnati dalla natura2 e dalla tradizione storica.

A prima giunta parrà assurdo. Ma l’idea di costituire l’Europa in una sola e grande nazione non avrebbe potuto sorgere nella mente dei popoli se il principio di separazione non si fosse preventivamente concretato.

La mente umana procede a gradi, ma non si diparte mai dalla linea retta.

Un po’ di storia retrospettiva per intenderci meglio.

Vi fu tempo — quando le aspirazioni, che più tardi si chiamarono nazionali, si agitavano in embrione nella mente di pochissimi — vi fu tempo in cui l’Italia era patria ignorata per la massima parte degli Italiani. — Ciò che per l’Italia, ripetasi per la Francia, per la Spagna, per tutte le altre nazioni.

Da noi si diceva: milanesi, bergamaschi, lucchesi, aretini, faentini e via via.

Ci vedevamo di rado. Poco ci conoscevamo: disgiunti da naturali barriere, da pregiudizii ereditati, ci detestavamo per tradizione.

Si aprirono delle strade — le comunicazioni si resero più facili — il commercio mise a contatto queste popolazioni limitrofe, che per molti secoli si credettero antipode. — Oh che?... non siamo tutti fratelli?... Non si parla tutti la medesima lingua? E dopo una tale domanda, in un giorno di buon umore o di comune pericolo, i cittadini di Lodi e quelli di Bergamo, i cittadini di Arezzo e i Pistoiesi, i cittadini di Faenza e quei di Ferrara, si fusero in una denominazione più collettiva — Lombardi, Toscani, Romagnoli. Il Municipio si eclissò nella provincia — più tardi le grosse provincie assorbirono le minori — le mille divisioni si restrinsero a cento — e quando le cento divennero dieci, la parola italiani uscì finalmente dallo spirito del popolo, e da quel giorno l’Italia fu fatta.

Più tardi — (le proporzioni si dilatano, ma il processo è sempre uguale) — italiani, francesi, spagnuoli, portoghesi, quattro nazioni di indole omogenea e strettamente collegate da reciproci interessi, un bel giorno si accorgono di aver comune l’origine. — Chi siamo? d’onde veniamo? Meraviglia! stupore!... E dire che per tanti secoli ci siamo guardati in cagnesco, chiamandoci stranieri con reciproca diffidenza ed abborrimento! Noi siamo latini! — La parola è trovata. — Una razza distinta dai germani e dagli slavi — una razza che deve fare da sè, che deve fondersi, serrarsi in vincolo dissolubile... — Latini, tedeschi, slavi — ecco la nuova divisione che deve fondare il nuovo principio separatore, che deve condurci alla unità europea.

Le strade di ferro, il compiuto traforo del Cenisio, il telegrafo parlante, le locomotive aeree, ed altre facilitazioni di contatto fra popoli e popoli, affrettano necessariamente l’applicazione del nuovo principio. Dal 1884 al 1890 la questione di razza tiene agitata l’Europa, come trenta anni prima la questione di nazionalità.

Non intendo farvi attraversare tutta la storia di un secolo; ma l’incidente che venne a determinare questo nuovo progresso verso la fratellanza universale vuol essere accennato come una terribile minaccia alla diplomazia incongruente ed egoista. I popoli latini erano prossimi a fondersi. Convenuti i patti, accettati in massima dalle singole parti. L’iniziativa latina doveva necessariamente seguirsi dai tedeschi e dagli slavi, informati al nuovo principio. Che si tarda?... Come si spiega questa lunga esitazione? Dal 1888 al 1890, pel corso di due anni, eterni, fastidiosi, rovinosi, le tre razze si guardano, diffidenti e non osano fare il passo decisivo.

