< Alessandro Volta, alpinista
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II

I.

Fra gli scienziati italiani e stranieri del Settecento che compierono gite e studi sulle montagne, dev’essere collocato anche il sommo fisico Alessandro Volta, alla cui memoria s’apprestano i cittadini di Como a tributare quest’anno — centenario della immortale scoperta della pila — onoranze solenni. Però nessuno di coloro, i quali scrissero sulla storia e sullo sviluppo, oppure sulle origini e sui primordi dell’alpinismo, nessuno ricordò il Volta tra i precursori e gli iniziatori della perlustrazione dei monti.

Appare quindi doveroso e necessario — nell’occasione delle feste comensi — di illustrare il grand’uomo anche sotto questo dimenticato punto di vista che, senza dubbio, aggiunge nuovi meriti ai suoi già numerosi, incalcolabili ed universalmente conosciuti. Invero, completa egregiamente la sua gigante figura di scienziato questa che dirò, veste alpinistica; nè a lui, che scopriva nuovi orizzonti alle scienze fisico-chimiche e preparava co’ suoi trovati le glorie più belle del secolo decimonono, poteva mancare l’intuizione di quel prodotto affatto moderno della civiltà — ad un tempo impulso dell’intelletto, e speciale passione dell’animo, e bisogno igienico del corpo — che è l’alpinismo.

L’alpinismo ha essenzialmente una origine scientifica. Furono gli scienziati che, per i primi, affrontarono i disagi ed i pericoli della montagna, quando, messi tra i ferravecchi i sistemi immaginari, e lasciati ai garruli ignoranti i battibecchi metafisici, si diedero all’osservazione minuziosa ed attenta dei fenomeni naturali e scorsero, di conseguenza, nelle regioni montuose, fin’allora neglette ed abborrite, il campo più promettente al riguardo. Ond’è che, muovendo alla ricerca ed allo studio dei fenomeni, quali si presentano nelle alte contrade, gli scienziati vennero man mano rivelando alle genti i tesori, le bellezze, le seduzioni di quel nuovo mondo, per tanti e tanti secoli affatto sconosciuto. Gli artisti si commossero subito alle prime relazioni alpinistiche, ed arsero d’entusiasmo pel nuovo ambiente che si apriva, vergine e fecondo, al loro estro; e dal connubio appunto della scienza coll’arte surse, non molti lustri or sono, ciò che fu detto alpinismo. Pullularono dippoi, e formicolano oggidì, tutti gli esseri svariatissimi e più o meno genuini — dai «clowns» delle rupi agli eroi degli alberghi di montagna — che vanno sotto la qualifica generica di alpinisti.

Data, adunque, la fede di battesimo dell’alpinismo nei lavori degli scienziati del secolo scorso, e quella di cresima nelle opere degli artisti, dallo scorcio del settecento alla metà dell’ottocento, è naturale che Alessandro Volta — scienziato perfetto e moderno, e per di più dalla mente educata ad uno squisito sentimento di arte — accogliesse tosto in sè quell’amore per la montagna, che sbocciava a’ suoi dì dalle più elette intelligenze, destinato a rigogliosa fioritura ed a frutti stupendi. In altri termini: scienziato ed artista, l’illustre figlio di Como non poteva a meno d’essere anche alpinista, dal momento che l’alpinismo, nella sua nobile espressione originale — che invano tentano di offuscare i gretti partigiani dello sport puro e semplice — significa portato di scienza e manifestazione di arte; portato della scienza, divenuta positiva con l’instaurazione completa, in ogni suo ramo, dello sperimentalismo e manifestazione dell’arte, che, sotto l’influenza sovrana e benefica della scienza, si è rinnovata. La qual cosa spiega perchè l’antichità ed i tempi di mezzo, che pur hanno dato tanti capolavori artistici, siano stati completamente estranei — tranne qualche lampo divinatorio di ingegni sublimi, quali l’Alighieri, il Petrarca, Leonardo da Vinci — all’idea alpinistica.


