< Alcyone
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Ditirambo IV
Altius egit iter Tristezza



DITIRAMBO IV.

I
CARO disse: “La figlia del Sole

a me poggiata come ad un virgulto
sul limite dei paschi
guatava il candido armento dei buoi
5pascere lungo il Cèrato rupestro.
Mi si piegava il destro
òmero sotto la mano regale
umida di sudor gelido; e, dentro
me, tremavano tutte le midolle,
10negli orecchi fragore
sonavami sì forte ch’io temeva
udir dal sacro Dicte i Coribanti
atroci e il rombo del bronzo percosso.
E la città di Cnosso
15splendea di mura còttili e di blocchi
oltre l’irto canneto atto a far dardi.
‘O Pasife, che guardi?’
chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava
nella sua barba violetta come
20l’uva cidònia; ché membruto egli era
e gravato di giallo adipe il fianco.
‘Io guardo il toro bianco,
quello che tu non désti a Posidone’
la figlia di Perseide rispose.

25E le vette nevose
dell’Ida biancheggiavan men del toro
niveo diniegato al dio profondo.
‘Perché sì tremebondo
sei tu, figlio di Dedalo?„ il Re chiese.
30E allor Pasife: ‘Questo ateniese
giovinetto somiglia ad Androgèo
che non torna d’Atene;
e per ciò mi sostiene,
il cor triste mi folce;
35per ciò tanto m’è dolce
le dita porre nel suo crin prolisso.„
Io rividi l’Ilisso,
i platani gli allori gli oleandri
che l’adombrano, e il bosco degli ulivi
40presso Colono caro all’usignuolo.
Rividi il patrio suolo
entro l’anima mia subitamente,
come colui ch’è presso alla sua fine;
perocché nel mio crine
45ponea le dita la donna solare,
e l’ossa mie flagrare
parean nel suo sorriso accosto accosto
siccome rami cui fiamma s’appicchi
quando i legni sien ricchi
50d’aroma e inariditi dall’Estate.

E le navi lunate
coi rematori seduti agli scalmi
in fila a battere il flutto diviso,
e l’Eracleo, l’Amniso,
55i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti
e tutta quanta l’isola selvosa
con le vigne, col dìttamo e col miele
ardere in quel sorriso
vidi per mezzo ai cigli miei morenti.
60E il sire degli armenti
udii mugghiare in quel foco sonoro,
mugghiare il bianco toro
diniegato al gran Padre enosigèo.„

I
CARO disse: “Poi che l’ombra cadde

65(il vertice dell’Ida solitario
nell’etra rosseggiava
come il fiore del dìttamo crinito)
nascostamente ritornai su’ paschi,
gonfio d’odio il cuor tacito; e scagliai
70contra il toro le selci acuminate
dall’àlveo del Cèrato divulse
e imposte alla mia frombola cretese.
Il boaro m’intese
e mi rincorse ratto su per l’erbe

75con la verga di còrilo a minaccia.
Ma perse la mia traccia
nell’ombra che cadea; né mi conobbe,
né l’erbe verdi tenner le vestigia.
L’infanda cupidigia
80per ovunque era sparsa! Palpitare
parea pur anco nelle stelle vaghe!
Il vento parea piaghe
sùbite aprire nel mio corpo nudo
acerbe sì che non sarìami valso
85a medicarle il dìttamo dell’Ida.
E piena era di grida
compresse la mia gola nell’arsura,
quando giunsi alle mura
del Labirinto ove il mio padre aveva
90ambage innumerevole di vie
riempiuta d’error laborioso.
Quivi ristetti ascoso
perocché vidi il duro fabro alzato
su la soglia difficile in silenzio
95e la figlia del Sole in gran segreto
favellare con lui senza sorriso,
marmorea nel viso,
come chi chieda all’arte del mortale
una cosa tremenda e non ne tremi.„


100
I
CARO disse: “L’officina arcana

era in un orto a vista del recurvo
porto Eracleo frequente
di ben costrutte navi dalla prora
dipinta; e gli utensìli erano acuti,
105e la fronte del fabro era contratta.
Sorgea la forma esatta
della falsa giovenca nella luce
del dì, quasi che sazia di pastura
spirasse dalle froge il fiato olente
110di cìtiso, tranquilla su’ piè fessi.
Con tale arte commessi
eran gli sculti legni e ricoperti
di fresca pelle, che parean felici
d’ubertà non fallibile i bei fianchi
115e le mamme in sul punto di gonfiarsi
all’affluir d’un latte repentino.
Furtiva nel giardino
venìa Pasife senza le sue donne
a rimirar l’opera fabrile
120ch’ella infiammava della sua lussuria
impaziente; e seco avea l’irsuto
boaro come giudice perfetto.
Costui rise: il difetto
scorse nella giogaia. Il grande artiere
125fu docile al consiglio dell’uom rude.

