< Alcyone
Questo testo è stato riletto e controllato.
Ditirambo I
Furit aestus Pace



DITIRAMBO I.

ROMÆ FVGIFERÆ DIC..

O
VE sono i cavalli del Sole

criniti di furia e di fiamma?
le code prolisse
annodate con liste
5di porpora, l’ugne
adorne di lampi
su l’aride ariste?
Ove l’aie come circhi,
le trebbie come pugne,
10come atleti la rustica prole?
Ove sono i cavalli del Sole
disgiunti dal carro celeste?
Ove le sferze sonanti,
le rèdine lunghe sbandite,
15il tinnir dei metalli,
il brillar delle madide groppe?
Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?
Ove la femmina bella
coperta di loppe e di reste
20come d’ori e di gemme?
Ove gli scherni, le risse,
le nude coltella,
il sangue che fuma e che bolle,

il giovine ucciso che cade
25nelle sue biade
asperse del suo ricco sangue
e del vin suo vermiglio?
Ove il tuo nome, o Dionìso,
e il tuo riso e il tuo furore
30e il tuo periglio?
Qui scarsa messe
per piccole vite,
aia angusta, fatica molle,
mani prudenti, fievoli gole.
35O Maremme, o Maremme,
bellezza immite
nata dalla Febbre e dal Sole,
o regni diurni di Dite,
voi l’anima mia sogna!
40O Roma, o Roma, la prima
davanti alla faccia del Sole,
incombustibile forza,
semenza di gloria,
unica nata dal solco
45del violento
ardua spica opima,
te l’anima mia sogna ed agogna
in un mar di frumento,
dal Cimino solitario

50ai vitiferi colli dei Volsci,
fino a Minturno ov’erra
nel limo l’ombra di Mario,
fino a Sinuessa
ebra di Massico forte,
55fino alle auree porte
della Campania promessa,
in un mar di frumento
innumerevole
come le trionfate stirpi
60della tua guerra!


O
ARCE della Terra,

nel dipartirmi
da te, al conspetto dell’Agro
ebbi presagio cruento
65che m’infiammò d’amore
più novo e gagliardo
per tutte le tue are
e per tutte le tue tombe.
Vidi campo di rossi
70papaveri vasto al mio sguardo
come letto di strage,
come flutto ancor caldo
sgorgato da una ecatombe.

Non mai più fervente rossore
75veduto avean gli occhi miei grandi,
e tutta la mia vita tremava
dalle radici
come s’io mi svenassi
sul sacro tuo suolo
80con vene giganti.
E l’anima, che si dipartiva,
impetuosamente
verso di te si rivolse, incesa
da dolor rovente
85ch’ella udì stridere come
tizzo in piaga viva;
e tutta verso di te protesa
era, gridando il tuo nome
al fulgor vermiglio,
90dal carro strepitoso
che la traeva in esiglio.
E intollerabile male
tra tutti i suoi mali
a lei parve la sua dipartita;
95sentì la sua vita
spoglia d’ogni forza e senz’ali,
pallida e senza riposa
piegata su l’acre ferita,
ahi, mirò sé stessa lontana.



100
O
TOSCANA, o Toscana,

dolce tu sei ne’ tuoi orti
che lo spino ti chiude
e il cipresso ti guarda;
dolce sei nelle tue colline
105che il ruscello ti riga
e l’ulivo t’inghirlanda.
E una dura virtude
certo nelle tue torri commise
e murò per la guerra civile
110le pietre forti;
e carca di grandi morti
tu sei ne’ tuoi sculti sepolcri,
o Fiorenza, o Fiorenza,
giglio di potenza,
115virgulto primaverile;
e certo non è grazia alcuna
che vinca tua grazia d’aprile
quando la valle è una cuna
di fiori di sogni e di pace
120ove Simonetta si giace.
Ma cuna dell’anima mia
è il solco del carro stridente
nella pietra dell’Appia via.
A piè del Celio infrequente,
125sotto la Porta Capena

gemere udì l’Acqua Marcia
che abbevera l’Urbe affocata.
Si mosse di là fra le tombe
e i lauri, fra la Morte che guata
130e la Gloria che perde le frondi,
ai colli d’Alba giocondi.
Lasciò dietro sé le molli ombre;
più non vide la lunga catena
rosseggiar degli acquedutti;
135non vide la fresca Preneste;
sdegnò di Tuscolo i frutti,
d’Aricia la selva serena;
s’affrettò alla spiaggia tirrena
ove dura fervente
140la bava delle tempeste,
alle reggie di Circe funeste
ove urtò d’Odisseo la carena.
Anelante al deserto di luce
ove fuma vapor che avvelena
145e rapisce gli spirti errabondi,
scoperse la candida rupe
onde Anxur pendente
nella truce canicola incombe
allo stagno mortifero e al Mare.