Come tutti i grandi naturalisti — da Aristotele a Carlo Darwin — il Volta compiè, durante la sua gloriosa carriera, parecchi viaggi. Chi volesse trattare l’argomento: Volta viaggiatore troverebbe materia abbondante per mettere assieme un bellissimo studio. Il grande fisico aveva bisogno di viaggiare, onde raccogliere nuovi elementi per le sue ricerche progressive e per discutere di presenza, intorno ai fenomeni che andava decifrando, coi migliori studiosi del suo tempo. Il vedere coi propri occhi ed il discutere a viva voce è per lo scienziato, che è spinto dall’ardore verso il nuovo e l’ignoto, incomparabilmente più proficuo dell’apprendere le nozioni dai libri e del conversare per lettera. Pel naturalista poi i viaggî sono indispensabili: giustamente scriveva un secolo e mezzo fa un grande naturalista viaggiatore, il Targioni Tozzetti: «Molto più s’impara coll’osservare le produzioni naturali sul luogo nativo che col vederle raccolte in musei». Epperò il Volta sentì la necessità del viaggiare, come complemento alle indagini del laboratorio; e dai viaggi suoi, esplorando fenomeni naturali, visitando gabinetti e collezioni, ragionando cogli scienziati di maggior grido in Europa, trasse grandissimi vantaggi. Così eccitò più vivamente il suo genio, già educato da profondi studi, e potò assurgere a quelle scoperte che lo chiamarono a sedere con Archimede e con Galileo.

Ma ne’ suoi viaggi, pur mirando sempre a perfezionarsi nelle discipline predilette, aperse l’animo a tutto quanto di bello e di utile si offre a chi percorre nuove regioni e visita nuove città. Noi vediamo il Volta interessarsi di un mondo di cose svariatissime prendendone nota, nei paesi che man mano attraversa. A Lucerna si dà la pena di misurare a passi i vari ponti sulla Reuss; a Zurigo indaga attentamente come son disposte le vie e le case; a Basilea s’informa del commercio e della vita cittadina; a Strasburgo frequenta l’alta società, ed osserva che «le dame hanno affatto il far francese»; a Hindelbank s’entusiasma per un monumento sepolcrale, che, dedicato ad una signora morta di parto, rappresenta una donna risorgente dall’infranto avello col bambino fra le braccia; nella Savoia s’informa del modo di coltivare le patate e ne porta con sè una provvista, per diffonderne la coltivazione in patria; a Parigi, a Berlino, a Londra, a Vienna, dovunque insomma egli trovasi, raccoglie e consegna al suo taccuino ed alle sue lettere un tesoro di osservazioni sovra i più disparati argomenti. Fra l’altro notò persino che a Parigi, nel 1781 — a pochi anni dalla grande rivoluzione — i più eleganti della società erano i vescovi e gli abati, esclamando: Oh! la morale rigida!; e narrò d’aver trovato a Colonia una casa di canonichesse, che tenevano allegre conversazioni serali, con più di dieci tavolini da giuoco! Tutto ciò dimostra quanta genialità e versatilità distinguessero il Volta dalla turba dei filosofi tabacconi, degli scienziati racchiusi come telline nel proprio guscio; dalla gente che, pur eccellendo in un dato ramo dello scibile, si mantiene, cagnescamente ed ignorantemente, estranea a tutto il resto.

I viaggî del Volta erano dunque scientifici ed artistici ad un tempo: mentre s’occupava de’ suoi studi e delle sue ricerche, egli non mancava di dare sfogo a tutte le curiosità, come fanno i più intelligenti turisti moderni. Ma ciò che distingue in modo speciale quei viaggi è la parte alpinistica, che a ciascun d’essi si rannoda, e che dal Volta stesso è con manifesta predilezione esercitata. In ogni suo passaggio attraverso le Alpi, per recarsi all’estero — a differenza de’ suoi contemporanei che vi transitavano, per così dire, ad occhi chiusi, e colla malavoglia con cui si soggiace ad una necessità ineluttabile, magari facendosi il segno della croce, per scongiurare i temuti pericoli! — il Volta approfitta dell’occasione per studiare l’ambiente alpino, per coglierne i fenomeni estetici e scientifici, per goderne le impareggiabili delizie. E trasforma quel che per gli altri è valico puro e semplice, come in un baule, in una vera escursione alpinistica, facendo quasi sempre a piedi la strada, per meglio osservare ed apprezzare la montagna. Non appena poi le condizioni dell’itinerario glielo permettono, sosta alcun tempo sul dorso alpino e si spinge a salire qualche vetta, altrettanto desideroso di compiere lassù esperienze fisiche, quanto sospinto da vera simpatia per l’eccelso.

