< Achille in Sciro
Questo testo è stato riletto e controllato.
Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO

SCENA I

Aspetto esteriore di magnifico tempio dedicato a Bacco, donde si scende per due spaziose scale. È il tempio circondato da portici, che, prolungandosi da entrambi i lati, formano una gran piazza. Fra le distanze delle Colonne de’ portici scuopresi da un lato il bosco sacro alla deitá, dall’altro la marina di Sciro. La piazza è ripiena di baccanti, che, celebrando le feste del loro nume, al suono di vari stromenti cantano il seguente coro.

Preceduti e seguiti da numeroso corteggio di nobili donzelle, scender si vedono dal tempio ed avanzarsi a poco a poco Deidamia ed Achille in abito femminile.

Coro.   Ah! di tue lodi al suono,

     padre Lieo, discendi;
     ah! le nostr’alme accendi
     del sacro tuo furor.
Parte del coro.   O fonte de’ diletti,
     o dolce obblio de’ mali,
     per te d’esser mortali
     noi ci scordiam talor.
Tutto il coro.   Ah! le nostr’alme accendi
     del sacro tuo furor.
Parte del coro.   Per te, se in fredde vene
     pigro ristagna e langue,
     bolle di nuovo il sangue
     d’insolito calor.
Tutto il coro.   Ah! le nostr’alme accendi
     del sacro tuo furor.

Parte del coro.   Chi te raccoglie in seno,

          esser non può fallace:
          fai diventar verace
          un labbro mentitor.
Tutto il coro.   Ah! le nostr’alme accendi
          del sacro tuo furor.
Parte del coro.   Tu dái coraggio al vile,
          rasciughi al mesto i pianti,
          discacci dagli amanti
          l’incomodo rossor.
Tutto il coro.   O fonte de’ diletti,
          o dolce obblio de’ mali,
          accendi i nostri petti
          del sacro tuo furor.

Ad un improvviso suon di trombe, che odesi in lontano verso la marina, tace il coro, s’interrompe il ballo e s’arrestan tutti in attitudine di timore, riguardando verso il mare.

Deidamia. Udisti? (ad Achille)

Achille.   Udii.
Deidamia.   Chi temerario ardisce
turbar col suon profano
dell’orgie venerate il rito arcano?
Achille. Non m’ingannai: lo strepito sonoro
parte dal mar. Ma non saprei... Non veggo
che vuol dir, chi lo move... Ah! principessa,
eccone la cagion. Due navi, osserva,
vengono a questo lido.
Deidamia.   Aimè!
Achille.   Che temi?
Son lungi ancor.

Compariscono in lontananza due navi. Sentesi di nuovo il suono delle trombe suddette. Tutti partono fuggendo, toltone Achille e Deidamia.

Deidamia.   Fuggiam!

Achille.   Perché?
Deidamia.   Non sai
che d’infami pirati

tutto è infestato il mar? Cosí rapite

fûr le figlie infelici
al re d’Argo e di Tiro. Ignori forse
la recente di Sparta
perdita ingiuriosa? e che ne freme
invan la Grecia, e che domanda invano
l’infida sposa al predator troiano?
Chi sa che ancora in quelle
insidiose navi... Oh dèi! vien’ meco.
Achille. Di che temi, mia vita? Achille è teco.
Deidamia. Taci.
Achille.   E se teco è Achille...
Deidamia. (guardandosi intorno)
potrebbe udirti; e, se scoperto sei,
son perduta, ti perdo. E che direbbe
il genitor deluso? Una donzella
sai che ti crede, e si compiace e ride
del nostro amor; ma che sará se mai
(solo in pensarlo io moro),
se mai scopre che in Pirra Achille adoro?
Achille. Perdona, è vero.

SCENA II

Nearco e detti.

