< Adriano in Siria
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Atto secondo Varianti

ATTO TERZO

SCENA I

Sala terrena con sedie.

Sabina ed Aquilio.

Sabina. Come! Ch’io parta? A questo segno è cieco?

È ingiusto a questo segno? E di qual fallo
vuol punirmi Adriano?
Aquilio.   Ei sa che fosti
d’Emirena e Farnaspe
consigliera alla fuga. Ei del custode
ti crede seduttrice; e con tal arte
sa i tuoi falli ingrandir, che a chi lo sente,
nel punirti cosí, sembra clemente.
Sabina. Serbando la sua gloria,
beneficando una rivale, io volli
procurarmi il suo cor. Non l’odio o l’ira
mi consigliò, ma la pietá, l’amore;
onde error non commisi, o è lieve errore.
Aquilio. Sabina, io lo conosco, e lo conosce
forse Adriano ancor; ma giova a lui
un lodevol pretesto.
Sabina.   E ben, mi vegga
e n’arrossisca.
Aquilio.   Il comparirgli innanzi
di vietarti m’impose.

Cabina.   Oh dèi! Ma deggio

partir senza vederlo?
Aquilio.   Appunto.
Sabina.   E quando?
Aquilio. Giá le navi son pronte.
Sabina.   Un tal comando
ubbidir non si deve.
Aquilio.   Ah! no: ti perdi.
Parti; fidati a me. Lo vincerai
non resistendo. Io cercherò l’istante
di farlo ravveder.
Sabina.   Ma digli almeno...
Aquilio. Va’ senz’altro parlar, t’intendo appieno.
Sabina.   Digli ch’è un infedele;
     digli che mi tradí.
     Senti: non dir cosí:
     digli che partirò;
     digli che l’amo.
          Ah! se nel mio martír
     lo vedi sospirar,
     tornami a consolar;
     ché prima di morir
     di piú non bramo. (parte)

SCENA II

Aquilio solo.

Io la trama dispongo

perché parta Sabina, e poi m’affanno
nel vederla partir. Pensa, o mio core,
che la perdi, se resta. Ella risveglia
d’Augusto la virtú. Soffrir non puoi
l’assenza del tuo bene;
ma, se lieto esser vuoi, soffrir conviene.

          Piú bella al tempo usato

     fan germogliar la vite
     le provvide ferite
     d’esperto agricoltor.
          Non stilla in altra guisa
     il balsamo odorato,
     che da una pianta incisa
     dall’arabo pastor. (nel partire s’incontra in Adriano)

SCENA III

Adriano ed Aquilio.

Adriano. Aquilio, che ottenesti?

Aquilio. Nulla, signore: è risoluta e vuole
partir Sabina.
Adriano.   Ah! se sdegnata è meco,
ha gran ragion.
Aquilio.   Ma moderate a segno
son le querele sue, che d’altro amante
la credo accesa. Io giurerei che serve
l’incostanza d’Augusto
di pretesto alla sua.
Adriano.   No, non mi piace
questa soverchia pace. Andiamo a lei.
Aquilio. Ma, signor, ti scordasti
del re de’ parti. Il mio consiglio accetti;
vuoi tentar di placarlo, a te lo chiami;
ei vien, t’attende; e nel compir l’impresa
ti confondi e vacilli?
Adriano.   Ah! tu non sai
qual guerra di pensieri
agita l’alma mia. Roma, il senato,
Emirena, Sabina,
la mia gloria, il mio amor, tutto ho presente;

tutto accordar vorrei: trovo per tutto

qualche scoglio a temer. Scelgo, mi pento:
poi d’essermi pentito
mi ritorno a pentir. Mi stanco intanto
nel lungo dubitar, tal che dal male
il ben piú non distinguo. Alfin mi veggio
stretto dal tempo, e mi risolvo al peggio.
Aquilio. Eh! finisci una volta
di tormentar te stesso. Hai quasi in braccio
la bella che sospiri, e non ardisci
di stringerla al tuo seno? Io non ho core
di vederti soffrir. Vado de’ parti
ad introdurre il re.
Adriano.   Senti. E se poi...
Aquilio. Non piú dubbi, signor.
Adriano.   Fa’ quel che vuoi.
 (Aquilio parte)

SCENA IV

Adriano, poi Osroa ed Aquilio.

