< Alessandro Manzoni - studio biografico
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Il Manzoni Poeta drammatico.
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XV.


Il Manzoni Poeta drammatico.


Un psicologo troverebbe argomento di uno studio molto importante, esaminando in qual modo la mente del Manzoni abbia potuto, nel 1815, scrivere, dopo il Carme In morte dell’Imbonati, una Canzone stentata e rettorica, e poi rivelarsi di nuovo, con insolito splendore, nei Cori del Carmagnola. Ma converrebbe pure che fosse aiutato, in questa indagine, da qualche indizio biografico. Ora la biografia manzoniana dal 1810 al 1818, o tace intieramente, o ci dice soltanto che il Manzoni in quel tempo rimase sotto la disciplina religiosa di monsignor Tosi, scrisse alcuni Inni Sacri e s’occupò d’agricoltura. È troppo poco per ispiegarci la singolare, quasi febbrile e potente operosità dell’ingegno manzoniano che muove dall’anno 1818 e va fino al termine dell’anno 1824, sei anni preziosi, ne’ quali veramente si è rivelato tutto il genio poetico del Manzoni. Le lettere di quel tempo dirette dalla Giulia Beccarla e dal Manzoni al Tosi ci mostrano Don Alessandro molto malato di nervi; ebbene, erano forse le insonnie del genio agitato da una specie di furore divino. Nel 1818, il Manzoni aveva pure avuto uno de’ più grossi dispiaceri della sua vita; era stato costretto a vendere il Caleotto, la casa, le terre di suo padre, presso Lecco. In mezzo a que’ disastri economici cercò forse sollievo nella poesia; il dramma che si compieva nella sua vita, gli fece forse eleggere la forma drammatica. Studiando una volta la storia di Venezia con l’intendimento di scrivere un poema sopra la fondazione della città delle Lagune, si era probabilmente innamorato della figura del Carmagnola; ma il momento non era più per lui da poemi; l’animo del Manzoni agitato, non più contenuto dalla pietà e dalla rassegnazione, che monsignor Tosi non si stancava di raccomandargli, avea bisogno di sfogarsi, mettendo fra loro in poetico contrasto drammatico diversi affetti. Forse la vendita del Caleotto avea dato occasione in Milano a nuove chiacchiere che lo avevano disgustato; la madre, la moglie, il Tosi, forse pure il Fauriel, a cui, dopo alcuni anni di silenzio, egli era tornato con più vivace affetto, aveano cercato di calmarlo; e vi erano, senza dubbio, riusciti in parte: ma il maggior conforto egli avea dovuto provarlo, ritirandosi in sè stesso, e creandosi, come avveniva in casi simili al Goethe, a sua immagine un proprio mondo poetico. In quel mondo tutto ideale egli poteva liberamente sfogare i suoi sentimenti, in quella finzione storica esprimere ad un tempo e nascondere i proprii dolori. E coi proprii il Manzoni sentiva pure profondamente i dolori della patria avvilita ed oppressa sotto l’ignominia d’un Governo straniero.

Nella Prefazione del Conte di Carmagnola il Manzoni stesso dichiarò che una delle ragioni che lo determinarono a introdurvi i Cori, fu questa, che «riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria, (essi) gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi proprii sentimenti, difetto dei più noti negli scrittori drammatici.» Ma, quando leggiamo uno scrittore come il Manzoni, dobbiamo guardar sempre al senso preciso che vogliono aver le parole; egli non dice già che i Cori toglieranno, ma solamente che essi diminuiranno all’autore la tentazione di mettersi in iscena. Approfittiamo dunque di questa mezza negazione, che implica necessariamente una mezza affermazione. In una bella lettera che il Manzoni scrisse nel febbraio dell’anno 1820 al suo amico abate Gaetano Giudici di Milano, rimasta fino ad oggi inedita, trovo, fra le altre, queste parole: «Io aveva sentito che le circostanze e le azioni del Carmagnola non erano in proporzione coll’animo suo e coi suoi disegni; ma questa dissonanza appunto è quella che io ho voluto rappresentare. Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla debolezza e colla perfidia de’ suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli, ma astute e già fortificate dall’abitudine e dal rispetto, e dagl’interessi di quelli che hanno iniziativa della forza, è egli un personaggio drammatico?»1 Quest’uomo potrebbe essere così bene il Manzoni posto fra gli uomini del suo tempo, con un Governo come quello di Lombardia, posto a rischio continuo di perdere, nell’adempimento de' suoi doveri civili, la pace domestica e la vita, come il Conte di Carmagnola. In ogni modo, nelle parole della tragedia che s’intitola dal Conte di Carmagnola, più che i sensi di un capitano di ventura del Medio Evo, noi ritroviamo spesso l’animo, i pensieri, i dubbii, gl’interni combattimenti del Manzoni, geloso del suo buon nome, timido nell’opera, ardito ne’ concepimenti, pio, delicato, amante della patria e della famiglia. Queste parole messe in bocca al Conte di Carmagnola non istonerebbero, per esempio, ove si collocassero nel Carme In morte dell’Imbonati:

   Oh! beato colui, cui la fortuna
     Così distinte in suo cammin presenta
     Le vie del biasmo e dell’onor, ch’ei puote
     Correr certo del plauso e non dar mai
     Passo, ove trovi a malignar l’intento
     Sguardo del suo nemico. Un altro campo
     Correr degg’io, dove in periglio sono
     Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
     Nome d’ingrato, l’insoffribil nome
     Di traditor. So che de’ grandi è l’uso
     Valersi d’opra ch’essi stiman rea;
     E profondere a quel che l’ha compìta
     Premi e disprezzo, il so; ma io non sono
     Nato a questo; e il maggior premio che bramo,
     Il solo, egli è la vostra stima, e quella
     D’ogni cortese; e, arditamente il dico,
     Sento di meritarla.


Così avrebbe parlato, così forse parlava allora il Manzoni a’ suoi proprii accusatori. Noi sappiamo già che prima della pubblicazione del Carme In morte dell’Imbonati, ossia nell’anno 1805, si era ciarlato molto in Milano contro il Manzoni, e che si tornò a ciarlare contro di lui, quando, nel 1819, egli malato di nervi ritornò con la madre e con la moglie a Parigi. La madre del Manzoni, nell’aprile dell’anno 1820, scriveva a monsignor Tosi che il Manzoni preferiva «il soggiorno di Parigi a quello di Milano, per il gran ribrezzo che gli produce quella benedetta manìa che si ha di parlare degli affari degli altri. Si ricorda di tante ciarle e di tante supposizioni fatte sul nostro viaggio; e qualche volta questa idea lo mette di cattivo umore.» Il malumore, o almeno un po’ di malumore, penetra pure in alcuni versi del Conte di Carmagnola. Ma il sentimento cristiano e l’amor patrio vincono finalmente ogni altra cura. Il Manzoni assai più che il suo Conte di Carmagnola esplorava il suo tempo e cercava persuadersi ora che la salute d’Italia sarebbe venuta dalla Toscana, ora dal Piemonte.

Il Carmagnola, infatti, alludendo ai Fiorentini, dice:

                               A molti in mente
     Dura il pensier del glorïoso, antico
     Viver civile; e subito uno sguardo
     Rivolgon di desìo, là dove appena
     D’un qualunque avvenir si mostri un raggio,
     Frementi del presente e vergognosi;


e al suo Piemonte belligero fida, con la propria, la vendetta d’Italia:

     Voi provocate la milizia. Or sono
     In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
     Ch’io non ci nacqui; che tra gente io nacqui
     Belligera, concorde; usa gran tempo
     A guardar come sua questa qualunque
     Gloria d’un suo concittadin, non fia
     Che straniera all’oltraggio ella si tenga.


Ma, in pari tempo, nelle parole che Marco rivolge all’amico suo il Conte di Carmagnola, ritroviamo la prudenza manzoniana; si direbbe che Marco sostiene presso il Conte quella parte medesima che il Fauriel presso il Manzoni; è l’amico Fauriel, al quale la tragedia è per l’appunto dedicata:

                         . . . . . . Consiglio
     Di vili arti ch’io stesso a sdegno avrei,
     Io non ti do, nè tal da me l’aspetti;
     Ma tra la noncuranza e la servile
     Cautela avvi una via; v’ha una prudenza
     Anche pei cor più nobili e più schivi;
     V’ha un’arte d’acquistar l’alme volgari,
     Senza discender fino ad esse; e questa
     Nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.