Pasife con le nude
braccia premette gli òmeri miei nudi,
s’abbandonò su me come su fulcro
insensibile, assorta nel suo sogno
130inumano, perduta nel portento.
Saliva un violento
foco dal suolo ov’eran le radici
della mia forza, e tutto m’avvolgea,
e tutto come arbusto resinoso
135parea vi precipitassi e vi splendessi.
Oh giardino di spessi
aromi, carco di cera e di miele,
carco di gomma e d’ambra,
ove s’udia scoppiar la melagrana
140come un riso che scrosci e quasi mosto
si liquefaccia in una bocca d’oro!
Recava l’Austro il coro
delle femmine ancelle dal palagio
remoto, che sedevano ai telai
145o tingevan di porpora le lane
o i semplici isceglieano al beveraggio
o di carni ammannivan la vivanda
per la figlia del Sole,
ignare ch’ella fosse innanzi al Sole
150preda schiumosa d’Afrodite infanda.„


I
CARO disse: “La figlia del Sole

amai, che per libidine soggiacque
alla bestia di nerbo più potente.
Splendea divinamente
155la sua carne quand’ella penetrava
nel simulacro per imbestiarsi.
Io chiuso in me riarsi.
Io, quando vidi il callido boaro
la prima volta addurre
160alla falsa giovenca il toro bianco
che si battea il fianco
sonoro con la fersa della coda
adorno i corni brevi d’una lista
di porpora, balzai gridando: ‘O Sole,
165a te consacrerò sopra la rupe
inconcussa, oggi un’aquila sublime!’
E andai verso le cime
con la bipenne l’arco e le saette,
ben coturnato, a far le mie vendette.„

170
D
ISSE: “Da prima vidi l’ombra vasta

palpitar su la torrida petraia.
Fulvo il macigno, cerula era l’ombra.
E dopo udii la romba
delle penne per l’aer verberato.

175Gridò verso il suo fato
ella repente, ferma su le penne;
la corda mia nel tendersi stridette;
il grido parve lacerare il cielo
e lo stridor fu lieve qual garrito
180di rondine ma il tèlo
che si partì fu forte e fu cruento.
Sentii sul viso il vento
del volo che fece impeto a salire,
poi si fiaccò, girò come in un turbo,
185piombò verso lo scrìmolo del monte.
Mi cadde su la fronte
una goccia di sangue larga e calda
come goccia di nuvolo d’agosto
quando lampeggia e tuona.
190L’aquila s’abbatté sul sasso prona
il petto, aperta l’ali
crude che strepitarono sul sasso,
erta sùbito il rostro alla difesa.
La roccia discoscesa
195ardeva nel meriggio come il ferro
nella fucina, sotto i miei coturni.
La fronda dei viburni
era come la scoria dei metalli
liquefatti, e la fronda degli avorni.
200S’udìano i capricorni

belare in mezzo al dìttamo crinito,
e l’odore dell’erba vulneraria
mescevasi nell’aria
tremula con l’odor dell’aquilino
205sangue che d’ogni sangue è più vermiglio.
Col rostro e con l’artiglio
fu pronta la satellite di Giove
a combattere contra il feditore
su la rupe inconcussa.
210Allora io dissi: ‘Augusta,
se tu sei senza volo, io sia senz’armi.’
E disdegnai ritrarmi
qual uomo a saettarla di lontano.
Ma gittai l’arco; e mi fasciai la mano
215con il corame della mia faretra,
mi fasciai la man destra
a difesa degli occhi minacciati
dal becco adunco. Feci impeto, entrai
in un selvaggio fremito di penne;
220in un orrendo strepito di penne
come in un nembo fulvo preso fui
dalla possa grifagna;
sentii fuggirmi sotto le calcagna
la rupe e gridai forte.
225Combattemmo nel rombo della morte.
Io con la destra le afferrai la strozza

