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Ditirambo II
Terra, vale! L'oleandro



DITIRAMBO II.

I
O fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone.

Trepidar ne’ precordii
sentii la deità, sentii nell’intime
midolle il freddo fremito
5della potenza equorea trascorrere
di repente, io terrìgena,
io mortal nato di sostanza efimera,
io prole della polvere!
Memore sono della metamorfosi.
10L’anima si fa pelago
nel rimembrare, s’inazzurra ed èstua,
e le foci vi sboccano
dei mille fiumi che mi confluirono
sul capo; nel rigùrgito
15immenso novamente par dissolversi
quest’ossea compagine.
O Iddii profondi, richiamate l’esule,
però ch’ei sia miserrimo
nella sua carne d’acro sangue irrigua,
20lasso ne’ suoi piè debili
che per lotosi tramiti s’attardano,
dopo ch’ei fu l’indomita


forza del flutto convertita in muscoli
tòrtili per attorcere,
25dopo che le correnti dell’Oceano
gli furon gioco a tessere
le divine di sé vicissitudini
come su trama vitrea.
O Iddii profondi, richiamate l’esule
30triste, purificatelo
sotto i fiumi lustrali ìnferi e sùperi,
la deità rendetegli!

Memore sono. Era già fatto il vespero
su l’acque; ma i cieli ultimi
35ardevano d’un foco inestinguibile,
e i golfi e i promontorii
e l’isole di contro negreggiavano
come are senza vittime
già notturni, allorché sostai nel pascolo
40nettunio, presso il limite
marino. Onusto di gran preda, sùbito
votai su l’erbe e i nèssili
miei lini a noverar la mia dovizia.
Poi del confuso cumulo
45feci schiere ordinate. E in cor godevami
tante squame rilucere


veggendo per quel bruno intrico. “I nèssili
miei lini e i piombi e i sugheri
t’appenderò nel tempio, o dio propizio„
50in cor disse il grato animo.
E allora vidi i pesci più risplendere,
vidi le pinne battere
e le branchie alitare e per le scaglie
lampi di forza correre.
55E, come quando il nume di Diòniso
invade le Bassaridi
e si disfrena giù pe’ monti il Tìaso,
la muta gente parvemi
infuriare, cedere a un’incognita
60virtù, di sacra fervere
insania. “Qual prodigio è questo? Ahi misero
me!„ gridai per grandissimo
spavento; ché la preda mia fuggivasi
a gara con vipèrea
65rapidità, balzando e dileguandosi.
“Me misero! Un dio fecemi
questo? o nell’erba è la possanza?„ Attonito
mi rimasi. Il silenzio
era divino nella solitudine.
70Era già fatto il vespero,
ma lungamente i cieli ultimi ardevano.
Udir parvemi bùccina


cupa sonar lungh’essi i promontorii
selvosi; udire parvemi
75canti fatali spandersi dall’isole.
E quasi inconsapevole
la man correami per quell’erba strania,
meditando io nell’animo
il prodigio. Divelsi dalle radiche
80gli steli foschi; e, simile
a capra di virgulti avida, mordere
incominciai, discerpere
e mordere. Rigavami le fauci
il suco, ne’ precordii
85scendeami, tutto il petto conturbandomi.
“O terra!„ gridai. Fumida
era la terra intorno come nuvola
che fosse per dissolversi
ne’ cieli, sotto i piedi miei fuggevole.
90E un amor terribile
sorgeva in me, dell’infinito pelago,
dell’amara salsedine,
degli abissi, dei vortici e dei turbini.
La mia carne era libera
95della gravezza terrestre. Nascevami
dall’imo cor l’imagine
d’un’onda ismisurata e per le pàlpebre
mi si svelava il cerulo


splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri
100dilatarsi parevano
e le ginocchia giugnersi, le scaglie
su per la pelle crescere,
gelidi guizzi correre pei muscoli.
“Terra, vale!„ Precipite
105caddi nel gorgo, mi sommersi, l’infima
toccai valle oceanica,
uomo non più, non anco dio, ma immemore
della terra e degli uomini.

Fiumi correnti, odo il sublime sònito
110di voi sempre nell’anima,
fiumi sgorganti d’ogni scaturigine,
leni di pace o rauchi
di violenza, caldi come l’aure
nove che v’arrecarono
115l’alluvione copiosa o frigidi
come i nivali vertici
onde scendeste inviolati, d’auree
sabbie flavi o sanguinei
d’argille, pingui di limo o più limpidi
120che l’etere sidereo!
Cento e cento passarono passarono
sul mio capo. La fluida

vita dell’orbe mi fluì su gli òmeri
proni, con ineffabile
125melodia. L’Acheronte, il gran tartareo
pianto, anche sentii volvere
su me nel cieco suo pallore i petali
rapiti al prato asfòdelo.
Tutte l’acque rombarono crosciarono
130su me sommerso, tolsero
ogni terrestrità dal corpo immemore
della sua dura nascita.
E mi risollevai dio verso l’etere
santo; spirai grande alito
135che una nave d’eroi sospinse. Io auspice
apparvi agli Argonauti!
Di su la prora chino il cantor tracio
raccolse il vaticinio.
E presso lui, d’oro chiomato, florido
140della prima lanugine,
(sentendo l’immortalità, saltavagli
il cuore sotto il bàlteo
splendido) presso Orfeo figlio d’Apolline
era il fratello d’Elena.



145O Iddii profondi, richiamate l’esule,
la deità rendetegli!

Io fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone.
La terra m’è supplizio.
Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,
150e per ovunque è tenebra.
O nunzia di prodigi Alba oceanica!
Nel gorgo mi precipito.

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