Il Conte, ossia forse il Manzoni, vorrebbe fidarsi al suo destino, e non curar troppo le male arti de’ nemici; Marco, ossia ancora, come si può sottintendere, il Fauriel gli pone innanzi l’immagine della moglie e della figlia amatissime, ma forse in qualche momento dimenticate per alcun’altra più forte attrattiva, per l’amore della patria:

                          Vuoi che una corda io tocchi
     Che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
     Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia,
     A cui tu se’ sola speranza; il cielo
     Diè loro un’alma per sentir la gioia,
     Un’alma che sospira i dì sereni,
     Ma che nulla può far per conquistarli.
     Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
     Che il tuo destin ti porta; allor che il forte

     Ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
     Signor di sè che non pensava in prima.


Il Manzoni poeta cristiano detta ancora queste pie parole al fiero Conte condannato a morte:

     E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
     Io le provai quest’empie gioie anch’io;
     Quel che vagliano or so.



E quest’altre affettuose alla moglie Antonietta paiono suggerite al Conte da Enrichetta Blondel, la moglie del Manzoni:

                             ......O sposo
     De’ miei bei dì, tu che li fêsti, il core
     Vedimi; io moio di dolor, ma pure
     Bramar non posso di non esser tua.



Vi è finalmente tutta la pietà cristiana del Manzoni, molto più che il carattere storico del Carmagnola, in queste parole del Conte:

                       Allor che Dio sui buoni
     Fa cader la sventura, ei dona ancora
     Il cor di sostenerla.... Oh! pari il vostro
     Alla sventura or sia. Godiam di questo
     Abbracciamento; è un don del cielo anch’esso.
                 .... Il torto è grande,
     Ma perdona; e vedrai che in mezzo ai mali
     Un’alta gioia anco riman.
         ... Oh gli uomini non hanno
     Inventata la morte; ella sarìa

     Rabbiosa, insopportabile, dal cielo
     Essa ci viene, e l’accompagna il cielo
     Con tal conforto, che nè dar nè tòrre
     Gli uomini ponno.


Così sono uscite dal cuore di un marito credente, del Manzoni, in somma, queste belle e solenni ultime parole, con le quali il Conte raccomanda la moglie e la figlia al Gonzaga:

                    Quando rivedran la luce,
     Di’ lor.... che nulla da temer più resta.


Poco, lo ripeto, sappiamo, pur troppo, della vita del Manzoni in quegli anni che corsero dal suo matrimonio alla pubblicazione del Conte di Carmagnola e dell’Adelchi; ma forse non andremmo troppo lontani dal vero, supponendo che alcun grande dolore abbia agitato l’animo del Manzoni nel tempo, in cui, venduto il Caleotto, egli scrisse le sue tragedie2 ed incominciò il proprio romanzo. Vi sono versi che non si possono scrivere altrimenti che sotto una impressione molto viva e dolorosa; ed i versi che ho citati, mi fanno dubitare che il Manzoni abbia desiderato in quegli anni prender parte a qualche congiura politica, che, per una recrudescenza d’amor patrio, abbia corso qualche gran rischio e temuto assai per la propria famiglia e siasi poi sentito accusare di qualche debolezza: la malattia nervosa che lo visitò, appena terminata la sua tragedia, le varie ciarle alle quali diede occasione il suo ritorno a Parigi, hanno forse qualche relazione con alcun fatto che ignoriamo, ma del quale potrebbe darsi che si trovassero indizii ne’ suoi scritti di quel tempo. Fu caso fortunato che i componimenti del Manzoni cadessero sotto gli occhi del Goethe, ma non già caso che il Goethe se ne compiacesse. Vi era naturale simpatia fra que’ due ingegni olimpici; anche il Goethe in quasi tutte le sue opere poetiche ha rivelato sè stesso in modo che la biografia di lui può farsi quasi che tutta sopra la sola guida de’ suoi scritti. Il Manzoni sfogò meno le sue passioni, si frenò di più, tenne più fermo ad un solo alto segno il proprio ideale; ma sotto la sua calma apparente, sotto quella mirabile temperanza di linguaggio, è ancora possibile scorgere le tempeste d’un animo agitato, in continua lotta con sè medesimo, e più ancora che lottante fra il dovere e il piacere, contrastato fra due doveri diversi. I due doveri diversi, fra i quali il Manzoni lottò, dovettero essere la patria e la famiglia, come per un altro verso la libertà del pensiero e la fede. Il Goethe, come il Manzoni, mirava alla perfezione; ma io credo che, senza alcuna esagerazione, si possa dire che il primo mirava particolarmente ad una perfezione intellettuale, il secondo alla perfezione morale, che costa qualche cosa di più, poichè obbliga pure a qualche maggior sacrificio.