robusta come tronco di serpente,
e strinsi e strinsi; e con la manca trassi
dalla ferita fresca il dardo primo,
230più volte e più nell’imo
fegato lo confissi.
Combattemmo sul ciglio degli abissi,
in conspetto del Sole, a mezzo il giorno.
Gloria d’Icaro! Intorno
235alla zuffa ogni bàttito di penne
sprizzava mille stille
di sangue come porpora in faville
accesa ed isvolata via per festa.
A gloria la mia testa
240pareva di faville incoronarsi.
E le piume dei tarsi
e del petto e del collo e delle ascelle
isvolavan su l’Ostro.
E un rivolo purpureo dal rostro
245colava sul mio braccio imporporato
fino al cùbito. E làcera dai colpi
delle rampe la destra coscia m’era
sì che la messaggera
Nike, se mai sostò sul solitario
250vertice andando verso Atene mia
a recar le corone
dell’oleastro, fece il paragone

tra l’aquilino sangue e il sangue icario.
Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole.
255Parvemi, quando apersi il pugno ostile
e la nemica ricoprì la rupe
alfine spenta, parvemi che tutta
la sua virtute aligera mi fosse
nelle braccia e negli òmeri trasfusa
260e m’agitasse i fragili precordii
una immortale avidità di volo.
L’alto vertice solo
e l’esanime preda era con meco,
e il dio della lucifera quadriga.
265Pregai: ‘Divino auriga,
questa vittima t’offro in olocausto
perché tu mi sii fausto
se dato mi sarà tentar le vie
dove agiti le tue criniere bianche.
270Il torace le viscere le branche
e il gran capo rostrato
in un fuoco di sterpi e d’erbe io t’ardo
e la canna del dardo.
Concedi, o dio magnifico, se m’odi,
275concedimi che immuni dalla brace
io dell’aquila serbi l’ali forti
e con meco le porti
perché le veda entrambe il padre mio

Dedalo d’Eupalàmo
280ateniese, artefice sagace,
perché due me ne foggi a simiglianza
l’uomo di molti ingegni, ma più forti,
ma con più grande numero di penne.„
E tolsi la bipenne
285che al cinto appesa avea dietro le reni:
con ella diedi nelle congiunture,
di muscoli e di tendini gagliarde
così che che resisteano al doppio taglio.
“Ahi che l’incude e il maglio
290e l’industria paterna non varranno
a radicarmi la virtù dell’ala
nella scapula somma„ io mi pensai
considerando, come il citarista
inchino su le corde,
295la tenacia del nesso tendinoso
che biancheggiava di color di perla
nel cruore. E la mente ne fu trista.
E trista fu la mozza ala, a vederla.
E, nel fuoco di sterpi fumigando
300la residua carne offerta al Sole,
io mi pensai: “Si duole
il dio solingo sul suo carro ardente
e non cura l’insolito libame.
La figlia sua nel simulacro infame

305ei vede, onniveggente;
e dell’arte di Dedalo si cruccia
e mi scopre nel cor la piaga acerba,
nel cor che non si lagna,
cui dìttamo né stebe non mi vale.’
310Mi gravai d’ambo l’ale
congiunte con la stringa del mio cinto;
e l’alta volontà fu la compagna
della doglia fatale
quando, scorto dal dio, di sangue tinto,
315scesi dal monte verso il Labirinto.„

I
CARO disse: “L’officina arcana

era in una caverna del dirupo,
dietro il porto d’Amniso
a levante di Cnosso, erma sul mare.
320S’udiva starnazzare
e stridere d’uccelli senza tregua,
pe’ fóri dello scoglio ferrugigno.
Il suolo di macigno
consparso era d’antichi dolii rotti
325e di fimo biancastro.
Rimbombavano al Giàpice salmastro
le concave pareti
come le curve targhe dei Cureti