Che farà l’Inghilterra? — ecco la domanda che tutti si ripetono. Da qual parte vorrà mettersi l’Inghilterra? — Rimanere neutrale?... isolarsi? — non è possibile — Unirsi ai latini? — Gli antichi pregiudizii vi si oppongono. — Mettersi cogli slavi? — C’è troppa ruggine colla Russia. — Farsi tedesca? — Non c’è il suo tornaconto.

L’Inghilterra diplomatizza..... minaccia interventi... piega a destra... piega a sinistra... giuoca di ministeri e di note contraddittorie... oggi parla latino... domani sbuffa degli off tanto lunghi o si prova a belare degli oschi...! A forza di svolgere, di invertire, di avviluppare la questione, l’Inghilterra perde la bussola... non riconosce più la propria razza... minaccia di dichiararsi calmucca...

Tutta Europa rimane per due anni sospesa, aggirata dal vecchio manubrio di lord Palmerston...

Finalmente... la mattina del 20 agosto 1890... un dispaccio dell’Agenzia Stefani leva i popoli dall’ansietà, l’Europa dall’immenso fastidio...

Il dispaccio annunzia un terribile cataclisma già preveduto fino dal secolo precedente...

La grande isola Britannica, a forza di proteggere e di mantenere l’equilibrio di Europa, ha finito col perdere ella stessa il proprio equilibrio, e si è capovolta,... sommersa nell’Oceano!

I bastimenti a vapore partiti quella mattina dall’Havre per approdare alle foci del Tamigi, dopo breve tratto di mare, furono attratti da un flusso irresistibile e condotti a naufragare sovra un informe ammasso di carbon fossile e di balle di cotone, che il giorno innanzi si chiamava Inghilterra.

Questo avvenimento storico era troppo grave perchè io potessi pretermetterlo. E debbo aggiungere — a vergogna dell’umanità — che il raccapriccio dell’orribile cataclisma non fu espresso dall’Europa colla desiderabile ipocrisia. A Parigi e a Pietroburgo si fecero luminarie e fuochi di artifizio. La questione di razza era sciolta, e nel novembre 1890 divenne un fatto compiuto.

Che manca ora all’unificazione completa di Europa? — Un breve passo dell’idea.

Cessate di chiamarvi latini, tedeschi e slavi! — non siete tutti Europei? Perchè fantasticare una differenza di origine? Una è la terra che vi ha generati; identici i costumi, pari la civiltà. Per una vicenda di tristissimi secoli, invasori ed invasi, persecutori e perseguitati, rimescolati da cupidigie prepotenti, da odii ed amori nefasti, qual’è di voi che porti nel volto e nello spirito i caratteri originali della propria razza? La Provvidenza vi ha resi bastardi perchè un giorno abbiate ad abbracciarvi e chiamarvi fratelli. Qual marchio vi distingue gli uni dagli altri?... Come potete riconoscervi? — Al diverso linguaggio? — Ebbene: perchè mai questo epilogo di razze non potrà parlare la medesima lingua?... Si stabilisca una lingua per tutti — la lingua universale, la lingua cosmica! — e tutte le differenze spariranno.

Credereste? — l’idea della unificazione di Europa fu appena enunziata dai pensatori, che subito venne sancita dall’universale consenso.

Parimenti ben accetto fu il pensiero di creare una lingua cosmica; ma la scelta di questa lingua diede origine a fatali dissensioni.

I vecchi pregiudizii tornarono a galla — i puntigli si inviperirono — la lotta fu lunga e piena di fastidi.

— Inventeremo una nuova lingua? — A che pro, mentre tante ne abbiamo? Perchè incomodare tutto il mondo allo studio di un nuovo dizionario? Non è meglio servirci di una lingua già usata..., della francese, per esempio, nota alla maggioranza degli Europei?

La questione fu deferita ad un congresso di filologi, i quali si adunarono a Berlino, e dopo tre anni di discussione, convennero nel proposito di creare la nuova lingua incominciando dal riformare l’alfabeto.

Quella decisione fu accolta in Europa con poco favore. Ma l’assemblea dei filologi stette dura! Erano molti, circa duemila, e caparbii.

