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LEZIONI
III. Ermengarda
Lezioni - II. L'ideale religioso degl' «Inni» - Adelchi Lezioni - IV. Il «Cinque maggio»

Lezione III

[ERMENGARDA]

Seguiamo il nostro cammino e, prima di fare un altro passo innanzi, guardiamo al passo che abbiamo giá dato.

Vedemmo come Manzoni studiossi di rappresentare nell’Adelchi l’ideale calato nella storia, l’ideale di quel mondo che in lineamenti generali già si rivela negl’Inni. Ebbene, mentre da una parte cerca rappresentare il lato virile di questo ideale, gli lampeggia innanzi alla mente il pensiero di poter mettergli accanto il femminile, e studiasi di realizzare questo nuovo tipo dell’ideale femminile in Ermengarda.

Adelchi ed Ermengarda nelle cronache sono puri nomi, non vi è alcuna traccia di quello che essi furono; parlo di quello che furono internamente, come caratteri, perché dalla storia si sa come finirono Adelchi ed Ermengarda.

Il poeta, che vuol fare una tragedia storica, si sente le mani libere quando ha a fare con questi due, e in entrambi cerca rappresentare il suo ideale, maschile e femminile.

Qual è l’ideale femminile come ci apparisce negl’Inni? Ci è una parte comune all’uomo: la delicatezza, la preghiera, il perdono; ma ci è la parte propria della donna.

L’uomo ha un campo più vasto della donna innanzi a sé, ha la vita esteriore in corrispondenza col suo mondo interiore, ha per obbiettivo la giustizia, la libertà, la patria, la natura, tutto il mondo. Qual è l’ideale nuovo, cristiano, rappresentato in Adelchi? È la giustizia, Dio non come Dio semplicemente, ma come giustizia, essendo Adelchi il giusto che trova offesi i suoi sentimenti dal Medio Evo, da quel tempo di barbarie e di violenza. In lui avete la lotta tra l’ideale nuovo fluttuante innanzi alla sua mente giovanile e la realtà — ideale vuoto di energia. E Adelchi io l’ho nominato più un tentativo di uomo che un uomo vero, vivente.

Per la donna l’universo è una cosa sola: l’amore; attraverso all’amore ella vede il mondo, l’amore modifica l’ideale che le si presenta dinanzi. Per Adelchi l’idea cristiana in se stessa non è direttamente Dio al quale rivolgesi lo spirito nel suo raccoglimento, ma è il Dio della giustizia, della libertà, del diritto. Per Ermengarda l’ideale religioso non rimane idea astratta della giustizia: ella, come donna, ha bisogno di qualche cosa di più plastico per concepirlo. Il suo ideale è l’amor di Dio, lo sposarsi a Cristo, l’essere sposa sia in senso terreno sia in senso celeste. La sede di questo ideale è il monastero, il convento: la giovanotta, prima di entrare nella vita agitata, rivolgendo in mente l’ideale cristiano, va a consacrare a Dio la sua esistenza. Il convento, guardato da questo punto di vista, non ha nulla di poetico. Quando il sentimento del convento o, per lasciare questa parola, il sentimento mistico di un essere che dimora in terra e vuol considerarsi come se fosse nel cielo, quando questo sentimento è immediato, non ancora in opposizione con la vita, se come è formato nella mente va a svilupparsi in un monastero; — diviene semplice espressione lirica, una canzone, un sonetto «per monaca», tema comunissimo nella poesia italiana. Non ci era poeta che non cominciasse i suoi esercizi con sonetti per nozze, terrene o celesti. Foscolo stesso dette il primo saggio del suo ingegno con un sonetto per monaca, che levò gran rumore a Venezia. Questi sonetti potevano essere una grande espressione poetica nei primi tempi, quando era vivo e possente il sentimento religioso, ai tempi di Santa Caterina e di Santa Teresa, ma divennero cosa arcadica ed accademica nei tempi posteriori, dopo che quel mondo era divenuto cosa abituale nella società.