È strano che l’alpinismo non abbia mai attecchito, quando le vie del Cenisio, del San Bernardo, del San Gottardo, dello Spluga e di tutti gli altri passi alpini erano battute da migliaia di persone al giorno: mentre fiorisce gagliardo oggidì, in cui quelle alte vie sono abbandonate o poco frequentate, ed i viaggiatori vanno oltralpe trasportati dal treno, che rapido infila gli oscurissimi «tunnels»! Parrebbe naturale che, con tanta gente che per l’addietro attraversava le Alpi, in mezzo a tutti quei picchi sublimi, molti dovessero sentirsene invaghiti e desiderassero, scostandosi dalla strada battuta, montarne le sommità! Invece, per tanti e tanti secoli, in così favorevole e, dirò, tentatrice occasione, nessuno provò quel sentimento dell’alto, che oggigiorno è cotanto, diffuso, e tanta gente trascina.

Da Giulio Cesare — che, valicando le Alpi per tornare fra le sue legioni in Gallia, scriveva il trattato De Analogia, — agli ambasciatori spediti da Ferdinando II, granduca di Toscana, a Luigi XIII re di Francia, i quali sul Moncenisio provarono un gusto matto trastullandosi con le slitte; da Silio Italico — che dipinse le Alpi come luogo di terrore o solitudini da sfuggirsi — al Chateaubriand — che disse di non aver provato soddisfazione alcuna visitando la valle di Chamonix e sostenne che sui monti non trovasi nè il grandioso, nè il grazioso..... per tutto questo immenso lasso di tempo, e prima e dopo ancora, le Alpi furono passate e ripassate da milioni di uomini, senza che alcuno sentisse in sè il nobilissimo stimolo dell’Excelsior. L’ammirazione per le bellezze delle Alpi — conseguenza di uno squisitissimo sentimento della natura, cui toccarono poche anime eccezionali — non attecchì fra tanta gente; quelle bellezze rudi, selvaggie maestose, sublimi, non si comprendevano affatto. Così il cosmografo cinquecentista Sebastiano Münster (1550) ha descritto la Svizzera, senza una parola in favore delle montagne, e, mentre chiamò belle e piacevoli le vallate e le pianure coltivate e lodò ad usura i comodi e gli ornamenti delle città, disse spaventose e terribili — e non altro! — le montagne, le rupi e persino le cascate, tra cui la celeberrima del Reno a Sciaffusa.

Apprezzamenti consimili abbondano nella letteratura dei secoli andati. Nelle varie opere in cui si fa cenno di traversate delle Alpi — come in quelle del Cellini, del Bentivoglio e del Rucellai tra gl’italiani, del Montaigne e del Lalande tra i francesi, dell’Evelyn, di lady Maria Wortley, di lady Montagu e di Orazio Walpole fra gli inglesi — i monti non figurano se non come luoghi di spavento, come distributori di malanni, come forche caudine. I viaggi turistici erano già di moda nella prima metà del secolo scorso: eppure troviamo il Keyssler che, descrivendo le sue peregrinazioni in Italia, in Svizzera ed in Germania — compiute dal 1729 al 1731 — rifuggi dal parlare di montagne o, se costretto, ne discorse come di roba vituperevole o, quanto meno, da trascurarsi, mostrando, per esempio, di preferire la fertile, ma monotona, pianura mantovana alle aspre, ma bellissime, montagne del Tirolo. Dell’istessa epoca è l’inglese capitano Burt, che, avendo viaggiato nella parte montuosa della Scozia, chiamò orribili quelle alture, aggiungendo essere in loro confronto piena di attrattive la più volgare spianata di sabbia. Il Goldsmith, essendosi anche lui arrischiato sulle montagne scozzesi, ne parlò poi con orrore, come se v’avesse trovato l’inferno1. Il Füssli, nella sua descrizione politica e fisica della Svizzera, edita nel 1770, meravigliavasi come alcuno trovasse bella la valle d’Engelberg — in realtà bellissima! — mentre non vi si vedevano, a parer suo, che «schifose montagne, un bel convento, un brutto villaggio, qualche casa qua e là, ed un piano senza coltura»...

Insomma, eravamo già ai tempi del Volta, e gli amici della montagna potevansi contare sulle dita; fra tanta gente che, dall’antichità praticava i monti, o per un motivo o per l’altro, non era ancor sôrto l’alpinista. Ecco perchè l’opera alpinistica del Volta, che, guardata alla odierna luce, potrebbe sembrare ristretta e di poco momento, diventa, all’opposto, gigante e benemerita, se si considera in rapporto all’epoca in cui fu esplicata.