Nell’Adelchi si palesa generalmente assai meno il sentimento individuale dell’autore; tuttavia è lecito in più d’un passo, ove parla il giovine eroe longobardo, riconoscere i privati sentimenti del Manzoni. La tragedia fu terminata, quando, fallita la rivoluzione piemontese, parecchi de’ migliori amici del Manzoni dovettero andare o in esiglio, o al carcere duro. Il Nostro si dolse, certamente, seco stesso di non aver potuto far nulla per la patria e di dovere nascondere il suo potente ed inspirato Inno rivoluzionario dedicato a Teodoro Koerner, e, per amore della famiglia, evitare ogni imprudenza. S’io non m’inganno, è il Manzoni del 1821 che parla in questi versi posti in bocca ad Adelchi:

     Il mio cor m’ange, Anfrido; ei mi comanda
     Alte e nobili cose; e la fortuna
     Mi condanna ad inique: e, strascinato,
     Vo per la via che non mi scelsi, oscura,
     Senza scopo; e il mio cor s’inaridisce,
     Come il germe caduto in rio terreno
     E balzato dal vento.


Il Manzoni fu sempre un po’ repubblicano; se ne lagnavano nel 1848 il Giusti e l’Azeglio, quando lo vedevano diffidar troppo delle promesse del re Carlo Alberto. E da repubblicano, con poca verosimiglianza storica, egli faceva parlare il moribondo Adelchi al re Desiderio suo padre:

     Gran segreto è la vita; e nol comprende
     Che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno;
     Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
     Ora tu stesso appresserai, giocondi
     Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
     Gli anni, in cui re non sarai stato, in cui
     Nè una lagrima pur notata in cielo
     Fia contra te, nè il nome tuo saravvi
     Con l’imprecar de’ tribolati asceso.
     Godi che re non sei, godi che chiusa
     All’oprar t’è ogni via; loco a gentile,
     Ad innocente opra non v’è; non resta
     Che far torto, o patirlo. Una feroce
     Forza il mondo possiede e fa nomarsi
     Dritto; la man degli avi insanguinata
     Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno
     Coltivata col sangue; e omai la terra
     Altra mèsse non dà.


Tutto ciò è grande, è vero, è degno del Manzoni, e si capisce che dovesse piacere al Mazzini, ma stona nel linguaggio di un Principe longobardo del IX secolo. Come tragedie storiche, il Carmagnola e l’Adelchi, mi paiono, sia detto con tutto il rispetto de’ loro pregi letterarii, lavori sbagliati; ma essi, oltre all’importanza che hanno per le novità che introducono nella drammatica italiana, obbligando le persone tragiche a parlare un linguaggio umano e a muoversi naturalmente, senza l’impaccio delle regole così dette aristoteliche intorno alle unità, contengono un gran numero di particolari poetici manzoniani, il che vuol dire nuovissimi, per i quali se non vi si andrà a cercare la verità storica e se essi non si potranno rappresentare sulle scene, vi si troveranno sempre affetti eloquentemente espressi, pensieri elevati, caratteri bene scolpiti, descrizioni pittoresche, intendimenti civili e patriottici che li faranno ammirare. Il Manzoni dedicava l’Adelchi, dodici anni dopo il suo matrimonio, a sua moglie Enrichetta Blondel, e non senza un motivo particolare, oltre i motivi generali che egli dovea parer di avere per dare un pubblico segno d’onore e d’affetto alla sua compagna. Come m’è parso di sentire nell’amicizia di Marco pel Conte di Carmagnola quella del Fauriel pel Manzoni, onde, perciò forse, veniva particolarmente dedicata al Fauriel la prima tragedia manzoniana; così mi paiono da ricercarsi nella tragedia stessa le ragioni particolari, per le quali Enrichetta Blondel fu onorata della dedicazione dell’Adelchi. «Il signor marchese Capponi (scrive il Tommaseo), nel conoscere la prima moglie, non bella e di poche parole, a quello appunto e al portamento sentì che la vera ispiratrice del Manzoni era lei.» Disse il simile qualche anno dopo un giornale di Francia, che, recando i versi di Ermengarda morente: Amor tremendo è il mio, ec., soggiunge: Ah questa, signor Manzoni, non è roba vostra; ve l’ha dettata una donna. Rileggiamoli dunque insieme questi bei versi che il Manzoni avrebbe rubati a sua moglie. Ermengarda, in amoroso delirio, si rivolge col memore pensiero allo sposo che la tradì:

                                       . . . . . . O Carlo,
Farmi morire di dolor tu il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
Dolor ne avresti. Amor tremendo è il mio;
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai; tu eri mio; secura
Nel mio gaudio io tacea, nè tutta mai
Questo labbro pudìco osato avrìa
Dirti l’ebbrezza del mio cor segreto.


Nel personaggio di Adelchi, il Manzoni stesso confessò d’aver voluto foggiare un suo ideale; il medesimo si può dire dell’Ermengarda, sopra i sentimenti della quale la storia non ci dice nulla; ora gl’ideali che si coloriscono al di fuori della storia e che riescono caratteristici come questo di Ermengarda, non si possono concepire altrimenti che supponendoli determinati dagli stessi sentimenti più vivi del Poeta nell’ora in cui egli scrisse. Io non posso insistere di più sopra un argomento così delicato come le relazioni di Alessandro Manzoni con Enrichetta Blondel; ma parmi che un rimorso gentile dell’Autore verso la sua compagna che egli potè forse turbare co’ suoi ardimenti patriottici o con alcun’altra sua imprudenza, abbia fatto parlare Ermengarda in quel modo straordinariamente appassionato, e che la dedica solenne dell’Adelchi alla sua compagna sia stata come una pubblica riparazione di qualche segreta lacrima domestica. S’io mi sono ingannato, ne domando perdono alla memoria del Manzoni; ma come ai critici del Goethe fu lecito di tracciare sopra i suoi versi la storia de’ suoi amori, non ho potuto spiegarmi altrimenti, come in un dramma, dove l’amore non entrava, sia apparso l’unico tipo veramente poetico di una moglie ideale che ci presenti la poesia italiana, e che il Dramma stesso porti la seguente dedicazione glorificatrice:


alla diletta e venerata sua moglie
ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL
la quale insieme con le affezioni coniugali
e con la sapienza materna
potè serbare un animo verginale
consacra questo Adelchi
l’autore
dolenti di non potere a più splendido
e a più durevole monumento
raccomandare il caro nome e la memoria
di tante virtù.
3
  1. Poichè il professor Giovanni Rizzi, dalla cortesia del quale io l’ho ricevuta, mi permette di valermene, io me ne valgo nel solo modo che mi sembri conveniente, cioè stampandola tutta:
    »Parigi, 7 febbraio 1820.