Nearco.   (Ecco gli amanti.) E deggio

sempre cosí tremar per voi? Vel dissi
pur mille volte: è troppo chiara ormai
questa vostra imprudente
cura di separarvi
sempre dalle compagne: ognun la vede,
ne parla ognuno. Andate al re. Son tutte
l’altre giá nella reggia.
Achille. (intento ad altro, non l’ascolta) Il suon guerriero

che da que’ legni uscí, d’armati e d’armi

mostra che vengan gravi.
Deidamia. (piano a Nearco)  (Oh, come in volto
giá tutto avvampa! Usar conviene ogni arte
per trarlo altrove.)
Nearco.   E non partite?
Achille.   Or ora,
principessa, verrò. Que’ legni in porto
bramo veder.
Deidamia. (turbata)  Come! ch’io parta e lasci
te in periglio sí grande? Ah! tu, lo vedo,
ne saresti capace, e dal tuo core
misuri il mio. So giá, crudele...
Achille.   Andiamo!
non ti sdegnar. Con un tuo sguardo irato
mi fai morir.
Deidamia.   No, non è vero, ingrato!
          No, ingrato! amor non senti;
     o, se pur senti amor,
     perder non vuoi del cor
     per me la pace.
          Ami, se tel rammenti;
     e puoi senza penar
     amare e disamar,
     quando ti piace.

Deidamia parte. Achille s’incammina appresso a Deidamia; ma, giunto alla scena, si volge e s’arresta di nuovo a mirar le navi, giá avvicinate a tal segno, che sulla sponda di una d’esse possa distinguersi un guerriero.

SCENA III

Nearco e di nuovo Achille.

Nearco. Di pacifiche ulive (guardando il porto)

han le prore adornate! Amiche navi
queste dunque saran.

Achille. (tornando indietro) Nearco, osserva

come splende fra l’armi
quel guerrier maestoso.
Nearco.   Ah! va’: non lice
a te, che una donzella
comparisci alle spoglie, in questo loco
scompagnata restar.
Achille. (con isdegno)  Ma non ti crede
ognuno il padre mio? Qual meraviglia
che appresso al genitor resti una figlia?
Nearco. Si sdegnerá Deidamia.
Achille.   È ver.
  (rimesso, parte, e poi si ferma)
Nearco.   (Che pena
è il nascondere Achille!)
Achille. (considerando il guerriero che è nulla nave) Oh! se ancor io
quell’elmo luminoso
in fronte avessi e quella spada al fianco...
  (torna risoluto)
Nearco, io son giá stanco
di più vedermi in questa gonna imbelle;
e ormai...
Nearco.   Che dici? Oh stelle! E non rammenti
quanto giova al tuo amor?
Achille.   Sí... Ma...
Nearco.   Deh! parti.
Achille. Lasciami un sol momento
a vagheggiar quell’armi.
Nearco.   (Aimè!) Sí, resta
pur quanto vuoi; ma Deidamia intanto
sará col tuo rival.
Achille. (in atto feroce)  Che?
Nearco.   Giunto or ora
è di Calcide il prence; e Licomede
vuol che la man di sposo
oggi porga alla figlia.

Achille.   Oh numi!

Nearco.   È vero
che è tuo quel cor; ma, se il rivale accorto
può lusingarla inosservata e sola,
chi sa, pensaci, Achille, ei te l’invola.
Achille.   Involarmi il mio tesoro!
     Ah! dov’è quest’alma ardita?
     ha da togliermi la vita
     chi vuol togliermi il mio ben.
          M’avvilisce in queste spoglie
     il poter di due pupille;
     ma lo so ch’io sono Achille,
     e mi sento Achille in sen. (parte)

SCENA IV

Nearco, e poi Ulisse ed Arcade dalle navi.