Si accinsero in buona fede all’arduo lavoro. Si accapigliarono per ben cinque anni prima di decidere se il nuovo alfabeto avesse a cominciare coll’o piuttosto che coll’a. Millenovecentonovantanove oratori avevano parlato pro e contro. Quando l’ultimo inscritto si alzò per parlare in merito, una grossa bomba venne a cadere sul tavolo del presidente, e scoppiò con orribile fracasso.

Fuggirono tutti. Que’ buoni filologi, nel calore della polemica, non si erano accorti che la razza latina e la razza tedesca trattavamo da due anni la medesima questione cogli argomenti delle bombe e delle cannonate.

I latini entrarono in Berlino la mattina del 10 gennaio 1925, e occuparono la città malgrado le proteste e le minacce di tutta la Confederazione germanica. Era fissato che quella occupazione militare affrettasse l’effettuazione delle nuove idee.

I preliminari della unione federativa delle tre razze furono stesi a Berlino. Quei preliminari, due anni dopo, nel 1930, ebbero conferma di un trattato definitivo, che fu steso a Parigi e firmato da duemila rappresentanti del popolo europeo eletti per suffragio universale.

I latini, preponderanti di autorità per le recenti vittorie delle armi, ottennero di far accettare la francese come lingua cosmica. Singolare è l’articolo che si riferisce a questa legge. La lingua francese viene accettata a condizione che, per l’uso universale, essa venga traslocata dal naso alla bocca, e purgata dalla blague.

La grande Unione non poteva costituirsi che sopra un sistema di discentramento amministrativo molto frazionato e molto libero.

L’Europa si divise in ventiquattro dipartimenti. L’Italia, suddivisa in quindici comuni di primo ordine o centrali, e centoventidue di secondo ordine, nel 1957 era considerata il più popoloso e il più civile dipartimento della Unione.

Chi mai avrebbe immaginato che un sì rapido sviluppo di intelligenza e di moralità, dovesse emergere da un impeto di collera popolare, da un avvenimento barbaro in apparenza, e con tal titolo riprovato dagli storici contemporanei?

Questo avvenimento — poichè ci accadde accennarlo — fu l’incendio e la distruzione di Roma, decretata da quel popolo stesso che pochi anni prima aveva eletta la città dei Cesari e dei papi a capitale del nuovo regno italiano.

Istallarsi in Roma, consenziente la Curia, benevolo il papa, voleva dire per il governo italiano abdicazione di ogni idea liberale, di ogni principio di moralità. Tardi ma in tempo lo compresero gli italiani. Quando ai banali entusiasmi della piazza, alimentati dal baiocco papalino; quando al sacrilego connubio delle mascherate e delle processioni, delle riviste e dei tridui, sottentrò la calma normale di una nazione che grande si crede, allora i disinganni cominciarono, il pericolo si annunziò minaccioso, il tradimento della Curia esalò putrido e nero dalle sentine cardinalizie. Il Parlamento invaso da canonici — il Senato una congrega di cardinali e di cappuccini corpulenti — le riforme del Codice affidate ad una Commissione di Domenicani!

L’Italia, più che mai aggravata dalla cappa di piombo simboleggiata; dall’Alighieri, dopo tanti fastidi e tante guerre per la conquista della capitale, ricominciò a cospirare per disfarsene.

La nuova cospirazione affrontò senza esitanza e senza scrupoli il dogma religioso. Rénan preso il posto di Mazzini. La Vita di Gesù Cristo divenne la Giovine Italia dell’epoca nuova.