I viaggî del Volta, ho detto, furono parecchi. Cominciò nel 1777, e fece un viaggio per la Svizzera, l’Alsazia e la Savoia. Verso la metà di settembre del 1780 effettuò un breve giro in Toscana; ed in tale occasione si recò ad esaminare i celebri terreni ardenti di Pietramala, che si trovano sulla via da Bologna alla vetta del Covigliaio, da cui si discende a Firenze. Frutto di questa sua gita fu la Memoria sopra i fuochi de Terreni e delle Fontane ardenti in generale, e sopra quelli di Pietra Mala in particolare, inserita nella raccolta delle Memorie della Società Italiana (tomo II, anno 1784, pag. 662), poi negli Opuscoli scelti sulle Scienze e sulle Arti, ecc.2, (tomo VII, anno 1784, pag. 231) e da ultimo nella Collezione delle Opere sue (Firenze, 1816, tomo V, pag. 271 e seguenti). In questa memoria il Volta spiega il perchè fu indotto a visitare quei fuochi, già descritti prima di lui dal Ferber e dal Dietrich3, e cioè, per constatare «de visu» se realmente venivano prodotti da aria infiammabile, com’era indotto a pensare in seguito a quelle descrizioni, e per accertare il continuo sgorgo di tale aria attraverso la terra, in un con le circostanze che lo promuovono. Non è materia del presente studio il riassumere la dotta memoria: vai tuttavia la pena di riferirne la pagina che tratta, come dice l’autore, della «ispezione del locale» poiché, se questa non ha caratteri propriamente alpinistici, è pur sempre una bella ed importante passeggiata attraverso l’Appennino, checché ne abbia pensato, nel 1701, l’Addison, che la disse «mortalmente noiosa»!4.

«Pietra Mala è un piccolo villaggio, che si trova alla più grande altezza della strada che mette da Bologna a Firenze. Alla distanza di poco più d’un mezzo miglio al disotto del villaggio, sul pendio del monte, evvi un terreno, come un picciol campo, il quale mirato anche da lungi vedesi coperto da fiamme, che sorgono all’altezza di alcuni piedi, fiamme leggiere, ondeggianti, e di color ceruleo la notte, come s’accordano tutti a riferire gli abitanti di quelle vicinanze: in tempo di chiaro giorno queste fiamme non si scorgono che assai dappresso, e appaiono assai tenui e rossigne. Nel che può ravvisarsi di già una perfetta somiglianza colla fiamma della mia aria infiammabile nativa delle paludi. Quando io mi trasferii sul luogo, il giorno era così chiaro e il terreno illuminato dal sole, che punto quasi non si vedeano le fiamme: il calore quello era piuttosto che ne avvertiva all’accostarvisi che un faceva. Io mi trovava insieme a due miei compagni di viaggio5 e un paesano per guida, il quale rimarcar ci faceva ognuna di tali vampe, mediante il gettare qua e là nei luoghi particolarmente infiammati, che sono come altrettanti focolari distinti un dall’altro, dei fascetti di paglia che vi prèndono fuoco all’istante. Del rimanente, essendo noi molto curiosi, e non lasciando di tentare, e frugare per ogni dove, non andò guari che tutti avevamo fissati questi falò, o getti di fiamme distinti, quali più e quali men grandi, che non erano poi assolutamente invisibili; perocché, se in qualche sito ci avvenne di abbruciar prima un poco le scarpe, che ci accorgessimo della fiamma ivi esistente, questa in appresso, ponendovi occhio più attento, non ci sfuggiva... Io mi trattenni lungo tempo a ripetere e variare tali prove, ecc.. ecc.»