    Cariss. e Pregiat. Amico,

      Sarei impacciato a ringraziarvi degnamente non solo dell’amabile pensiero che avete avuto di scrivermi, ma anche della pazienza che avete posta a regolare la vostra penna in modo che nulla per me fosse perduto dei preziosi sentimenti vostri, se non sapessi da lungo tempo quanto sia facile saldare con voi questi conti, e che voi vi tenete pagato d’ogni cosa, quando sappiate che con essa abbiate fatto piacere altrui. Sappiate dunque che la vostra lettera me ne ha cagionato uno dei più vivi e durevoli che per me si potessero provare, e che letta e riletta fra noi ha fatto una specie di festa di famiglia. Io non dubitava della continuazione della preziosa vostra amicizia, sapendo che è questo un dono che voi non prodigate nè ritirate leggermente, all’uso del mondo; ma le assicurazioni e le espressioni di essa, nutrendo le più care memorie dell’animo mio, l’hanno giocondamente e profondamente occupato. Già sufficentemente stabiliti in questa peregrinazione provvisoria, noi ci siamo ormai avvezzati alla nostra nuova situazione, ed io principalmente mi trovo in uno stato di quiete d’animo, e talvolta direi quasi di contentezza, della quale non saprei forse dare le ragioni io stesso; ma una mancanza, alla quale nulla può supplire, uno spazio che null’altra cosa può occupare, è sempre per me l’assenza di alcuni pochi amici, e quella singolarmente di uno, il quale mi ama, come merita egli d’esser amato. Non saprei altrimenti esprimere l’idea che ho dell’amicizia vostra, e se il riconoscere la mia fortuna può darmi taccia d’orgoglio, preferisco quest’accusa a quella d’ingratitudine. La venerazione e l’affetto ch’io nutro per voi, sarà, spero, un sentimento ereditario nella mia famiglia, e Giulietta, che ha più memoria nel cuore che nella mente, me ne ha già dato un segno, contandomi di essersi più volte rallegrata qui alla domenica dal pensiero che si andrebbe in casa Giudici: nè l’interruzione, nè la mutazione degli oggetti hanno potuto impedire che nascesse in lei questo pensiero così dissociato da tutte le sue attuali abitudini.

    Serbando la legge del silenzio così ragionevolmente imposta agli scrittori in ciò che riguarda i loro parti, io non vi avrei certo fatto parola di quel povero Carmagnola; ma voi mi avete aperto un adito, e addio silenzio! Lasciate adunque che io vi ringrazii dell’avermi voi dato il più bel premio, e nello stesso tempo la più utile scuola che un manufatturiere di poesie possa desiderare, cioè la cognizione dell’impressione che un suo lavoro ha prodotta su un animo elevato e su un ingegno grande ed esercitato. Benchè voi abbiate alla fine ritirate le prime vostre obbiezioni, non vi maravigliate se io mi tengo pienamente assoluto da una seconda sentenza, che posso forse attribuire alla vittoria dell’amicizia sull’imparzialità. Vi esporrò quindi brevemente i motivi che mi hanno condotto nei passi che vi urtarono dapprima, acciocchè voi giudichiate anche le mie intenzioni, e mi sia il giudizio vostro una norma per l’avvenire. Io aveva sentito che le circostanze e le azioni del Carmagnola non erano in proporzione coll’animo suo e coi suoi disegni, ma questa dissonanza appunto è quella che io ho voluto rappresentare. V’erano due difficoltà, una di diritto per così dire. Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla debolezza e colla perfidia dei suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli, ma astute e già fortificate dall’abitudine e dal rispetto, e dagli interessi di quelli che hanno l’iniziativa della forza, è egli un personaggio drammatico? Su questa quistione che può spiegare tutto un sistema drammatico, io aspetto da voi, quando vi piacerà occuparvene, la soluzione la più ragionata ed autorevole. L’altra difficoltà era per me il ridurre questa idea, quando sia plausibile, ad una lodevole pratica; ma in questo il vostro giudizio non mi sarà tanto sicuro, poichè si esercita sopra un amico. Il Coro era fatto certamente coll’intenzione di avvilire quelle stesse guerre, a cui io voleva pure interessare il lettore: vi è contradizione fra questi due intenti? Io non saprei certo affermare nè il sì nè il no — ma vi sottometto brevemente i motivi che mi hanno fatto credere possibile di eccitare questi due sentimenti. Mi sembra che lo spettatore o il lettore possa portare ad un dramma la disposizione a due generi d’interesse. Il primo è quello che nasce dal vedere rappresentati gli uomini e le cose in un modo conforme a quel tipo di perfezione e di desiderio che tutti abbiamo in noi: e questo è con infiniti gradi di mezzo, l’interesse ammirativo che eccitano molti personaggi di Corneille — di Metastasio — e d’infiniti romanzi. L’altro interesse è creato dalla rappresentazione più vicina al vero di quel misto di grande e di meschino, di ragionevole e di pazzo, che si vede negli avvenimenti di grandi e piccioli di questo mondo: e questo interesse tiene ad una parte importante ed eterna dell’animo umano, il desiderio di conoscere quello che è realmente, di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra. Di questi due generi d’interesse io credo che il più profondo, ed il più utile ad eccitarsi, sia il secondo; credo che si possano anche riunire in un’azione e in un personaggio, purchè si trovino uniti spesso nel fatto, e tengo poi fermamente che sia metodo vizioso quello di trasportare negli avvenimenti la perfezione che non è che nell’idea, e che quando sia rappresentata in idea è veramente poetica e morale. — Voi vedete che ho voluto tentare di conservare entrambi questi mezzi di commozione e di riflessione, impiegandone uno nella tragedia e l’altro nel Coro. — A persuadermi di non aver riuscito ci vuol poco, perchè sento anch’io quanto l’esecuzione sia lontana dall’idea: ma a provarmi la falsità dell’idea sarebbero necessarie molte ragioni, che spero di non sentire da voi, perchè amo credere che penserete in questo com’io. — Ben inteso che voi supplirete a questi cenni confusi e scritti alla sciamannata. La carta mi manca, e quel che è peggio il tempo. Non voglio ritardare a domani questa lettera per ridurla in più ragionevole figura intrinseca ed estrinseca. — Dacchè ho perduta la speranza di divenire un giorno Accademico della Crusca, mi sono lasciato andare agli eccessi i più straordinarii della licenza: il peggio si è che la più parte di queste mie ciarle peccano contro il senso, ma a questo supplirà il vostro e a tutto l’indulgente vostra amicizia. Vorrei arrabbiarmi contro Torti che non mi scrive, ma con che diritto? Non tocca a me di negare i privilegi della pigrizia; ma se voi lo spingete, chi sa che non sia generoso! Ricordatemi alla Domenica e al Venerdì, ringraziate Mario dei cari saluti che gli rendo ben cordialmente. Alla degnissima vostra famiglia poi presentate l’espressioni della mia stima e della riconoscente mia amicizia coi più affettuosi complimenti di mia madre, di Enrichetta e di Giulietta. Chi sa che il signor Castillia non mi porti qualche altra vostra lettera! Questo pensiero mi tiene allegro. Scriverò al Canonico fra pochi giorni; intanto vi prego di fargli i miei più teneri e rispettosi saluti. E voi accogliete le assicurazioni della profonda stima e della inalterabile affezione del vostro