Adriano. Che dir può il mondo? Alfine

il conservar la vita
è ragion di natura: e in tanta pena
io viver non saprei senza Emirena.
Osroa. Che si chiede da me?
Adriano.   Che il re de’ parti
sieda e m’ascolti: e, se non pace, intanto
abbia triegua il suo sdegno. (siede)
Osroa. A lunga sofferenza io non m’impegno. (siede)
Aquilio. (Del mio destin si tratta.)
Adriano.   Osroa, nel mondo
tutto è soggetto a cambiamento, e strano
saria che gli odii nostri

soli fossero eterni. Alfin la pace

è necessaria al vinto,
utile al vincitor. Fra noi mancata
è la materia all’ire. Il fato avverso
tanto ti tolse, e tanto
mi die’ benigno il ciel, che non rimane
né che vincere a noi,
né che perdere a te.
Osroa.   Sí, conservai
l’odio primiero; onde mi resta assai.
Aquilio. (Che barbara ferocia!)
Adriano.   Ah! non vantarti
d’un ben che posseduto
tormenta il possessor. Puoi meglio altronde
il tuo fasto appagar. Sappi che sei
arbitro tu del mio riposo, appunto
qual son io de’ tuoi giorni. Ordina in guisa
gli umani eventi il ciel, che tutti a tutti
siam necessari, e il piú felice spesso
nel piú misero trova
che sperar, che temer. Sol che tu parli,
la principessa è mia; sol ch’io lo voglia,
tu sei libero e re. Facciamo, amico,
uso del poter nostro
a vantaggio d’entrambi. Io chiedo in dono
da te la figlia, e t’offerisco il trono.
Aquilio. (Tremo della risposta.)
Adriano.   E ben, che dici?
Tu sorridi e non parli? (ad Osroa)
Osroa.   E vuoi ch’io creda
sí debole Adriano?
Adriano.   Ah! che pur troppo,
Osroa, io lo son. Dissimular che giova?
Se la bella Emirena
meco non vedo in dolce nodo unita,
non ho ben, non ho pace e non ho vita.

Osroa. Quando basti sí poco

a renderti felice, io son contento:
che si chiami la figlia.
Adriano.   Accetti dunque
le offerte mie?
Osroa.   Chi ricusar potrebbe?
Adriano. Ah! tu mi rendi, amico,
il perduto riposo. Aquilio, a noi
la principessa invia.
Aquilio. Ubbidito sarai. (Sabina è mia!) (parte)
Adriano. Ora a viver comincio. Olá! togliete (escono due guardie)
quelle catene al re de’ parti.
Osroa.   Ancora
non è tempo, Adriano. Io goderei
prima de’ doni tuoi che tu de’ miei.
Adriano. Van riguardo. Eseguite (alle guardie)
il cenno mio.
Osroa.   Non è dover. Partite. (partono le guardie)
Adriano. Del peso ingiurioso io pur vorrei
vederti alleggerir.
Osroa.   Son sí contento,
pensando all’avvenir, ch’io non lo sento.
Adriano. E pur non viene. (guardando per la scena)
Osroa.   Impaziente anch’io
ne sono al par di te.
Adriano.   La principessa
io vado ad affrettar. (s’alza)
Osroa.   No: giá s’appressa.
  (s’alza, trattenendolo)

SCENA V

Emirena, Adriano ed Osroa.

Adriano. Bellissima Emirena... (incontrandola)

Osroa. (ad Adriano)  A lei primiero
meglio sará ch’io tutto spieghi.

Adriano.   È vero.

Emirena. (Perché son cosí lieti?)
Osroa.   E pure, o figlia,
fra le miserie nostre abbiamo ancora
di che goder. Lo crederesti? Io trovo
nella bellezza tua tutto il compenso
delle perdite mie.
Emirena.   Che dir mi vuoi?
Adriano. Quella fiamma verace... (ad Emirena)
Osroa. Lasciami terminar. (ad Adriano)
Adriano.   Come a te piace.
Osroa. Tal virtú ne’ tuoi lumi (ad Emirena)
raccolse amico il ciel, che, fatto servo,
il nostro vincitor per te sospira.
Offre tutto per te; scorda gli oltraggi;
s’abbassa alle preghiere; odia la vita
senza di te, che per suo nume adora.
Adriano. Tu dunque puoi... (ad Emirena)
Osroa. (ad Adriano)  Non ho finito ancora.
Adriano. (Mi fa morir questa lentezza.) (da sé)
Osroa.   Io voglio...
Senti, o figlia, e scolpisci
questo del genitore ultimo cenno
nel piú sacro dell’alma. Io voglio almeno
in te lasciar, morendo,
la mia vendicatrice. Odia il tiranno,
com’io l’odiai finora: e questa sia
l’ereditá paterna.
Adriano.   Osroa, che dici!
Osroa. Né timor né speranza
t’unisca a lui; ma forsennato, afflitto
vedilo a tutte l’ore
fremer di sdegno e delirar d’amore.
Adriano. Giusti dèi! son schernito.
Osroa. Parli Cesare adesso: Osroa ha finito.
Adriano. Sconsigliato! infelice! e non t’avvedi