Per completare poi le sue ricerche sopra questo genere di fenomeni, Alessandro Volta compiè nel maggio dell’anno susseguente un altro viaggetto, portandosi sulle colline di Piacenza ad esaminare i fuochi ardenti di Velleja. E di questi fuochi, e delle esperienze fatte sopra luogo, diede ragguaglio in altra memorietta, messa in appendice alla precedente, e che parimenti può leggersi nel tomo V delle Opere6. Ma quivi non dà i particolari del viaggio, che peraltro doveva presentarsi come una non comoda escursione fra montagne, se tale seminò un secolo dopo allo Stoppani7, che così ne discorre: «Velleja è un’antica città romana, le cui meravigliose rovine sorgono dal suolo in seno agli Appennini tra Parma e Piacenza, in un luogo così internato, così selvatico, che appena credereste vi stampassero orme umane in quelle epoche antiche in cui erano barbare le regioni che oggi figurano fra le più civili dell’Europa... Io rimasi veramente sbalordito quando fissai lo sguardo su quell’area sparsa di così splendide rovine da cui erano state dissepolte tante statue di bronzo, tanti capi d’arte... Ero disceso alla stazione di Firenzuola, tra Borgo San Donnino e Piacenza, e avevo camminato, a ritroso della corrente, la lunga valle dell’Arda fino a Lugagnano; che si direbbe posto ai confini del mondo incivilito.

Per andar oltre, bisognava o raccomandarsi alle gambe, o adoperarle a inforcare l’asino o la rozza. Appigliatomi al secondo partito, attraversai una serie di colli, passai il Chiavenna e via via, sempre inoltrandomi nell’Appennino, attraverso dirupi e nere cupole di serpentino, finchè mi si aperse dinanzi una specie di ampio bacino, seminato di poveri villaggi, e là, in fondo in fondo, nell’angolo più selvaggio, Velleja!...» — Se dunque il viaggetto non era troppo comodo ai tempi dello Stoppani, figurarsi come sarà stato un secolo prima!

Nello stesso anno — e cioè in principio del settembre 1781 — il Volta fece il suo primo viaggio a Parigi, donde passò poi, agli ultimi d’aprile del 1782, a Londra, rimpatriando in agosto. Di questo viaggio pochissimo hanno discorso i biografi del sommo fisico ed i più lo confusero con quello di due anni appresso: epperò riuscì opportuna la nota del nipote Zanino, presentata all’Istituto Lombardo, col tramite del presidente Giulio Carcano, nella seduta del 12 gennaio 1882, col titolo: Il primo viaggio di Alessandro Volta a Parigi e sua dimora in quella capitale nel verno 1781-828. A questa nota potranno rivolgersi i desiderosi di notizie particolareggiate: qui basta il dire che il Volta passò le Alpi, tenendo la via da Torino in Savoia e quindi a Lione, dalla quale città, volgendo a Ginevra, visitò in seguito Losanna, Berna, Soletta, Basilea, Strasburgo, Radstadt, Carlsruhe, Manheim, Magonza, Francoforte, Coblenza, Bonn, Colonia, Aquisgrana, Rotterdam, Aja, Leida, Harlem, Amsterdam ed Utrecht. Da quest’ultima città, ripassando pei paesi già visti, tornò a Bruxelles, e da qui mosse verso Parigi, ove giunse ai 22 di dicembre, dopo avere toccato Mons, Valencienne, Cambray e Péronne. Circa questo ultimo tratto di strada segnò sul suo taccuino l’osservazione seguente: «Vi sono alcune dolci colline da attraversare, che ai Francesi, e sopratutto ai postiglioni, paiono grandi montagne». A Parigi si trattenne quattro mesi, e in questo frattempo fece continue passeggiate nei dintorni della metropoli francese, preferendo queste ai sontuosi ricevimenti ufficiali cui era continuamente invitato e che — genuino montanaro — davangli più fastidio che diletto! Tutt’al più — confessa egli medesimo — godeva di alcuni pranzi «buoni», e specialmente quando vi partecipavano «amatori di scienze naturali». Lo stesso desiderio di fare escursioni, visitando luoghi alpestri, cave, miniere, ecc., appare dalle lettere ch’egli scriveva durante il soggiorno di Londra, e che in parte riporta il Mocchetti nel suo Elogio9.