Quando questo misticismo, questa vita tutto cielo, acquista valore drammatico? Quando scende nella vita reale, e trovasi a contatto colla realtà. Allora comincia a destarsi l’interesse, perché dietro al monastero si affacciano immagini terrene, e la terra penetra là dentro e turba la pace delle immagini celesti. Perciò sono materia interessante di poesia Abelardo ed Eloisa, Adelaide e Comingio, temi fermentati in mezzo a tempi religiosi, e che anche oggi mostrano la loro traccia presentando il contrasto tra la terra e il cielo, l’amore dell’uomo, e l’amore di Dio.

Manzoni in Ermengarda vuol cogliere questo momento, rappresentare la lotta tra il misticismo e il cuore, tra l’amore profanato nella vita e pur resistente, e il cielo che con pensieri di pace chiama su quella donna e vuol staccarla dalla terra.

Vediamo in che modo il poeta ha saputo sviluppare questa lotta drammatica nel personaggio di Ermengarda. Dopo aver acquistato un’idea chiara del modo come Manzoni l’ha rappresentata, vedremo sino a che punto egli sia giunto ad incarnare l’ideale che di Ermengarda si aveva formato.

Ermengarda è un carattere muto. Che vuol dir ciò?

È una di quelle cose che già eransi rappresentate nella poesia italiana. Dante è il grande creatore di caratteri muti, i quali non esprimono di sé che a pena un lampo, ma un lampo che illumina tutto l’orizzonte della loro vita interiore. Un bello esempio, senza cercarlo nella Eleonora di Goethe e in altre creazioni moderne, è la Pia di Dante:

      Ricordati di me che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma;
Salsi colui che inanellata in pria
      Disposando mi avea con la sua gemma.

Nient’altro dice la Pia, pure è rimasta ima figura immortale, fresca e viva nella storia.

Quel richiamare il tempo della felicità, l’immagine dell’uomo che l’avea sposata senza nominarlo, senza parole di odio, e il ricordare il tempo nel quale colui le avea dato l’anello, e quel «Siena mi fé, disfecemi Maremma», sono brevissimi tratti che pur rinchiudono e disegnano una intera storia — la quale poi il Sestini diluì in una novella, prima che Manzoni concepisse la sua Ermengarda. E Pia è un carattere muto.
        Il poeta è in diritto di trattare tutt’i caratteri e tutti gli argomenti, niente gli vieta di scegliere piuttosto uno che un altro. Ma Ermengarda non è un carattere muto per temperamento o per arbitrio del poeta; ma per necessità della situazione. Si trova collocata in tale condizione dagli avvenimenti, che non può, non deve parlare, non dee esprimere quello che avviene nel suo animo. Un altro esempio, la Mirra di Alfieri. Mirra è muta per necessità della situazione: il momento in cui le esce di bocca il fatale segreto del suo amore pel padre, è il momento della sua morte. Dunque i caratteri muti sono tali per necessità della situazione. E qual’è la situazione di Ermengarda?

Un personaggio poetico ha tutta una vita: il poeta sceglie il momento in cui esso acquista carattere, una tendenza ideale, e quel momento è la situazione del personaggio stesso. Ermengarda, sorella di Adelchi, figlia di Desiderio re dei Longobardi, tanto amata da sua madre che presto morì, avea una sorella monaca, divenuta badessa del convento del Salvatore a Brescia. Viene a Pavia, capitale del regno longobardo, Bertrada, madre di Carlomagno; vede questa giovinetta e dice: — Ecco la sposa di Carlo— . La giovinetta va in Francia, pegno di eterna amicizia tra i due re e i due Stati. Là mena vita da regina, da sposa amata e felice, finché il papa scomunica la famiglia sua. E Carlo, parte per sentimento religioso, non volendo tenere nel suo letto la figlia di uno scomunicato, parte per amore verso Ildegarde, sulla quale già avea messo gli occhi, ripudia la sua sposa e la rimanda alla casa patema.

La scena si apre: Ermengarda, reietta, accompagnata da soldati di Carlo, giunge alla casa del padre suo. Posti questi antecedenti, qual’è la situazione di Ermengarda? Ma ella apparisce a noi quando già ha cessato di vivere in terra, quando la sua vita è stata profanata. In quei tempi una donna ripudiata era scacciata dalla casa patema, era onta per lei il rifiuto. Ermengarda dunque apparisce quando non vive più sulla terra, non ha più storia. Che diventa? Un personaggio lirico, non drammatico. Che le rimane? Deplorare il suo stato, non avendo forza di rifare la sua vita, di trovarne una nuova nel suo mondo interiore: e va a chiudersi in un monastero. Ecco la situazione.