all’urto delle picche furibonde.
330Sotto, il fragor dell’onde
avea lunga eco per ambagi ignote
quando l’Apeliote
enfiava i verdazzurri otri del sale.
Quivi all’innaturale
335opera intento era il mio padre, quivi
i congegni del volo
oprava senza incude e senza maglio.
Ben gli diedi travaglio
e affanno, ché pareami troppo tarda
340la sua fatica per il mio desìo
e sempre poche mi parean le penne
adunate dinnanzi a lui che oprava.
Per lui la cera flava,
stretta in pani, col pollice e col fiato
345ammollii; dispennai la copiosa
cacciagione; sollecito le penne
separai dalle piume.
Il sangue onde imperlavasi l’acume
d’ogni fusto divulso
350vertudioso parvemi; e mi piacque
a stilla a stilla suggerlo, accosciato
presso il fabro mirabile che oprava
seduto su la pietra.
Quante volte votai la mia faretra,

355infaticato sagittario errante
per le rupi lontane!
I falchi gli sparvieri e le poiane
caddero, e gli avvoltoi
calvi gravati di carni lugùbri,
360e gli astori co’ resti dei colùbri,
ancor ne’ becchi adunchi, e i gru strimonii
gambuti dai lunghi ossi
accòmodi al tibìcine, ogni specie
pennipotente altivolante cadde
365per la forza degli archi miei cidonii
e de’ miei dardi gnossi.
E mi tornava io carico di preda
celeste alla caverna;
e pur sempre pareva al mio desìo
370che fosse tarda l’opera paterna.
Era quivi l’odore della cera
e della ragia, ché l’operatore
mescolava le lacrime del pino
chiare al dono trattabile dell’ape,
375acciocché questo fosse più tegnente.
Escluso avea dall’opera i metalli
come gravi ch’ei sono; e l’armatura
composto avea con le vergelle ferme
del còrilo e pieghevoli, congiunte
380da bene intorto stame in ciechi nodi,

e sópravi disteso avea l’omento,
la grassa rete che le interiora
degli animali include, ben dissecco.
E sul congegno solido e leggero
385ei disponea per ordine le penne,
dalla più breve alla più lunga elette
acutamente, come nella fistola
di Pan le avene dìspari digradano
per la natura dei diversi numeri.
390E lino e cera usava a collegarle,
cera immista di ragia, come dissi.
E le sapeva inflettere con tanta
arte, per imitar la curvatura
della vita, che l’ala su la pietra
395inerte parea trepida e tepente
e penetrata d’aere, ventosa
come fosse per rompere dal nido
o per posarsi dopo lungo volo.„

I
CARO disse: “Non veduto, vidi.

400Misi gli occhi per entro ad un rosaio,
ove all’alito mio silentemente
si sfogliarono due tre rose passe.
Parve che si sfogliasse
con elle e si sfacesse il cuor mio caro.

405E senza fine amaro
mi fu tutto che vidi non veduto,
in quel giardino muto
ove non più s’udia la pingue gomma
gemere né scoppiar pomo granato
410come riso punìceo che scrosci.
Fracidi i frutti, flosci
erano, grinzi come cuoi risecchi
gli arbori, crudi stecchi;
le cellette soavi, aride spugne,
415senza la melodia laboriosa.
Rotta al suolo, corrosa,
informe fatta come vil carcame
era la vacca infame
offerta dalla frode al toro bianco
420perché l’inclito fianco
alla figlia del Sole
empiesse di semenza bestiale.
E la donna regale,
figlia del Sole e dell’Oceanina,
425Pasife di Perseide, il cui volto
m’era apparito come il penetrale
della luce nel tempio dell’iddio
splendido, la reina
dell’isola che fu cuna al Cronìde
430ricca in dìttamo in uve in miele e in dardi,

l’adultera dei pascoli era quivi
sola col suo spavento.
Bocca anelante, nari acri, occhio intento
avea, pallido volto come l’erbe
435aride, consumato dai sudori
e dalle schiume della sua lussuria.
Discita era, e l’incuria
della sua chioma la facea selvaggia
qual femmina del Tìaso tebano
440che defessa dall’orgia ansi in un botro
del Citerone, esangue
fra il tirso spoglio della fronda e l’otro
voto del vino, al gelo antelucano.
Sentiva nel suo ventre, abbrividendo,
445vivere il mostro orrendo,
fremere il figlio suo bovino e umano.„

I
CARO disse: “Era stellato il cielo,

era pacato il mare,
nella vigilia mia meravigliosa.
450La roggia stella ascosa
nel mio cor vigile era la più grande.
Le cose miserande
eran lungi da me come da un dio
beverato di nèttare novello.