che tu il fulmine accendi

che opprimer ti dovrá?
Osroa.   Smania, o superbo:
son le tue furie il mio trionfo.
Adriano.   Oh numi!
Qual rabbia! qual veleno!
che sguardi! che parlar! Tanto alle fiere
può l’uomo assomigliar! Stupisco a segno
che scema lo stupor forza allo sdegno.
          Barbaro, non comprendo,
     se sei feroce o stolto:
     se ti vedessi in volto,
     avresti orror di te.
          Orsa nel sen piagata,
     serpe nel suol calcata,
     leon ch’apre gli artigli,
     tigre che perda i figli,
     fiera cosí non è. (parte)

SCENA VI

Osroa ed Emirena.

Osroa. Figlia, s’è ver che m’ami, ecco il momento

di farne prova. Un genitor soccorri,
che ti chiede pietá.
Emirena.   Se basta il sangue,
è tuo: lo spargerò.
Osroa.   Toglimi all’ire
del tiranno roman. Senza catene
ti veggo pur.
Emirena.   Sí: ci conobbe Augusto
d’ogn’insidia innocenti, e le disciolse
a Farnaspe ed a me. Ma qual soccorso
perciò posso recarti?

Osroa.   Un ferro, un laccio,

un veleno, una morte,
qualunque sia.
Emirena.   Padre, che dici? Queste
sarian prove d’amor? La figlia istessa
scellerata dovrebbe... Ah! senza orrore
non posso immaginarlo. Invan lo speri.
Il cor l’opra abborrisce; e, quando il core
fosse tanto inumano,
sapria nell’opra istupidir la mano.
Osroa. Va’! ti credea piú degna
dell’origine tua. Tremi di morte
al nome sol! Con piú sicure ciglia
riguardarla dovria d’Osroa una figlia.
          Non ritrova un’alma forte
     che temer nell’ore estreme:
     la viltá di chi lo teme
     fa terribile il morir.
          Non è ver che sia la morte
     il peggior di tutti i mali:
     è un sollievo de’ mortali,
     che son stanchi di soffrir. (parte)

SCENA VII

Emirena e poi Farnaspe.

Emirena. Misera! a qual consiglio

appigliarmi dovrò?
Farnaspe. (con fretta)  Corri, Emirena.
Emirena. Dove?
Farnaspe.   Ad Augusto.
Emirena.   E perché mai?
Farnaspe.   Procura
che il comando rivochi
contro il tuo genitore.

Emirena. Qual è?

Farnaspe.   Vuoi che, traendo
delle catene sue l’indegna soma,
vada...
Emirena.   A morte?
Farnaspe.   No: peggio.
Emirena.   E dove?
Farnaspe.   A Roma.
Emirena. E che posso a suo pro?
Farnaspe.   Va’, prega, piangi,
offriti sposa ad Adriano: obblia
i ritegni, i riguardi,
le speranze, l’amor. Tutto si perda,
e il re si salvi.
Emirena.   Egli pur or m’impose
d’odiar Cesare sempre.
Farnaspe.   Ah! tu non devi
un comando eseguir dato nell’ira,
ch’è una breve follia. Dobbiamo, o cara,
salvarlo suo malgrado.
Emirena.   Ad altri in braccio
andar dunque degg’io? Tu lo consigli?
e con tanta costanza?
Farnaspe.   Ah! principessa,
tu non vedi il mio cor. Non sai qual pena
questo sforzo mi costa. Allor ch’io parlo,
non ho fibra nel seno
che non senta tremar; stilla di sangue
non ho che per le vene
gelida non mi scorra. Io so che perdo
l’unico ben, per cui
m’era dolce la vita. Io so che resto
afflitto, disperato.
grave agli altri ed a me. Ma l’Asia tutta
che direbbe di noi, se Osroa perisse,
quando possiam salvarlo? Anima mia,