Può essere un personaggio pieno di espansione, e dir quello che sente dei suoi patimenti, raccontare le memorie della sua vita? Niente di tutto questo.

La donna è espansiva con la madre, con la sorella: 11 il suo cuore non ha più segreti, può dir cose che arrossirebbe di svelare innanzi a un uomo. È anche espansiva nei primi giorni poetici in cui ha innanzi il suo fidanzato, giorni inenarrabili in cui due anime si abbracciano, combaciano come una medesima persona.

Ermengarda va alla casa patema e non vi trova la madre, non la sorella che è chiusa in un monastero; ha innanzi il padre, uomo di passioni come io ve l’ho descritto, e il fratello. Viene la prima scena: permettetemi che io ve la disegni con attenzione, perché è delle più belle, forse la più bella della tragedia.

Ermengarda entra muta, smarrita, legge o le par di leggere negli occhi di tutti la sua vergogna. Il padre le volge parole soavi, il fratello cerca confortarla, un sentimento nuovo si fa strada in lei, e pensa: — Dunque non sono reietta da mio padre, dunque ho ancora la casa patema? — . Allora sorge il bisogno di espansione. E in qual modo la giovane espande l’animo suo? Non parla al padre o al fratello, si mette sotto la protezione della madre che è in cielo: le prime sue parole son rivolte alla madre, la quale l’avea adorna con le sue mani quando andò a nozze, le avea reciso il crine, com’era il costume di quei tempi.

— O madre mia, ella dice,

                                                      .... oh vedi:
Quella Ermengarda tua, che di tua mano
Adornavi quel dí, con tanta gioia,
Con tanta pièta, a cui tu stessa il crine
Recidesti quel dí, vedi qual torna!
E benedici i cari tuoi, che accolta
Hanno cosí questa reietta — .

        Ecco le prime parole di Ermengarda, che vi rivelano il poeta: è la prima messa in iscena, la prima comparsa del personaggio. E notate «quel dì» due volte ripetuto, e il non osar nominare il padre e il fratello, e il dire alla madre:
— E benedici i cari tuoi, che accolta
Hanno così questa reietta — .

Il padre, uomo grossolano, uomo del Medio Evo, tutto passioni, cui sfuggono le delicate gradazioni delle parole di Ermengarda, dovrebbe capire quante angosce, quanto pudore sono in quell’anima, e non tentarla. Ma egli grida vendetta, e le gitta una frase brutale, a bruciapelo:

                                        — Quel vile,
Tu l’ameresti ancor? —

Egli non ammette che Ermengarda abbia più amore per colui che l’ha ripudiata.

Vedete ora il carattere muto di questa donna:

                                             — Padre, nel fondo
Di questo cor che vai cercando? Ah! nulla
Uscir ne può che ti rallegri: io stessa
Temo d’interrogarlo... —

La donna si chiude nel suo pudore, non osa rivelare, nemmeno a se stessa, quello che sente. La scena dunque finisce qui, quando Ermengarda dice: — Lasciatemi andare in un convento, a morirvi in pace — ? Ebbene, la scena si rialza mediante uno di quei tratti generosi che voi non potete aspettarvi da Desiderio, ma da Adelchi. Questi, anima più delicata, sente tutto quello che c’è di crudele nelle parole di Ermengarda, quando dice: — Lontana dal mondo io voglio morire — .

Adelchi la interrompe subito:

                                                  — Al vento
Questo presagio: tu vivrai: non diede
Cosí la vita de’ migliori il cielo
All’arbitrio de’ rei — .
        Adelchi vorrebbe comunicarle una speranza che ella non sente più: — Tu sei giovane, le dice, puoi aspirare ad una nuova vita, non è tempo di parlare di morte — . Ermengarda ritrova la parola, per gittarci innanzi un altro lampo che ci fa intravedere tutto quello che è dentro di lei:
                              — Oh! non avesse mai
Viste le rive del Ticin Bertrada! —

A chi parla? Non risponde al fratello, parla sola, a se stessa, esprime un sentimento che le viene dall’udire le parole di Adelchi. Che cosa vuol dire questo sentimento? Cerchiamo di tradurlo in lingua volgare, per intendere la differenza tra la grande poesia, [tra] l’espressione poetica e la volgare.