Un lungo viaggio intraprese il Volta nel 1784 in compagnia del collega Antonio Scarpa, il celebre medico. Essi s’erano recati a Vienna, e colà furono ricevuti da Giuseppe II, che, non solo li colmò di cortesie, ma diede loro il permesso ed i quattrini perchè si recassero a visitare la Germania. Però nelle poche memorie che si conoscono di questo viaggio ho trovato nulla di carattere alpinistico. Maggiori particolari, che fanno al caso nostro, si rinvengono nelle notizie tramandateci della corsa a Ginevra nel settembre del 1787 e dell’ultimo viaggio del Volta all’estero, che ebbe luogo nel 1801, quando egli fu chiamato all’Istituto di Parigi ad esporre la teoria della pila. In entrambe le occasioni il Volta valicò il Sempione. In una bella lettera10 al fratello Luigi, in data di Sion 7 settembre 1787, egli narrò come avvenne il passaggio: «Eccomi — scriveva — passata la montagna, e già arrivato in questa capitale del Vallese, che appena merita il nome di città. Il viaggio fin qui è stato incomodo sì, ma felicissimo col più bel tempo possibile. Vi piacerà di sentire il giornale: eccolo. La mattina dei 3, partito da Como, venni a Varese a pranzo, dove presi un’altra carrozza per Laveno: vi arrivai due ore prima di notte, onde con una barchetta ebbi tempo di fare il traverso di lago, che è di tre in quattro migli, a Intra ancor di giorno. Il giorno 4, presa un’altra barca, andai in tre ore circa a Marguzzo, che resta a capo del Laghetto di tal nome, il quale comunica per mezzo d’un canale d’un buon miglio di lunghezza col Lago Maggiore. A Marguzzo presi a nolo i cavalli fino a Domo d’Ossola distante cinque ore da cavallante, e quattro solamente trottando un poco. Arrivato a Domo, tre ore dopo il mezzodì, vi restai il resto della giornata, ed alloggiai in casa di don Gennaro Bianchi, quello che fu già maestro di rettorica nel nostro ginnasio di Como: egli cogli altri suoi signori di casa mi obbligarono con mille polizie fecero per me l’accordo dei cavalli fino a Syon. Il giorno 5 di gran mattino intrapresi la salita della montagna, che comincia un’ora in là da Domo, e fatti due piccoli rinfreschi per istrada, arrivai due ore prima di notte a Sempione, piccolissimo villaggio in mezzo alle Alpi e ai casolari, dove trovai una passabile osteria. Il viaggio è di ore nove da cavallante; la salita è a luogo a luogo aspra molto, ma non pericolosa la strada, avendo attenzione; sicché non mi occorse quasi mai di dover scendere da cavallo: si passano bene dei bellissimi orridi (altro che l’orrido di Bellano, diceva sovente il mio Giuseppino). Quante volte a questo proposito abbiam desiderato che li vedesse il fratello Domenicano. Il giorno (3 appena giorno abbiam ripresa la salita, che dura ancora due ore e mezza sopra il villaggio di Sempione: arrivati al luogo più alto della strada, credereste? (ditelo pure al fratello menzionato) ci vedevamo attorniati d’altre montagne di sasso nudo qua e là coperte di neve, alte ancora come le più alte del Lago di Lecco. Non si sarebbe creduto d’essere noi medesimi sì alti, se osservato non si fosse, che le vallette di neve arrivavano quasi al nostro piano orizzontale. Ma ben la discesa, che vien dopo subito rapidissima e continuata per tre ore e mezzo fino a Briga, insegna a qual altezza ci trovavamo. L’insegna anche il freddo, il quale verso le nove della mattina, il tempo essendo placidissimo, era colassù di soli quattro gradi sopra la congelazione dell’acqua. Fuori di quel sito e del villaggio Sempione, ove la mattina stessa e innanzi era sette gradi, nel resto della salita e della discesa abbiam sofferto sempre caldo, sì che in alcune ore eravamo arrostiti dal sole; a Briga, grosso villaggio, ove passa il Rodano proveniente per un’altra valle dal Monte Forca sopra il San Gottardo, finisce la gran discesa e la strada seguendo sempre tal fiume è bella e carrozzabile; ma carrozze non ve ne sono, se non si fanno venire a posta. Continuammo dunque, dopo aver pranzato a Briga, il nostro viaggio a cavallo fino ad un villaggio chiamato Tortman distante cinque ore, ove trovai bella e buona osteria. Oggi, finalmente, giorno 7 facemmo di mattina le altre sei ore, che ci restavano fino a Syon per una strada più bella ancora della precedente. Stanco dal lungo cavalcare, e della rapidissima discesa a Briga, che ieri mattina feci quasi tutta a piedi, ho voluto riposare questo dopo pranzo, ed ho rimandati i cavalli. Domattina di buonissima ora partirò con carrozza accordata qui fino a Losanna, distante ancora vent’ore; onde mi conviene impiegarvi due forti giornate. Ma almeno passerò più bei paesi, il Basso Vallese e tutta la parte superiore del Lago di Ginevra, di cui vedrò il principio a Villeneuve, ov’è l’imboccatura del Rodano; la spesa è fortissima più di quello che mi figurava; vanno i luigi come scudi; due per i cavalli da Domo d’Ossola a qui, senza la mancia al condottiere; due per la carrozza da qui a Losanna, ecc. Insomma; per arrivare a Ginevra ci andranno venti zecchini almeno. Scrivetemi a Ginevra, purchè sia prima dei 22 giacche ai 27 o 28 potrei partire di là. Addio. Salutate tutti».