150
A
PPIA via, cammino solare

incontro all’Austro rapido-ardente,
Appia via, dalla Porta Capena
cui la recondita vena
geme l’assidua stilla,
155ove condurrai tu la mia
anima impaziente
che d’avidità risfavilla?
Non qui la mia mèsse è mietuta.
A mietere l’alta mia mèsse
160mille falci indefesse
travagliarono solco per solco,
dall’aurora al tramonto,
per nove aurore
e per nove tramonti,
165in terra sconosciuta.
E s’udiva in ogni meriggio
venir dagli orizzonti
infiammati la voce
e il tuono di Pan sopra a noi.
170E ululava la torma feroce:
“O Pan, aiuta, aiuta!„
E per la stoppia i buoi
candidi, aggiogati ai plaustri
contra le biche manomesse,
175mugghiavano di spavento.



O
PAN, dammi il tuo frumento,

dammi l’oro della mia mèsse
australe e la furia degli Austri
libici e la furia dei cavalli
180dall’ugne adorne di lampi!
Non qui non qui ebbi i miei campi,
non qui ebbi i miei plaustri,
ma nel grande Lazio tirreno,
fino a Minturno,
185fino a Sinuessa,
nella terra ebra di Massico
nella terra ebra di Cècubo,
a Fondi lacustre,
ad Amicle marina,
190ad Ardea danaèia
ov’arde il sangue di Turno,
e su la curva spiaggia nomata
dalla nutrice eneia,
di qua dal rapace Volturno,
195e presso lo stagno taciturno
pingue di calami e d’ulve
ove di Latino il lauro vige
tra le spiche fatte più fulve,
e ad Anzio amor del pirata
200e della Fortuna crudeli
e del crudele Imperatore,

e a Ostia, nella sacra bocca
del Tevere irta di prore
gonfia di vele
205ingombra de’ lunghi granai.


O
VUNQUE falciai e trebbiai

nel grande Lazio tirreno,
alle porte dell’Urbe e al confine
estremo, fra il Tevere e il Liri,
210in ogni più fertile plaga.
Ma a te vanno i miei sospiri,
a te, ombra del Monte Circèo
letifera come il veleno
e il carme dell’avida maga
215che tenne l’insonne
piloto re d’Itaca Odisseo
nel letto dall’alte colonne.
Quivi ancor regna nel Monte
l’Iddia callida, figlia del Sole;
220e spia dal palagio rupestre,
tra sue stellate pantere
e sue tazze attoscate di suchi.
Gemon prigioni i suoi drudi,
bestiame del suo piacere,
225cui ella tocca la fronte

con verga e susurra parole.
E i suoi pastori astati, prole
dell’Evia e del Centauro
generata nell’ora dell’estro,
230di bronzea pelle, di pel sauro,
prole furibonda,
quivi sotto gettano rauco
ululo su la palude
e pungono il negro armento
235dalle code nude,
i bufali, irosi mostri
profondati nel lutulento
pascolo che s’inselva di corna.
E, quando aggiorna,
240tutta la palude ansa e soffia
per le froge e per le fauci emerse,
occhiuta di mille occhi torvi;
e l’acqua putre gorgoglia
e bulica occlusa dall’erbe
245cui sradica il piè bisulco,
mentre nube di corvi
sinistra offusca e assorda l’aria
ove passa in silenzio mortale
la Febbre velata di nebbia.


250
Q
UIVI io farò la mia trebbia,

quivi batterò la mia mèsse
in un’area vasta
come campo per oste schierata.
Ove sono i cavalli del Sole
255criniti di furia e di fiamma?
le code prolisse
annodate con liste
di porpora, l’ugne
adorne di lampi
260su l’aride ariste?
Ove le sferze sonanti,
le rédine lunghe sbandite,
il tinnir dei metalli,
il brillar delle madide groppe?
265Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?


E
CCO, al tripudio, ecco i cavalli!

Chi li conduce?
Ecco le sferze, ecco i crotali,
i cimbali cavi-sonori
270che vince il rombo dei cuori,
le femmine scalze-succinte
ebre di luce,
i giovini possa-di-tori

ebri di strepito.
275Ecco il fiore del sangue latino.
Ecco gli otri gonfi di vino.
Ecco la sapa dolce a mescere.
Ecco l’arido pane che asseta.
Ecco la tazza di creta,
280foggia antica e ne’ secoli bella,
ampia come bucranio,
rosea come mammella.
Ecco tutto il tripudio!
Versate i manipoli
285sul suol vulcanio,
versate dal plaustro
accline i manipoli
come da cornucopia.
Tutta la terra è roggia
290più che sinopia
agli occhi torbidi.
Il vento turbina,
suscita polvere in vortici.
Versano i plaustri
295nell’aia l’oro stridulo.
L’oro s’accumula.
Dispare il suolo igneo
sotto la congerie
innumerevole.