Ermengarda vuol dire: — Il mio fato fu deciso quel giorno che Bertrada mi vide, giorno fatale nella mia storia: non è possibile rifare la mia vita, un giorno solo l’ha cancellata — . Un poeta volgare, come Vincenzo Monti, queste idee le avrebbe esposte in versi bellissimi, ma esse sono parte astratta del sentimento. Il poeta qui fa che Ermengarda parli ad Adelchi, e non gli dica quelle idee; ella ricorda con dolore che Bertrada decise del suo destino: in bocca a lei non sono ragionamenti, non v’è analisi, ma ricordanze. E notate l’espressione di queste memorie: ella non maledice Bertrada, la dice pia, anche nel dolore serba il sentimento della giustizia, non nomina chi l’ha ripudiata, non ha odio, non vuole vendetta. Poche parole bastano a delineare il carattere gentile, cristiano di quell’essere femminile; non ci è via a concetti astratti, ci è il sentimento delle memorie, come si sviluppa nel cuore di una donna.

Fate attenzione alle differenti espressioni poetiche.

Alfieri non ha mai un tratto simile, egli fa la poesia con la testa; ciò che ci fa talvolta impressione, di quanto esce da lui, non è sentimento, non ricordo, è qualche concetto, qualche pensiero acuto, che dimostra un’intelligenza incalorita da un’esaltazione fittizia, non da vero sentimento della vita. In questi pochi tratti del Manzoni, voi sentite già il poeta che comincia a muovere i passi per la sua via.
Ermengarda scompare, succede la tragedia storica, i più grandi avvenimenti ci si svolgono innanzi. I Longobardi che dapprima credono dover essere vincitori, ci si presentano baldanzosi, superbi; Desiderio già pensa di andare a Roma; poi vengono le notizie della sconfitta, Pavia è presa, Desiderio fatto prigioniero, Carlomagno fa la sua entrata trionfale in Roma, con Ildegarde al fianco va a rallegrarsi col papa. Adelchi si chiude in Verona con un pugno di bravi, è tradito, Verona è presa. Tutta la tragedia storica è compiuta, la famiglia di Ermengarda è distrutta: rimane la conseguenza fatale di quegli avvenimenti.

Abbiam perduto di vista Ermengarda: ella è in monastero e prega Dio. Quando ricomparisce?

Il modo di riportarla in iscena mostra già un non comune sentimento poetico. Quando la catastrofe è succeduta, dopo quei grandi avvenimenti, passate oltre: tra le grida di gioia dei vincitori, tra i lamenti dei vinti, guardate, e in fine che comparisce? Un convento! Ermengarda, innocente cagione di que’ fatti, è sul suo letto di morte, le suore le stanno intorno, pregano Dio per l’anima sua. Si ottiene qui un grande effetto poetico senza sforzo, col collocare bene in questo momento tale scena, che se la catastrofe non fosse ancora cominciata, sarebbe inutile. Ma qui, dopo tante lotte, tanti avvenimenti, far terminare la tragedia come la vita del Medio Evo, in un convento, con sovrapporre l’ideale cristiano alla terra, è di grande efficacia. Ricorda il vanitas vanitatum et omnia vanitas. Che cosa sono que’ grandi fatti accaduti? Polvere ed ombra: il momento più interessante della vita è la morte; allora l’anima si stacca dalla terra e sen va alla vera vita. C’è il concetto tragico cristiano, il sentimento dell’altro mondo sovrapposto a tanti fatti che hanno destato in voi interesse, e vi innalza in una regione superiore, nella regione dell’infinito.