Intorno al viaggio a Parigi del 1801 scrisse un interessante volume il nipote Zanino, desumendone le notizie dalle numerose carte di famiglia e dal giornale di viaggio redatto dal chimico Luigi Brugnatelli, che accompagnò il collega11.

La parte che riguarda il valico delle Alpi, ossia il tratto di viaggio da Como a Ginevra, durato undici giorni, è così narrata dal diligente ed affettuoso biografo. I viaggiatori (Volta e Brugnatelli, accompagnati dalla moglie e dal fratello del primo) partirono da Como il 1 settembre, diretti a Varese. «Quivi trovarono l’amico Dandolo, che fu loro quanto mai cortese; e tutti insieme pranzarono all’albergo: dopo di che il vecchio don Luigi (il fratello) colla signora tornarono sui propri passi. Alle sei della mattina seguente i due amici procedevano verso Laveno. Passati in barca ad Intra e continuando il viaggio sul lago, omisero pel tempo cattivo, di visitare le meritamente vantate isole. A Mergozzo la notte. Il terzo giorno cinque o sei ore di cammino a cavallo lungo la vallata d’Ossola. Tirati da sei bravi muli — racconta il Volta in una sua famigliare in data 15 settembre — partivano il quarto giorno da Domodossola per l’alpestre e terribile gola della Diveria fino al villaggio chiamato Sempione, con otto ore di viaggio. Attraversano a quando a quando dei ponti rozzamente costrutti di tronchi d’alberi collegati; e vedono Varzo, indi si fa cupa la valle e macigni enormi le pendono minacciosi sui fianchi, ma la ravvivano spesso rumoreggianti cascate. Il 5 salivano il Sempione, dimentichi del freddo, per ammirare le pittoresche bellezze di quei monti, ingemmati qua e là di ghiacciai, altrove aperti da orribili abissi. Pochi anni avanti su quella eccelsa cima sorgeva una grande croce; allora invece si pensava di stabilirvi un Ospizio analogo a quello del San Bernardo. Cede colà all’aspro idioma tedesco la dolce lingua italiana. «Sostarono dalla rapida discesa a Briga, e v’incontrò Volta un suo conoscente, il rinomato Dolomieu12, col prefetto del Lemano, sig. Eymar. Quel dotto stava facendo escursioni per oggetti di storia naturale: del colto uomo di governo suo compagno, benemerito per la protezione di cui favoriva gli studiosi in generale, non voglio omettere di dire ch’ebbe in seguito a usare le più squisite cortesie all’elettricista comense. Questi scrive di là alla famiglia: che il passaggio della gran montagna è stato buonissimo; che ha veduto con piacere alcuni tratti della nuova strada; si felicita dell’incontro col Dolomieu; e domani — finisce — alle 5 12 della mattina, partiamo in due char-à-bancs, ossia carrette, non essendovi altri legni, per Sion, capitale del basso Vallese, dove potremo avere una buona carrozza per andare a Ginevra. Impiegheremo per arrivarvi cinque giorni. Colà giunto vi scriverò di nuovo. — Il 6 pranzavano a Tortmagno, dormivano a Sierre, grosso borgo e alquanto signorile. Fecero la successiva stazione a Sion. Brugnatelli, secondo il costume dell’amico, misurava col passo i ponti del Rodano. Pervenuti a Martigny e noleggiata ivi una comoda carrozza chiusa, correvano a Betz a visitarvi la produzione del sale dall’acqua evaporata. Toccato, il giorno 8, a Villeneuve, il lago di Ginevra, che costeggiarono alla destra, si diressero, per quell’ameno territorio, e attraversando Vevey, piccola ma nota città, alla cospicua Losanna...». Finalmente il giorno 11 arrivavano a Ginevra.