Nearco. Che difficile impresa,

Tetide, m’imponesti! Ogni momento
temo scoperto Achille. È ver che amore
lo tiene a fren: ma, se una tromba ascolta,
se rimira un guerrier, s’agita, avvampa,
sdegna l’abito imbelle. Or che farebbe,
se sapesse che Troia
senza lui non cadrá? che lui domanda
tutta la Grecia armata? Ah! tolga il cielo
che alcuno in questo lido
non venga a ricercarlo... Oh dèi! m’inganno?
Ulisse! E qual cagione
qui lo conduce? Ah! non a caso ei viene.
Che farò? Mi conosce,
e nella reggia appunto
del genitor d’Achille. È ver che ormai
lungo tempo è trascorso. In ogni caso

negherò d’esser quello. Olá! straniero,

non osar d’inoltrarti
senza dirmi chi sei. Questa è la legge:
il mio re la prescrisse.
Ulisse. Si ubbidisca alla legge: io sono Ulisse.
Nearco. Ulisse! I detti audaci
scusa, eroe generoso. Al re men volo
con sí lieta novella. (vuol partire)
Ulisse. (esaminandolo attentamente) Odi. E tu sei
servo di I.icomede?
Nearco.   Appunto.
Ulisse.   Il nome?
Nearco. Nearco.
Ulisse.   Ove nascesti?
Nearco. Nacqui in Corinto.
Ulisse.   E da’ paterni lidi
perché mai qui venisti?
Nearco.   Io venni... Oh Dio!
signor, troppo m’arresti; e il re frattanto
non sa chi giunse in porto.
Ulisse. Va’ dunque.
Nearco.   (Ah! ch’io fingea s’è quasi accorto.) (parte)

SCENA V

Ulisse ed Arcade.

Ulisse. Arcade, il ciel seconda

la nostra impresa.
Arcade.   Onde la speme?
Ulisse.   Udisti?
rimirasti colui? Sappi che il vidi
di Peleo in corte, ha giá molt’anni. Ei finse
patria e nome con noi; ma giá confuso
era alle mie richieste. Ah! menzognera

forse non è la fama: in gonna avvolto

qui si nasconde Achille. Arcade, vola
su l’orme di colui. Cerca, dimanda
chi sia, come qui venne, ove dimora,
se alcuno è seco. Ogni leggiero indizio
può servirne di scorta.
Arcade.   Io vado.
Ulisse.   Ascolta.
Che d’Achille si cerchi,
pensa a non dar sospetto ancor lontano.
Arcade. A un tuo seguace un tal ricordo è vano. (parte)

SCENA VI

Ulisse solo.

Giá con prospero vento

comincio a navigar. Per altri forse
quest’incontro felice,
quel confuso parlar, quel dubbio volto
poco saria; ma per Ulisse è molto.
          Fra l’ombre un lampo solo
     basta al nocchíer sagace,
     che giá ritrova il polo,
     giá riconosce il mar.
          Al pellegrin ben spesso
     basta un vestigio impresso,
     perché la via fallace
     non l’abbia ad ingannar. (parte)

SCENA VII

Appartamenti di Deidamia.

Licomede e Deidamia.

Licomede. Ma, se ancor nol vedesti, onde lo sai

che piacerti non può?
Deidamia.   Giá molto intesi
parlar di Teagene.
Licomede.   E vuoi di lui
su la fé giudicar degli occhi altrui?
Semplice! Va’; m’attendi
nel giardino real; colá fra poco
col tuo sposo verrò.
Deidamia.   Giá sposo!
Licomede.   Ei venne
su la mia fé: tutto è disposto. (partendo)
Deidamia.   Almeno...
padre... Ah! senti.
Licomede.   M’attende
il greco ambasciador. Piú non opporti:
siegui il consiglio mio.
Deidamia.   Dunque un comando
non è questo, o signor.
Licomede.   Sempre a una figlia
comanda il genitor, quando consiglia.
          Alme incaute, che, torbide ancora,
     non provaste l’umane vicende,
     ben lo veggo, vi spiace, v’offende
     il consiglio d’un labbro fedel.
          Confondete con l’utile il danno;
     chi vi regge credete tiranno;
     chi vi giova chiamate crudel. (parte)

SCENA VIII

Deidamia, indi Achille.