Che diviene Ermengarda in quel momento? (perché in questa tragedia storica ci è la tragedia di Ermengarda). Ha una vita tanto possente questa donna, che ella sola mantiene l’interesse innanzi a così grandi avvenimenti. Ella finisce i suoi giorni in un convento, tutte le ricchezze della vita terrena non esistono per lei. Ella, nel monastero, non è la longobarda, non la donna che vede la sua famiglia distrutta, e i Longobardi oppressi: e ciò che è accaduto fuori il convento, non la tocca. Quali sono i pensieri di Ermengarda? Sono i pensieri ordinari della morte di un cristiano. Io ho avuto talvolta occasione di assistere alla morte di qualcuno: l’uomo allora vede la vita in un’altra maniera. Così Ermengarda morendo dice alla sorella qual’è l’ultima sua volontà; le raccomanda di assicurare ad Adelchi ed a Desiderio ch’ella ha pregato Dio per essi, che ha sempre serbato gratitudine per essi, i quali non l’hanno reietta. Vuol dire di un altr’uomo e non osa nominarlo; la badessa le dice: — Carlo... — , ed allora séguita e prega la sorella di far sapere a quell’uomo che ella non l’odia, che gli perdona. Come vedete, sono questi tratti ordinarii della morte cristiana; e se protraete ancora per poco questa situazione, diventa languida; nulla la farebbe camminare.

Il poeta inventa una specie di macchinetta per prolungare questa vita cristiana, rappresentandola in altro modo. Egli suppone che Ermengarda ignori che Carlo ha sposato un’altra donna, e mentre ella parla con la sorella, conduce la scena in guisa che la badessa le comunichi la nuova fatale. Ermengarda che ha ancora la memoria del suo passato che l’incalza, raccomanda alla sorella di vestirla da regina, di farle tenere nell’urna l’anello che le fu dato presso all’altare, e non per ambizione, non per vanità femminile: — Questa veste m’appartiene, è Dio che mi ha dato questo posto, — ella dice: — e chi sa che Dio non tocchi il cuore di quell’uomo, e che egli non venga un giorno a prendere la mia spoglia qui, nel monastero, e la conduca alla tomba degli avi suoi in Aquisgrana? — .

La sorella crede far bene gettandole questa nuova innanzi: — Carlo è sposo di un’altra— .

Succede un movimento in questa vita uniforme e semplice. Ermengarda cade in delirio: questa donna che sinora ha serbato il segreto del suo cuore, e non lo ha confidato nemmeno alla sorella, la quale, sposa di Dio, non dovea saperlo, ora manifesta se stessa, il segreto le sfugge, e rivela quali sono le sue memorie.

Un critico tedesco dice che questa scena è piccola, che ci si rappresenta una donna gelosa, da commedia, che qui si guasta il personaggio. È uno di quei critici come ce ne sono molti in Germania, i quali hanno molto ingegno e dottrina, ma non il sentimento dell’arte. Klein, che è quel critico di cui vi dicevo, non sente che qui la gelosia è introdotta non per sé, ma come mezzo di poter rompere il ghiaccio nel quale Ermengarda si trova. Per quel carattere chiuso per forza, pur con tanto desiderio di espandersi, è questo il mezzo ultimo di rivelare il segreto interno, le memorie che ondeggiano nella sua mente. Immagina nel delirio di stare innanzi a Carlo, il quale rimane ancor freddo alle parole di lei: manifesta l’amore che fino a questo punto ella non ha cacciato dal cuore. Crede di parlare a Carlo, e dirgli:

                         — Amor tremendo è il mio.
Tu noi conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tei mostrai: tu eri mio: secura
Nel mio gaudio io tacea; né tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l’ebbrezza del mio cor segreto —

Sicché in ultimo ecco svelato l’arcano: e comprendete perché le memorie assalgano Ermengarda anche nel monastero: esse non per se stesse si fanno valere, ma perché sono Carlo, sono l’amor suo! Ella non osa dire: — Io l’amo— ; ma ricorda il tempo in cui era regina, quando andava alla caccia con lui: così è esposta in modo pudico la vita di questa donna, che ama sempre chi l’ha ripudiata, e noi può dire.