Vedemmo così come ne’ vari suoi viaggi il Volta avesse più volte valicato le Alpi e gli Appennini, dilettandosi sempre di quelle posture elevate, e talora sostando su di esse a fare ricerche ed osservazioni. Ma il viaggio suo che assunse, più d’ogni altro, vero carattere alpinistico, fu il primo, ed è su questo che noi fermeremo, per un bel po’, la dovuta attenzione.

  1. Lo stesso Macaulay cercò di scusare questi sentimenti del Burt e del Goldsmith col dire che l’alta Scozia non poteva a quei tempi piacere per la poca sicurezza che vi regnava; ma ognun vede che la scusa è molto magra. Nelle montagne scozzesi compiè dippoi un lungo viaggio l’inglese John Knox, che lo descrisse in due volumi, subito tradotti in francese (Voyage dans les montagnes de l'Ecosse et dans les isles, fait en 1786 par John Knox. Paris, 1790).
  2. Fu questa una raccolta importantissima di lavori scientifici, iniziata nel 1775 col titolo: Scelta di opuscoli interessanti tradotti da varie lingue (Milano, Marelli). Se ne pubblicarono in due anni 36 volumi in-12, e nel 1777 fu fatta dal Galeazzi una seconda edizione in 8 tomi in-4. La raccolta si continuò nel 1778 sotto il titolo di Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti (Milano, Marelli) e proseguì fino al 1803, con 22 voi. in-8. Due altri volumi in-4, stampati dall’Agnelli e compilati dall’Amoretti, apparvero nel 1804 col titolo: Nuova scelta di opuscoli interessanti sulle scienze e le arti, tratti dagli Atti delle Accademie, ecc.
  3. Gian Giacomo Ferber, naturalista tedesco del secolo scorso, viaggiò l’Italia e scrisse una serie di lettere sulla mineralogia del suolo italiano, che poi vennero pubblicate a Praga nel 1773. Quelle lettere furono tradotte in francese dal barone Dietrich, che vi aggiunse molte note (Strasburgo, 1776), e dal Raspe, pure con note in inglese (Londra, 1776).
  4. “After a very tedious Journey over the Apennines.„ (Remarks on several part of Italy, etc. in the years 1701-1703 (Londra 1741).
  5. Il marchese Torelli, patrizio pavese, e l’abate Giuseppe Re, assistente al Gabinetto di Fisica dell’Università di Pavia. Di questo viaggio in Toscana il Volta scrisse al Firmian in due lettere, che si conservano presso l’Archivio di Stato in Milano e furono pubblicate dal Cantù nel tomo XVIII dell’Archivio Storico di Firenze.
  6. Un altro Volta studiò i fuochi di Velleja, e questi fu Serafino Volta, che pubblicò nel 1785 la Relazione di un viaggio da Firenzuola a Velleja (Opuscoli interessanti vol. VIII). A lui aveva scritto Alessandro una lettera, in data di Pavia 20 marzo 1781, intorno ai fuochi di Pietramala: trovasi nell’epistolario pubblicato da Giuseppe Ignazio Montanari sotto il titolo di Lettere inedite di A. Volta, coll’elogio del medesimo scritto dal prof. Pietro Configliacchi (Pesaro 1834; sulla copertina 1835)
  7. Il Bel Paese: serata XVIII, § 6.
  8. Rendiconti dell’Istituto Lombardo: Serie II, vol. XV, fasc. 1.
  9. Mocchetti: Elogio del Conte Volta (Como, Ostinelli, 1833)
  10. È compresa fra le lettere inedite pubblicate dal Montanari, op. cit.
  11. Alessandro Volta a Parigi; studio cronistorico dell’avv. Zanino Volta, con documenti inediti e fac-simili (Milano, Francesco Vallardi, 1879). Il giornale di viaggio redatto dal Brugnatelli conservasi nella Biblioteca universitaria di Pavia.
  12. Di questo incontro — a poca distanza dal quale il Dolomieu moriva — parla anche il Bruan-Neergaaed nel suo: Journal du dernier voyage du C.en Dolomieu dans les Alpes (Paris, 1802). Ecco le sue parole: “... Nous rencontrames à Brigg- le célèbre Volta, qui nous fis quelques expériences sur le galvanisme, ayant avec lui un petit appareil; il était accompagnè du chimiste connu Brugnatelli, rédacteur d’un journal de chimie: ils sont tous les deux professeurs à Pavie, et se rendaient à Paris pour y conférer avec les savans dans leur partie„



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