Deidamia. All’idol mio mancar di fede! Ah! prima

che altro sposo...
Achille. (con ironia sdegnosa) È permesso
a Deidamia l’ingresso? Io non vorrei
importuno arrivar. Come! tu sola?
dov’è lo sposo? A tributarti affetti
qui sperai ritrovarlo.
Deidamia.   E giá sapesti...
Achille. Tutto, ma non da te: prova sublime
della bella tua fede. A me, crudele!
celar sí nero arcano? a me, che t’amo
piú di me stesso? a me, che, in queste spoglie
avvilito per te... Barbara!...
Deidamia.   Oh Dio!
Non m’affligger, ben mio: di queste nozze
nulla seppi finor. Poc’anzi il padre
venne a proporle. Istupidii, m’intesi
tutto il sangue gelar.
Achille.   Pur, che farai?
Deidamia. Tutto, fuor che lasciarti. E prieghi e pianti
a svolger Licomede
pongansi in uso. Ei cederá, se vuole
salvar la figlia; e, quando ancor non ceda,
nulla speri ottener. Fu Achille il primo
che amai finora, e voglio
che sia l’ultimo Achille. Ah! mi vedrai
morir, cor mio, pria che tradirti mai.
Achille. Oh dolcissimi accenti! e qual mercede
posso renderti, o cara?
Deidamia.   Eccola: io chiedo,

se possibile è pur, che abbi piú cura

di non scoprirti.
Achille.   E questa gonna è poco?
Deidamia. Che val, se la smentisce
ogni tuo sguardo, ogni tuo moto? I passi
troppo liberi son; troppo è sicuro
quel tuo girar di ciglio. Ogni cagione
basta a farti sdegnar; né femminili
son poi gli sdegni tuoi. Che piú? Se vedi
un elmo, un’asta, o se parlar ne senti,
giá feroce diventi;
escon dagli occhi tuoi lampi e faville:
Pirra si perde e comparisce Achille.
Achille. Ma il cambiar di natura
è impresa troppo dura.
Deidamia.   È dura impresa
anche l’opporsi a un genitor. Poss’io
dunque con questa scusa
accettar Teagene.
Achille.   Ah! no, mia vita:
farò quanto m’imponi.
Deidamia.   Or lo prometti;
ma poi...
Achille.   No: questa volta
t’ubbidirò. Terrò gli sdegni a freno,
non parlerò piú d’armi; e de’ tuoi cenni
se piú fedele esecutor non sono,
corri in braccio al rival, ch’io ti perdono.
          Sí, ben mio: sarò qual vuoi;
     lo prometto a que’ bei rai
     che m’accendono d’amor.

SCENA IX

Ulisse e detti.

Deidamia. Taci; v’è chi t’ascolta.

Achille. (ad Ulisse, pieno di sdegno) E tu chi sei,
che temerario ardisci
di penetrar queste segrete soglie?
Che vuoi? Parla! rispondi!
o pentir ti farò...
Deidamia.   Pirra!
Ulisse.   (Che fiero
sembiante è quello!)
Deidamia. (piano ad Achille)  (E la promessa?)
Achille. (ravvedendosi)  (È vero.)
Ulisse. Non son di Licomede
queste le stanze?
Deidamia.   No.
Ulisse.   Straniero errai:
perdona. (vuol partire)
Deidamia.   Odi. E che brami
dal re?
Ulisse.   La Grecia chiede
da lui navi e guerrieri, or che s’affretta
d’unirsi armata alla comun vendetta.
Achille. (Felice chi v’andrá!)
Deidamia.   (Tutto nel volto
giá si cambiò.)
Ulisse.   S’apre al valore altrui
oggi una illustre via. Corrono a questa
impresa anche i piú vili.
Achille.   (E Achille resta!)
Deidamia. (Periglioso discorso!) (ad Ulisse) A Licomede,
stranier, quella è la via.
  (ad Achille) Sieguimi.

Achille. (tornando indietro)  Amico,

dimmi: le greche navi
dove ad unirsi andranno?
Deidamia. Pirra... ma...
Achille.   Giá ti sieguo. (Oh amor tiranno!) (partono)

SCENA X

Ulisse e poi Arcade.