sacrifichiamo a questo

necessario dover la nostra pace.
Va’: consorte d’Augusto
il grado piú sublime
occupa della terra. Un gran sollievo
per me sará quel replicar talora
nel mio dolor profondo:
— Chi die’ legge al mio cor, dá legge al mondo.
Emirena. Ah! se vuoi ch’io consenta
a perderti, ben mio, deh! non mostrarti
cosí degno d’amor.
Farnaspe.   Bella mia speme,
no, non mi perdi: infin ch’io resti in vita,
t’amero, sarò tuo, sol però quanto
la gloria tua, la mia virtú concede:
lo giuro a’ numi tutti e a que’ bei lumi
che per me son pur numi. E tu... Ma dove
mi trasporta l’affanno? Ah! che ci manca
anche il tempo a dolerci. Osroa perisce,
mentre pensiamo a conservarlo.
Emirena.   Addio.
Farnaspe. Ascoltami.
Emirena.   Che vuoi?
Farnaspe.   Va’... Ferma... Oh dèi!
Vorrei che mi lasciassi, e non vorrei.
Emirena.   Oh Dio! mancar mi sento
     mentre ti lascio, o caro.
     Oh Dio! che tanto amaro
     forse il morir non è.
          Ah! non dicesti il vero,
     ben mio, quando dicesti
     che tu per me nascesti,
     ch’io nacqui sol per te. (parte)

SCENA VIII

Farnaspe solo.

Di vassallo e d’amante

la fedeltá, la tenerezza a prova
pugnano nel mio seno. Or questa, or quella
è vinta, è vincitrice, ed a vicenda
varian fortuna e tempre:
ma, qualunque trionfi, io perdo sempre.
          Son sventurato: — ma pure, o stelle,
     io vi son grato — che almen sí belle
     sian le cagioni del mio martír.
          Poco è funesta — l’altrui fortuna,
     quando non resta — ragione alcuna
     né di pentirsi, né d’arrossir. (parte)

SCENA IX

Luogo magnifico del palazzo imperiale; scale per cui si scende alle ripe dell’Oronte; veduta di campagna e giardini sull’opposta sponda.

Sabina con séguito di matrone e cavalieri romani,
Aquilio, indi Adriano.

Sabina. Temerario! non piú. Benché da lui

mi discacci Adriano, è a te delitto
del mio cor la richiesta.
Aquilio. La prima volta è questa...
Sabina. E sia l’ultima volta
che mi parli d’amor. (partendo per imbarcarsi)
Adriano.   Sabina, ascolta.
Aquilio. (Aimè.)
Sabina.   (Numi!) Che chiedi? (tornando indietro)
Adriano.   A questo segno

odioso io ti son, che partir vuoi

senza vedermi?
Sabina.   Ah! non schernirmi ancora.
Mi discacci, mi vieti
di comparirti innanzi...
Adriano.   Io? quando? Aquilio,
non richiese Sabina
la libertá d’abbandonarmi?
Sabina.   Oh dèi!
Non fu cenno d’Augusto (ad Aquilio)
ch’io dovessi partir senza mirarlo?
Aquilio. (Se parlo, mi condanno, e se non parlo.)
Sabina. Perfido! (ad Aquilio)
Adriano.   Non rispondi?
Sabina.   Or tutte intendo
le trame tue. Sappi, Adriano...
Aquilio.   È vero,
signor, Sabina adoro, e, lei presente,
temei la tua virtú: perciò lontana...
Adriano. Basta. Che tradimento! Anima rea!
Tu rivale ad Augusto? Olá! costui
sia custodito.
Aquilio.   (Avverso ciel!) (è disarmato)
Adriano.   Né pensi
la mia sposa a partir.
Sabina.   Tua sposa!
Adriano.   Io sento
che risano a gran passi. Il dover mio,
d’Emirena i disprezzi,
gli odii del genitore...

SCENA ULTIMA

Emirena, Farnaspe e detti.

Emirena. Ah, Cesare, pietá!

Farnaspe.   Pietá, signore!
Emirena. Rendimi il padre mio.
Farnaspe. Conservami il mio re.
Emirena.   Rendilo; e poi
eccomi tua, se vuoi.
Adriano.   Che?
Farnaspe.   Sí: ti cedo
l’impero di quel cor.
Adriano.   Tu?
Emirena.   Sí: sarai
tu il nume mio. Per quel sereno il giuro
raggio del ciel che nel tuo volto adoro,
per quel sudato alloro
che porti al crin, per questa invitta mano,
ch’è sostegno del mondo,
ch’io bacio... (s’inginocchia)
Adriano.   Ah! sorgi: ah! taci. (È donna o dea?
Quando m’innamorò, cosí piangea.)
Sabina. (Qual contrasto in quel petto
fan l’onore e l’affetto!)
Adriano. (Se alla ragione io cedo,
perdo Emirena: e se all’amor mi fido,
la mia Sabina uccido. Ah, qual cimento,
quale angustia crudele!)
Sabina. (E pur mi fa pietá, benché infedele.)
Emirena. Cesare, e non risolvi?
Sabina.   Augusto, alfine...
Adriano. Ah! per pietá non tormentarmi. Io tutto
quanto dir mi potrai,
tutto, Sabina, io so.