    » Amico vero
    » A. Manzoni »

  2. Sopra la lentezza relativa del Manzoni nel preparare le sue tragedie il Sainte-Beuve ci diede questi schiarimenti: «Il Manzoni, tutti lo sanno, lavorava le sue tragedie lentissimamente. Questa lentezza, che può dipendere da diverse cagioni, come per esempio dalla delicatezza di un’organizzazione nervosa, la quale si può trovare impedita a tener sempre dietro alla fantasia e all’intelletto, questa lentezza considerata in sè stessa non sarà forse cosa lodevole. Ma ciò che sicuramente merita lode, e vuolsi anzi proporre ad esempio, è la coscienza adoperata da lui nel preparare i materiali, e nello studiare gli argomenti delle sue composizioni. Sarebbe difficile il dire quel ch’abbia fatto per l’Adelchi, di cui cominciò ad occuparsi sul serio, dopo il suo ritorno da Parigi a Milano, negli ultimi mesi del 1820. Egli si accinse a studiare da storico, emulando gli uomini, coi quali aveva fin’allora conferito, tutto ciò che potè trovare nelle cronache sulle circostanze della dominazione e dello stato de’ Lombardi in Italia. Non leggeva superficialmente tanto da poter riuscire a dare un qualche colore locale, una tinta qualsiasi del Medio Evo ad un’opera di fantasia. No davvero, egli volle vedervi il fondo; si seppellì nella collezione Rerum Italicarum del Muratori, e prese anche famigliarità, com’egli dicea sorridendo, con qualcuno dei 49 grossi complici di Agostino Thierry.»
  3. Il prof. Corrado Gargiolli mi fa noto che una signora, nel dividersi da un giovane che era da lei amato e che si era sposato ad un’altra donna, riaperse l’Adelchi alla scena di Ermengarda morente, e bagnandola delle sue lacrime scrisse all’amante una lettera commovente d’addio. Il Manzoni, cui venne dal Gargiolli riferito il caso, se ne compiacque soggiungendo: «Quelle erano davvero preziose postille,» alludendo certamente alle lacrime, e al commento vivo che ne faceva il dolore di quell’abbandonata.

Note

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