300Sola una bica, solo un aureo
monte è la grande area.
Tutto il Lazio è una stoppia
che arde e solvesi in cenere,
da Sinuessa massica
305fino a Roma romùlea.
Sola una bica, solo un aureo
monte è la grande area;
e i cavalli l’ascendono.
Scalpita, scalpita!
310O Roma, questo è il monte di Cerere
madre di Prosèrpina,
questo è il monte della Magna Madre
che navigò pel Tevere.
I cavalli terribili
315erti su l’unghia solida
l’ascendono, l’assaltano.
Scalpita, scalpita!
Crollano i manipoli
sotto l’urto, si spezzano
320i culmi, si sgranano
le spiche, le ariste stridono,
le loppe volano.
Scalpita, scalpita!
Le sferze schioccano,
325per l’aere guizzano

come le folgori.
Come le gòmene
della nave in pericolo
sotto la ràffica,
330si tendono le rédine.
Gli umani polsi battono,
tremano i muscoli,
si gonfiano le arterie.
Chi osa reggere
335la forza degli Alipedi?
Balzano, s’impennano
le fiere, vèrberano
l’aere, col ferro quadruplice
i cumuli dirompono.
340Le code intonse inarcansi,
le criniere svèntolano
come vessilli vividi,
le nari spirano
fiamma, gli occhi si rigano
345di sangue, i fianchi pulsano,
le vene si palesano,
per l’ampie groppe rivoli
di sudore fluiscono,
nella schiuma dei difficili
350freni brilla l’iride.
Scalpita, scalpita!

Tutto il fuoco dell’anima
ferina esalasi
nell’impeto e nell’ànsito,
355par circonfondere
gli acri corpi madidi,
sul sudor fremere
come un’ala invisibile.
Svegliasi nei rapidi
360cuori l’anelito di Pègaso
verso il cammin sidereo?
Scalpita, scalpita!
Il vento turbina,
agita in nugoli
365vani le spoglie spìcee.
Tutto l’aere è volatile
oro, per ove le candide
e negre e saure
e maculate groppe splendono,
370per ove passano
i gridi rauchi,
gli schiocchi, i sibili,
l’urto dei crotali,
il tintinnìo dei cimbali,
375il mugghio delle bufale,
il riso delle femmine
umane che Libero èccita.



M
A il cielo dilatasi

muto e solenne nel tripudio;
380lungi si tace il Mare Infero
ove il figlio di Venere
dall’alta prora iliaca
gridò: “Italia! Italia!„
E l’ombra del re d’Itaca,
385l’ombra dell’antico nauta
esperto degli uomini e dei pelaghi,
guata dalla magica
rupe se il Fato ferreo
lui anco chiami a vincere
390un più grande pericolo.
O Forza, o Abondanza, o Vittoria,
voi all’opera terrestre auspici
siete e testimonii!
Tutto di voi s’illumina
395il grande Lazio. In purpureo
lume il giorno cangiasi.
Il vento chiude i suoi turbini.
L’aere per la terra pènetra.
Par nelle cose nascere
400una vita indicibile,
però che i prischi numi italici,
subitamente reduci
dall’Ombra delle Origini,

nella gleba rivivano,
405nell’acqua nell’erba nella silice,
e laggiù, entro la reggia
del re Latino figlio
di Marica e di Fauno,
rinverdiscasi il Lauro
410che fu sacro ad Apolline
Febo pria che il vedovo
di Creusa da Ilio
venisse per congiugnersi
con Lavinia vergine fertile.
415O prodigio! O metamorfosi!
Su la grande area,
quadrata come la saturnia
Urbe nel nascere,
la calpesta mèsse al par d’occidua
420nuvola s’imporpora.
Scalpita, scalpita!
E i cavalli son rosei
splendenti, come se nell’intimo
sangue una sùbita
425aurora accendasi
e per i fumidi
fianchi trasparir veggasi.
S’ergono e di roseo
fuoco il petto e il ventre splendono,

430ove s’intrecciano le tumide
vene come d’edera
intrichi per arborei còrtici.
Fiammei spiriti
dalle narici esalano.
435Scalpita, scalpita!
Or senton gli uomini
che un divin numero
modera l’impeto
dei solidunguli.
440O prodigio! O metamorfosi!
Ecco, le ali titanie,
le solari penne, le lucifere
piume, infaticabili
flagelli dell’Etere
445diurno, artefici
della rapidità precìpite,
cui le trame dei muscoli
contro le dure scapule
parean constringere,
450ecco, ecco, si liberano
si spiegano s’allargano.
Nell’oro e nella porpora
aperte palpitano
le ali, le ali apollinee.
455Il vento ch’elle muovono

solleva il cuor degli uomini
come un peàn che càntino
per sacri intercolunnii
cetere a miriadi.
460Io Peàn! Io Peàn! Gloria
al Maestro dell’Opere,
allo Specchio degli Uomini,
al Titan dalla rutila chioma,
al Re delle alate parole,
465al Duce dei cori eliconii!
O Forza, Abondanza, Vittoria,
e tu, Genio che mai non si doma,
voi siatemi qui testimonii.
Calpestano i cavalli del Sole
470il rinato frumento di Roma.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.