Sabina.   No, non lo sai:

odi. Troppo fatali
son le nostre ferite. Uno di noi
dee morirne d’affanno: io, se ti perdo;
tu, se perdi Emirena. Ah! non sia vero
che, per salvar d’inutil donna i giorni,
perisca un tale eroe. Sérbati, o caro,
alla tua gloria, alla tua patria, al mondo,
se non a me. D’ogni dover ti sciolgo,
ti perdono ogni offesa;
ed io stessa sarò la tua difesa.
Adriano. Come! (stupido)
Sabina.   Cesare, addio. (in atto di partire)
Adriano. (arrestandola)  Férmati. Oh grande!
oh generosa! oh degna
di mille imperi! Ah, quale eccesso è questo
d’inudita virtú! Tutti volete
dunque farmi arrossir? Fedel vassallo,
tu la sposa mi cedi (a Farnaspe)
a favor del tuo re! Figlia pietosa,
sacrifichi te stessa (ad Emirena)
tu per il padre tuo! Tradita amante, (a Sabina)
non pensi tu che al mio riposo! Ed io,
io sol fra tanti forti
il debole sarò? Né mi nascondo
per vergogna a’ viventi? E siedo in trono?
E do leggi alla terra? Ah! no. Facciamo
tutti felici. Al re de’ parti io dono
e regno e libertá; rendo a Farnaspe
la sua bella Emirena; Aquilio assolvo
d’ogni fallo commesso;
e a te, degno di te, rendo me stesso. (a Sabina)
Farnaspe. Oh contento improvviso!
Sabina. Ecco il vero Adriano: or lo ravviso.
Emirena. Finch’io respiri, Augusto,
grata quest’alma a’ benefizi tuoi...

Adriano. Se grata esser mi vuoi, lasciami ormai

la pace del mio cor. Poco è sicura,
finché appresso mi sei. Subito parti,
io te ne priego. Ecco il tuo sposo: il padre
colá ritroverai. Lieti vivete:
e tutti tre spargete
questi deliri miei d’eterno obblio.
Emirena. Almen, signor... (volendogli baciar la mano)
Adriano. (non soffrendolo) Basta, Emirena. Addio.
Coro.   S’oda, Augusto, infin su l’etra
     il tuo nome ognor cosí;
          e da noi con bianca pietra
     sia segnato il fausto dí.1

Al suono di lieta e strepitosa sinfonia si scuopre la luminosa reggia del Sole. Comparisce il nume, assiso sull’aureo suo carro in atto di trattenere gli ardenti corsieri. S’affollano d’intorno a lui le Ore, le Stagioni e gli altri Geni, suoi ministri e seguaci; ed egli finalmente prorompe ne’ sensi seguenti:

LICENZA

Lo so, tacete, Ore seguaci. Al corso

voi m’affrettate invan: dal cielo ibero
non sperate ch’io parta in sí gran giorno.
So ben che il mio ritorno
dell’opposto emisfero
giá l’inquieto abitator sospira:
so che, giá desto, ammira
l’ostinata sua notte, il pertinace

scintillar delle stelle e la dimora

della sorda a’ suoi voti infida aurora;
ma il soffra in pace, e pensi
ch’oggi nasce un Fernando. Antica in cielo
solenne legge è questa:
perché nascan gli Alcidi, il Sol s’arresta.
          Ma d’esser non pretenda
     uguale al nume ispano,
     benché l’eroe tebano
     pur m’arrestò cosí.
          La differenza intenda
     chi dilatar mi vide
     la notte per Alcide,
     ma per Fernando il dí.

  1. L’Adriano, ridotto dall’autore nella forma antecedente, da esso esclusivamente preferita, dovendo essere rappresentato alla corte di Madrid, in occasione del solenne giorno natale di Ferdinando sesto, ebbe aggiunta la seguente Licenza [Avvertenza dell’edizione parigina].

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