455Parea dal corpo snello
dileguarmisi il triste peso come
dal cielo eòo si dileguava l’ombra,
e nella carne sgombra
un aereo sangue irradiarsi.
460Nel cielo eòo comparsi
i pallidi crepuscoli, il messaggio
della Titània fece su per l’acque
un infinito tremito tremare.
Subitamente il giubilo del mare
465si converse in desìo tumultuoso,
irto le innumerevoli sue squamme.
Allor tutte le fiamme
del giorno dal mio cor parvero nate,
per sempre tramontate
470dietro di me le stelle della notte,
l’ali della mia sorte
già nel periglio glorioso aperte.
Ahi, su la pietra inerte
si giacevan gli esànimi congegni,
475e le mie braccia umane erano spoglie
della virtù pennata
che la mia scure avea tronca sul monte
in giorno di vittoria.
E sùbito mi fu nella memoria
480la tenacia del nesso tendinoso

che biancheggiava di color di perla
nel cruore vermiglio.
‘Aquila vinta’ dissi ‘Icaro, figlio
di Dedalo d’Atene
485ai tuoi mani consacra i ligamenti
arteficiati e fragili dell’ali
che sono opera d’uomo;
perché, come ti vinse combattendo
lungi e presso, così nel tuo dominio
490vincerti vuole d’impeto e d’ardire.’
E il mio padre destai dal sonno. Dissi:
‘Padre, è l’ora.’ Non altro dissi. Muto
stetti mentr’ei m’accomodava l’ali
agli òmeri, mentr’ei gli ammonimenti
495iterava con voce mal sicura.
‘Giova nel medio limite volare;
ché, se tu voli basso, l’acqua aggreva
le penne, se alto voli, te le incende
il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo.
500Abbimi duce, séguita il mio solco.
Deh, figliuol mio, non esser tropp’oso.
Io ti segno la via. Sii buon seguace.’
E le mani perite gli tremavano.
Il mirabile artiere ebbi in dispregio
505silenziosamente. ‘Al primo volo
io con te lotterò, per superarti.

Fin dal battito primo, io sarò l’emulo
tuo, la mia forza intenderò per vincerti.
E la mia via sarà dovunque, ad imo,
510a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,
sarà dovunque e non nel medio limite,
non nel tuo solco, s’io pur debba perdermi’
risposegli il mio cor silenzioso.
E gli sovvenne della grande frode
515(difficile all’oblìo questo mio cuore
sì che l’acqua del Lete non ci valse:
furon pur tre le tazze tracannate)
e del dolo fabrile gli sovvenne.
Fra le mani perite che tremavano
520riveder seppe gli utensìli acuti
intesi a compiacer la trista voglia.
‘Icaro figlio, m’odi? Io m’alzo primo.
Volerò senza foga, e tu mi segui.’
Ma con l’arte dell’aquila io spiccai
525dal limitar della caverna un volo
sì veemente che diseparato
fui sùbito. Gli stormi isbigottirono
su per le rosse rupi, in fuga striduli
temendo la rapina dileguarono.
530Oh libertà! Pel corpo nudo l’aere
matutino sentii crosciarmi, gelido
tutto rigarmi di chiarezza irrigua:

non i torrenti ove uso fui detergere
dopo le cacce la sanguigna polvere
535m’avean rigato di sì grande giòlito.
Oh nel cor mio rapidità del palpito
ond’era impulso il volo, in egual numero!
Pareami già gli intaversati bàltei
esser conversi in vincoli tendìnei,
540tutto l’azzurro entrar per gli spiracoli
del mio pulmone, il firmamento splendere
sul mio torace come sul terribile
petto di Pan. Gridava ‘Icaro! Icaro!’
il mio padre lontano. ‘Icaro! Icaro!’
545Nel vento e nella romba or sì or no
mi giungeva il suo grido, or sì or no
il mio nome nomato dal timore
giungeva alla mia gioia impetuosa.
‘Icaro!’ E fu più fievole il richiamo.
550‘Icaro!’ E fu l’estrema volta. Solo
fui, solo e alato nell’immensità.
Passai per entro al grembo d’una nuvola:
un tepore un odore dolce e strano
eravi, quasi l’alito di Nèfele
555madre d’Elle che diede nome al ponto.
Il vento del remeggio i veli tenui
sconvolse, un che di roseo svelò,
un che di biondo. Odore dolce e strano