Il delirio affretta la sua fine; quando il segreto le esce di bocca, ella muore. Ritornando in sé, si volge a Dio, si riconcilia con lui, spira dicendo:

                                   — Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio; sento ch’Ei giunge — .
E mentre gli occhi di Ermengarda cercano il cielo:
                         col tremolo
Sguardo cercando il ciel,

quello sguardo diviene parola nelle suore, che innalzano a Dio la loro preghiera, perché accolga l’anima di lei.

Che è questo Coro? Le vergini, mentre Ermengarda muore, le sono intorno, la confortano, pregano per lei. È questo un momento lirico cristiano interessante. È la vita di Ermengarda rappresentata non da lei, ma dagli spettatori, che ricordano la lotta da lei sostenuta nel convento, dove è stata per cinque anni, lotta tra la memoria del passato che non l’ha mai abbandonata e l’amore di Dio, che spesso ha cercato di cancellare l’affetto di lei per un uomo. Le suore dunque ricordano tutta la vita di Ermengarda nel monastero, quand’ella rammentava la Mosa:

      Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d’Aquisgrano!
e il tempo ch’ella andava a caccia insieme col re, di che ella parlava non osando parlare direttamente di Carlo e dire che l’amava. In ultimo si esprime il sentimento dell’offerta che Ermengarda fa di sé al Signore.

Il sentimento del Coro è che la lotta, la quale Ermengarda sostiene nel convento, quell’amore tenace che non può cacciar via, il dolore, il martirio, le aprono la via del cielo: perché soffrire in terra è godere nell’altra vita. Intorno a questi pensieri è ricamato tutto il Coro.

Dopo aver rapidamente mostrato come Manzoni rappresenta Ermengarda, vediamo di esaminare che cosa è uscito da lui, che è Ermengarda, che è questo Coro.

Dissi che Adelchi è un ideale vuoto di energia, mancato. Ermengarda è veramente l’ideale femminile che Manzoni vagheggiava? Volete sapere che dovrebbe essere Ermengarda perché si sviluppasse tutto l’ideale immaginato dal poeta? Bisognava prendere Ermengarda al principio della sua vita, accompagnarla nelle sue vicende, dimostrare la storia del suo cuore, che cambia insieme coi fatti in mezzo ai quali si trova, per vedere la lotta che è in lei tra l’amore di un uomo e l’amore di Dio: allora sentireste il valore drammatico di Ermengarda, avreste la donna. Il poeta invece vi gitta come un antecedente tutta la storia terrena di lei; per mostrarci il suo amore ricorre alla supposizione poetica che le escan di bocca, quand’ella cade in delirio, frasi come questa:

— Tremendo amore è il mio... — ,

e subito dopo muore cercando il cielo cogli occhi. Sentite qui veramente la lotta tra l’amore terreno e il celeste?

Vorrei farvi sentir bene il vuoto che è intorno ad Ermengarda. Come ideale di donna impareggiabile ricordo la Margherita di Goethe, che è una di quelle donne rimaste eterne nell’orizzonte poetico, perché tutto ciò che costituisce la sua natura non si manifesta con frasi poetiche, con immagini, con apostrofi, ma mediante situazioni drammatiche, cioè col saper trovare al di fuori tale situazione che possa meglio disegnare un lato del carattere.

Per esempio, Margherita va in chiesa: ecco l’ideale cristiano, qui il monastero, là la chiesa.

Margherita ha rimorso di aver ceduto alle insistenze di Fausto, si sente già madre. Comincia a parlare con le compagne, una di queste le narra la storia di un’amica comune: — Sai che è divenuta Lisa? Non è più la buona Lisa di una volta— ; e le racconta il fato di questa, che è il fato comune alle giovani che han ceduto la loro verginità. Le compagne se ne vanno e Ghita cammina sola, con queste idee ed impressioni nell’animo. Ella pensa: — Anche io una volta raccontava dei falli di qualche povera fanciulla, e come ero zelante nel condannarla! Io parlava come ora parlano le altre, ed ho commesso la stessa colpa che allora giudicava con tanta severità — . Così pensando, ella giunge ad un crocicchio — ecco la situazione — ove trova un’immagine della Madonna, come si soleva metterne fino ai tempi vicini a noi per le vie, anche in Napoli. Ella trova dunque l’immagine della Mater dolorosa: col cuore gonfio, bisognosa di espansione, si getta in ginocchio e prega.