Ulisse. O il desio di trovarlo

per tutto mel dipinge, o Pirra è Achille.
Peleo ne’ suoi verdi anni
quel volto avea: me ne rammento. E poi
quel parlar... quegli sguardi... È ver; ma Ulisse
fidarsi ancor non dee. Posso ingannarmi:
e, quando ei sia, pria di parlar, bisogna
piú cauto il tempo, il loco,
le circostanze esaminar. Felice
è in suo cammin di rado
chi varca i fiumi e non ne tenta il guado.
Tardi, fin che è maturo,
il gran colpo a scoppiar, ma sia sicuro.
Arcade. Ulisse!
Ulisse.   Arcade! e in queste
stanze t’inoltri?
Arcade.   Entrar ti vidi, e venni
su l’orme tue.
Ulisse.   Che raccogliesti intanto?
Arcade. Poco, o signor. Sol che Nearco è giunto
in questa terra, or compie l’anno; ha seco
una figlia gentil, mostra per essa
la real principessa
straordinario amor.
Ulisse.   Come si appella?

Arcade. Pirra.

Ulisse.   Pirra!
Arcade.   E per lei Nearco ha loco
fra’ reali ministri.
Ulisse.   E questo è poco?
Arcade. Ma ciò che giova?
Ulisse.   Ah! mio fedel, facciamo
gran viaggio a momenti. Odi, e dirai...

SCENA XI

Nearco e detti.

Nearco. Signor, vieni: che fai?

T’attende il re.
Ulisse.   Qua è il cammino?
Nearco.   È questo.
Ulisse. Ti sieguo: andiam. Non posso dirti il resto.
  (ad Arcade; indi parte con Nearco)

SCENA XII

Arcade solo.

Chi può d’Ulisse al pari

tutto veder? Ciò, che per gli altri è oscuro,
chiaro è per lui. No, la natura o l’arte
l’egual mai non formò. Dov’è chi sappia,
com’ei, mostrar tutti gli affetti in volto
senz’averli nel cor? chi, fra gli accenti
facili, ubbidienti
l’anime incatenar? chi ad ogni istante
cambiar genio, tenor, lingua e sembiante?
Io nol conosco ancor. D’Ulisse al fianco

ogni giorno mi trovo,

e ogni giorno al mio sguardo Ulisse è nuovo.
          Si varia in ciel talora,
     dopo l’estiva pioggia,
     l’iride si colora,
     quando ritorna il sol.
          Non cambia in altra foggia
     colomba al sol le piume,
     se va cambiando lume,
     mentre rivolge il vol. (parte)

SCENA XIII

Deliziosa nella reggia di Licomede.

Achille e Deidamia, poi Licomede e Teagene.

Deidamia. No, Achille, io non mi fido

di tue promesse. A Teagene in faccia
non saprai contenerti: il tuo calore
ti scoprirá. Parti, se m’ami.
Achille.   Almeno
qui tacito in disparte
lascia ch’io vegga il mio rivale.
Deidamia.   Oh Dio!
t’esponi a gran periglio. Eccolo.
Achille. (turbandosi)  Ah! questo
dunque è l’audace? E ho da soffrir?...
Deidamia.   Nol dissi?
giá ti trasporti.
Achille.   Un impeto primiero
fu questo: è giá sedato. Or son sicuro.
Deidamia. Tu parlerai.
Achille.   Non parlerò, tel giuro.
  (si ritira in disparte)