m’illanguidiva, inumidiva l’ali.
560Il vol decadde. Vidi undici navi
di prora azzurra fornite di tolda,
che flagellavano il mar con la palma
dei remi in lunga eguaglianza concordi,
andando a impresa lontana. Sul ponte
565pelte lunate luceano e di bronzo
clìpei tondi, aste lunghe. Mi giunse
l’urlo dei nàuti. Veloce volai,
oltre passai. Qual fu dunque la mente
dei nàuti rudi mirando il prodigio?
570Come di me favellarono? Dissero
forse: ‘In un campo di strage la màscula
Nike, nell’ombra d’un cumulo grande
dai carri estrutto riversi e dirotti,
o a piè d’un grande trofeo d’armi illustri,
575sul suol cruento cedette all’eroe
che l’afferrò per la chioma; e fu pregna.
E quei che rema lassù con tant’ala
è certo il figlio di lei giovinetto.’
Di queste l’alto cor mio si compiacque
580imaginate parole, ché stirpe
di Nike avrebbe ei voluto infierire.
E vidi poi sotto fulgere in Paro
iscalpellata il candor del Marpesso.
E vidi poi dall’erratica Delo

585salir vapore di caste ecatombi.
Poi non vidi altro più, se non il Sole.
Poi non volli altro più, se non da presso
mirarlo eretto sul suo carro ignìto,
giugnerlo, farmi ardito
590di prendere pei freni il suo cavallo
sinistro, Etonte dalle rosse nari.
Il pètaso e i talari
d’Erme Cillenio avea conquisi il mio
sogno meridiano, il mio delirio.
595Congiunto era con Sirio
altissimo nel medio orbe, nell’arce
somma dei cieli Elio d’Eurifaessa.
E l’altezza inaccessa
e l’ardore terribile agognai
600ed offerirgli l’ali che sul monte
crètico escluse avea dall’olocausto.
Mi sembrava inesausto
il valor mio ché l’animo agitava
le morte penne, l’animo immortale
605e non il braccio breve.
Ed ecco, vidi come un’ombra lieve
sotto di me nella profonda luce
ove non appariva segno alcuno
del mare cieco e dell’opaca terra;
610ancóra un’ombra vidi, un’altra ancóra.

E dissi: ‘Icaro, è l’ora.’
Ma il cor non mi mancò. Non misi grido
verso il mio fato, come la devota
alla saetta aquila moritura;
615nè rimpiansi il paterno ammonimento.
Guatai senza spavento
in giuso; e l’ombre lievi eran le penne
dell’ali, che cadeano tremolando
dalla cera ammollita.
620Mi sollevai con impeto di vita
verso il Titano: udii rombar le ruote
del carro sul mio capo alzato; udii
lo scàlpito quadruplice; il baleno
scorsi dell’asse d’oro, il fuoco anelo
625dei cavalli. Piròe dalla criniera
sublime, Etonte dalle rosse nari.
E i cavalli solari
annitrirono. Il ventre di Flegonte
brillò come crisòlito; la bava
630d’Eòo fu come il velo d’Iri effuso.
E vidi il pugno chiuso
che teneva le rèdini, la fersa
garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia.
‘O Titano!’ E la faccia
635indicibile, sotto la gran chioma
ambrosia, verso me si volse china;

e i raggi le cingean mille corone.
‘Elio d’Iperione,
t’offre quest’ali d’uomo Icaro, t’offre
640quest’ali d’uomo ignote
che seppero salire fino a Te!’
Si disperse nel rombo delle ruote
la mia voce che non chiedea mercè
al dio ma lode eterna.
645E roteando per la luce eterna
precipitai nel mio profondo Mare.„




ICARO, Icaro, anch’io nel profondo
Mare precipitai, anch’io v’inabissi
la mia virtù, ma in eterno in eterno
650il nome mio resti al Mare profondo!

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