Pio X vide gonfiarsi la marea della rivoluzione anticattolica, e tremò di esser l’ultimo dei papi. Assediato dalle riforme fin dentro le mura del Vaticano, mal trincerato negli antichi sofismi e inesorabilmente aggredito dalla logica universale, stolidamente pertinace, pertinacemente crudele, si avvisò di sommergere la idea in un oceano di sangue umano. E il Nerone dei papi non ebbe raccapriccio a pensare che, per riuscire nel suo immane proposito, l’eccidio di tutti gli italiani, di trentadue milioni di italiani, non avrebbe rappresentato che un impercettibile episodio dell’universale macello.

Ad esempio di un suo predecessore, del pari insensato ma meno cannibale, Pio X fuggì da Roma con poco seguito, lasciando dietro i suoi passi benedizioni e scomuniche derise. Ma fuori dell’Italia, segnatamente in Francia e nel Belgio, il gonzume cattolico prestò al pontefice un contingente di armati abbastanza numeroso. Tutto il pantano, tutta la feccia del sanfedismo fermentò per la nuova crociata. Ricondurre il papa a Roma fu l’ultimo grido della setta impotente.

Questo supremo attentato dei papi contro il progresso, quest’ultimo sforzo per estinguere nella umanità la ragione, il soffio di Dio, allarmò gli Italiani, e convertì la pazienza di lunghi secoli in furore disperato. Si distrugga Roma! — fu il grido di tutta Italia. — E l’Italia, stanca di preti e di atroci pregiudizii, era pronta ad incenerire le sue cento città, a suicidarsi in un ammasso di ceneri.

La città dei Cesari, la sentina dei preti, la capitale di un nuovissimo regno, il giorno 24 settembre 1888, non era più che un mucchio di macerie e di carboni.

Due idolatrie, la pagana e la cattolica, furono sepolte in quell’incendio per non lasciare alcuna traccia della loro esistenza. Gli ultimi torsi di Apollo e di Vesta si rovesciarono nell’amplesso degli scheletri santificati, delle carogne adorate. Le due superstizioni sprofondarono nell’immenso rogo, irridendosi, imprecandosi. Da quell’incendio una gran luce si diffuse per tutta la Italia, la luce della riforma. Al vangelo dei papi sottentrò il vangelo che grida all’umanità: siate fratelli!

Che poteva la reazione dopo una protesta sì imponente? — I crociati si perdettero d’animo. Pio X, vedendo la sua causa disperata, domandò asilo alla Francia. Voleva morire nel castello di Avignone. Ma la città che altre volte aveva assaggiato la mala gramigna, non volle saperne di calze rosse nè di chieriche. E certo avrebbe accolto a sassate il venerando corteo, se il papa ed i suoi, con opportuno consiglio, non si fossero arrestati in una città meno guasta.

L’ultimo papa finì i suoi giorni a Carpentras, come un vecchio mobile obliato nel solaio.

Nell’anno 1890 il governo italiano trasferì la sua sede a Napoli, che ebbe titolo di capitale del Regno. Ciò avvenne con grande soddisfazione di tutti. Un conte Ricciardi, che dietro un tal esito avrebbe consentito ad accettare il portafogli degli interni, morì per esuberanza di gioia.

Questa digressione sulle cose di Roma mi ha preso il tempo che io intendeva consacrare ad un quadro statistico di tutti i dipartimenti e dei principali Comuni della Unione Europea, nell’anno 1977.

Io vi prego dispensarmi da tale fatica. A chiarire gli avvenimenti che sto per narrare sarà più opportuno un rapido cenno delle leggi che formano la base della nuova Costituzione, delle istituzioni, delle opinioni politiche e religiose dell’epoca, degli usi introdotti nella vita pubblica e privata, delle condizioni morali e fisiche della nuova società, considerata nell’individuo e nelle masse.

Tutto ciò occuperà lo spazio di un breve capitolo.

  1. A risparmio di note, si stamperanno in corsivo le parole, che rappresentano una nuova istituzione, un nuovo ordine di idee, un trovato qualunque dell’epoca a cui si riferisce la nostra storia.
  2. In tutta la storia del signore i vocaboli sono usati nel loro significato convenzionale.
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