Licomede. Amata figlia, ecco il tuo sposo; ed ecco,

illustre Teagene,
la sposa tua.
Achille.   (Qui tollerar conviene).
Teagene. Chi ascolta, o principessa,
ciò che de’ pregi tuoi la fama dice,
la crede adulatrice; e chi ti mira,
la ritrova maligna. Io, che giá sono
tuo prigionier, t’offro quest’alma in dono.
Achille. (Che temerario!) (considerando sdegnosamente Teagene, s’avanza senza avvedersene)
Deidamia.   A cosí alto segno
non giunge il merto mio: tanto esaltarlo
non déi... Pirra! che vuoi? Parti. (avvedendosi che Achille è giá vicino a Teagene)
Achille.   Non parlo.
  (si ritira in disparte, come sopra)
Deidamia. (Dèi! qual timor m’assale?)
Teagene. Chi è mai questa donzella?
Licomede.   È il tuo rivale.
Deidamia. (Son morta!)
Achille.   (Ah, mi conosce!)
Licomede.   È Pirra il solo
amor di Deidamia. Altre non vide
piú tenere compagne il mondo intero.
Deidamia. (Ei parlava da scherzo, e disse il vero.)
Licomede. Deidamia, or che ti sembra
di sí degno consorte?
Deidamia.   I pregi, o padre,
ne ammiro, ne comprendo;
ma...
Licomede.   Tu arrossisci! Il tuo rossore intendo.
          Intendo il tuo rossor;
     — Amo — vorresti dir:
     ma in faccia al genitor
     parlar non vuoi.

          Il farti piú soffrir

     sarebbe crudeltá:
     restino in libertá
     gli affetti tuoi. (parte)

SCENA XIV

Achille, Deidamia e Teagene.

Achille. (Ah, se altre spoglie avessi!)

Teagene.   Or che siam soli,
principessa gentil, soffri ch’io spieghi
l’ardor di questo sen; soffri ch’io dica...
Deidamia. Non parlarmi d’amor: ne son nemica.
               Del sen gli ardori
          nessun mi vanti;
          non soffro amori,
          non voglio amanti:
          troppo mi è cara
          la libertá.
               Se fosse ognuno
          cosí sincero,
          meno importuno
          parrebbe il vero;
          saria piú rara
          l’infedeltá.
  (parte con Achille, il quale si ferma nell’entrare)
Teagene. Giusti numi, e in tal guisa
Deidamia m’accoglie! In che son reo?
che fu? Seguasi. (vuol seguire Deidamia)
Achille. (arrestandolo)  Ferma! ove t’affretti?
Teagene. A Deidamia appresso:
raggiungerla desio.
Achille. (risoluto)  Non è permesso!
Teagene. Chi può vietarlo?

Achille.   Io!

Teagene.   Tu?
Achille.   Sì: né giammai,
sappilo, io parlo invano. (parte lentamente)
Teagene. (Delle ninfe di Sciro il genio è strano.
E pur quella fierezza
ha un non so che, che piace.) Odi. Ma dimmi
almen perché.
Achille.   Dissi abbastanza. (partendo lentamente)
Teagene.   E credi
che di te sola io tema?
credi bastar tu sola?
Achille. (con aria feroce)  Io basto, e trema!
Teagene. (Quell’ardir m’innamora.)
Deidamia. (Ah! mancator, non sei contento ancora?)

(nell’atto che Achille si rivolge per partire, incontra sulla scena Deidamia, che gli dice sdegnata il verso suddetto e lo lascia confuso)

Achille. (Misero! È ver, trascorsi.)

Teagene.   Ascolta: io voglio,
bella ninfa, ubbidirti; e per mercede
bramo sol de’ tuoi sdegni
l’origine saper. Di’... Ma... Sospiri!
mi guardi! ti confondi!
Qual cambiamento è il tuo? Parla! rispondi!
Achille.   Risponderti vorrei;
     ma gela il labbro e tace:
     lo rese amor loquace;
     muto lo rende amor:
          amor, che a suo talento
     rende un imbelle audace,
     e abbatte in un momento,
     quando gli piace, un cor. (parte)

SCENA XV

Teagene solo.

Son fuor di me. Quanto son mai vezzose

l’ire in quel volto! Ah! forse m’ama, e ch’io
siegua un’altra non soffre. E cosí presto
è amante ed è gelosa? Una donzella
parlar cosí! cosí mostrarsi audace!
Intenderla non so: so che mi piace.
          Chi mai vide altrove ancora
     cosí amabile fierezza,
     che minaccia ed innamora,
     che diletta e fa tremar?
          Cinga il brando, ed abbia questa
     l’asta in pugno e l’elmo in testa,
     e con Pallade in bellezza
     giá potrebbe contrastar. (parte)

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.