Ci è qui qualcosa al di fuori che determina il carattere del personaggio, il quale non è lirico, non ci dà un soliloquio eterno: ci è un «due» che ne determina i sentimenti. Accompagniamo Margherita ancora per poco. Ella va in chiesa, ove si celebra messa solenne con canti e col suono dell’organo: cantasi il Dics irae. Quante volte ella l’ha inteso senza che le facesse impressione! Ora le pare che ogni parola sia un rimprovero per lei, che quelli i quali cantano guardino a lei; ad ogni tre versi latini, nuove impressioni nel suo animo. Ed è magnifica la fine: quando ode: — «Quid sum miser tum dicturus?»; che dirò nel giudizio universale, innanzi al Dio severo, guardando il quale anche il giusto trema? — Ghita si abbandona nelle braccia di quelle che le stanno intorno, esclamando:— Datemi un’ampolla, mi sento morire! — .

Ermengarda manca di situazione drammatica, parla a lungo, pronunzia nel delirio frasi generali, ma come donna vivente non esiste. Voglio presentarvi un’altra riflessione. Quando Ermengarda parla d’Ildegarde, che impressione ne avete? Sapete voi chi sia questa Ildegarde? No, lei lo sa. Ma in poesia un personaggio deve essere poetico come gli altri. Ildegarde, questa vita di ricordanze, Carlo — che cosa sono per noi? Nomi, parole; non sono messi in iscena, non in situazioni drammatiche, ci sono rappresentati nelle frasi, nelle parole poetiche. Quando diciamo: «Ermengarda», siate certi che non intendiamo Ermengarda della prima e della seconda scena, intendiamo parlare del Coro; ecco quello che è rimasto vivo della tragedia, il canto che le suore innalzano a Dio intorno alla morente. In esso non ci è il carattere virile o femminile dell’ideale, ma il germe della nuova lirica. Le suore, aliene dal mondo, estranee al passato di Ermengarda, piangono, la compatiscono, la consolano: esse non sanno, non debbono sapere, i dolori terreni di un’anima non consacrata a Dio. Quando innalzano la voce intorno ad Ermengarda, per loro quello è lo spettacolo ordinario della terra, abituate come sono a guardare all’altra vita. Avete la tragedia umana considerata in modo filosofico, perché la religione è destinata ad essere la consolazione, la filosofia della vita. L’anima di Ermengarda, guardata da un punto di vista celeste, fa loro sentire la religione artisticamente : non ci è niente di appassionato e di turbolento, ciò che è proprio della lirica terrena.

Capite ora perché, guardando le cose tranquillamente, le pure vergini del Signore possono riepilogare la vita di Ermengarda quasi con caratteri poetici : in quelle memorie esse vedono la forma esteriore; e capite perché sin presso al letto di morte possono ricorrere a paragoni per esprimere misticamente amori terreni, che non son nate a comprendere direttamente. Con un magnifico paragone infatti nel Coro è rappresentata Ermengarda, rivolta alle immagini del passato, poi tutta del cielo, poi di nuovo volta alla vita terrena: esse che non intendono la lotta che è in lei, ricorrono a delle immagini e cercano spiegarsela colla similitudine di fenomeni naturali :

      Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita.
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor...

Vi ripeterò un altro paragone che è il capolavoro di questo Coro :

      Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com’era allor che improvvida
D’un avvenir fallace.
Lievi pensier virginei
Solo pingea...
(per le suore la salute di Ermengarda è nel tornar vergine come loro, nel cancellare quella vita anteriore che non comprendono, e le augurano che la sua faccia tomi come quando era ancor vergine)
                                        ... Così
      Dalle squarciate nuvole
Si svolve il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.

        Ed il più sereno dì è il paradiso, il cielo.

        Dunque, di tutto questo dramma, rimane vivente il solo Coro, in cui si vede il principio di una lirica cristiana. La parte drammatica e storica sono «accenni», senza che si possa dire che dall’immaginazione del Manzoni sia sorto un uomo o una donna.


        [Ne La Libertà, 11-12 febbraio 1872].

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