< Alessandro nell'Indie
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Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO

SCENA I

Campo di battaglia sulle rive dell’Idaspe. Tende, carri rovesciati, soldati dispersi, armi, insegne ed altri avanzi dell’esercito di Poro disfatto da Alessandro.

Terminata la sinfonia, s’ode strepito d’armi e di strumenti militari. Nell’alzar della tenda veggonsi soldati che fuggono.

Poro con ispada nuda, indi Gandarte.

Poro. Fermatevi, codardi! Ah! con la fuga
mal si compra una vita. A chi ragiono?
Non ha legge il timor. La mia sventura
i piú forti avvilisce. È dunque in cielo
sí temuto Alessandro,
che a suo favor può fare ingiusti i numi?
Ah! si mora, e si scemi
della spoglia piú grande
il trionfo a costui... Ma la mia sposa
lascio in preda al rival? No, si contrasti
 (ripone la spada nel fodero)
l’acquisto di quel core
sino all’ultimo dí.
Gandarte. Prendi, signore,
 (frettoloso e porgendo il proprio elmo a Poro)
prendi, e il real tuo serto
sollecito mi porgi. Oh Dio! s’avanza
la schiera ostil. Deh! non tardar. S’inganni
il nemico cosí.
Poro. Ma il tuo periglio?

Gandarte. È periglio privato. In me non perde
l’India il suo difensor. Porgi, t’affretta:
non abbiam che un istante.
Poro.  Ecco, o mio fido,
(si leva il proprio cimiero e lo pone sul capo a Gandarte)
sul tuo crine il mio serto. Ah! sia presagio
di grandezze future.
Gandarte. E vengano con lui le tue sventure. (parte)

SCENA II

Poro, poi Timagene con ispada nuda e séguito de’ greci, indi Alessandro.

Poro. Invano, empia fortuna,
il mio coraggio indebolir tu credi. (in atto di partire)
Timagene. Guerrier, t’arresta, e cedi
quell’inutile acciaro. È piú sicuro
col vincitor pietoso inerme il vinto.
Poro. Pria di vincermi, oh quanto
e di periglio e di sudor ti resta!
Timagene. Su, macedoni, a forza
l’audace si disarmi.
Poro. (volendo difendersi, gli cade la spada). Ah Stelle ingrate!
Il ferro m’abbandona.
Alessandro.  Olà! fermate.
Abbastanza finora
versò d’indico sangue il greco acciaro.
Macchia la sua vittoria
vincitor che ne abusa. (a Timagene) I miei seguaci
abbian virtude alla fortuna eguale.
Timagene. Fia legge il tuo voler. (parte)
Poro.  (Questi è il rivale.)
Alessandro. Guerrier, dimmi chi sei?

Poro.  Nacqui sul Gange;
vissi fra l’armi; Asbite ho nome; ancora
non so che sia timor; piú della vita
amar la gloria è mio costume antico;
son di Poro seguace e tuo nemico.
Alessandro. (Oh ardire! oh fedeltá!) Qual è di Poro
l’indole, il genio?
Poro.  È degno
d’un guerriero e d’un re. La tua fortuna
l’irrita e non l’abbatte; e spera un giorno
d’involar quegli allori alle tue chiome
colá su l’are istesse,
che il timor de’ mortali offre al tuo nome.
Alessandro. In India eroe sí grande
è germoglio straniero. In greca cuna
d’esser nato il tuo re degno saria.
Poro. Credi dunque che sia
il ciel di Macedonia
sol fecondo d’eroi? Pur su l’Idaspe
la gloria è cara e la virtú s’onora:
ha gli Alessandri suoi l’Idaspe ancora.
Alessandro. Valoroso guerriero, al tuo signore
libero torna, e digli
che sol vinto si chiami
dalla sorte o da me. L’antica pace
poi torni a’ regni sui:
altra ragion non mi riserbo in lui.
Poro. «Vinto si chiami»! E ambasciador mi vuoi
di simili proposte?
Poco opportuno ambasciador scegliesti.
Alessandro. Ma degno assai. (a greci) Si lasci
libero il varco al prigionier. Ma inerme
partir non dee. Questa, ch’io cingo, accetta
 (si toglie dal fianco la spada per darla a Poro)
di Dario illustre spoglia,
che la man d’Alessandro a te presenta;

e, lei trattando, il donator rammenta.
(Poro prende la spada da Alessandro, al quale una comparsa ne presenta subito un’altra)
          Poro. Vedrai con tuo periglio
     di questa spada il lampo,
     come baleni in campo
     sul ciglio al donator.
          Conoscerai chi sono:
     ti pentirai del dono;
     ma sará tardi allor. (parte)

SCENA III

Alessandro, poi Timagene con Erissena incatenata, due indiani e séguito.

Alessandro. Oh ammirabile sempre,
anche in fronte a’ nemici,
carattere d’onor! Quel core audace,
perché fido al suo re, minaccia e piace.
Timagene. Questa, che ad Alessandro
prigioniera donzella offre la sorte,
germana è a Poro.
Erissena.  (Oh dèi!
D’Erissena che fia!)
Alessandro.  Chi di quei lacci
l’innocente aggravò?
Timagene.  Questi di Poro
sudditi per natura,
per genio a te. Fu lor disegno offrirti
un mezzo alla vittoria.
Alessandro.  Indegni! Il ciglio
rasciuga, o principessa. Ad Alessandro
persuade rispetto il tuo sembiante.
Erissena. (Che dolce favellar!)
Timagene.  (Son quasi amante.)

Alessandro. Agli empi, o Timagene,
si raddoppino i lacci,
che si tolgono a lei. Tornino a Poro
gl’infidi ed Erissena:
questa alla libertá, quelli alla pena.
(due comparse sciolgono Erissena ed incatenano gl’indiani)
Erissena. Generosa pietá!
Timagene.  Signor, perdona:
se Alessandro foss’io, direi che molto
giova se resta in servitú costei.
Alessandro. S’io fossi Timagene, anche il direi.
          Vil trofeo d’un’alma imbelle
     è quel ciglio allor che piange:
     io non venni insino al Gange
     le donzelle a debellar.
          Ho rossor di quegli allori,
     che non han fra’ miei sudori
     cominciato a germogliar. (parte)

SCENA IV

Erissena e Timagene.

Timagene. (Oh rimprovero acerbo,
che irrita l’odio mio!)
Erissena.  Questo è Alessandro?
Timagene. È questo.
Erissena.  Io mi credea
che avessero i nemici
piú rigido l’aspetto,
piú fiero il cor. Ma sono
tutti i greci così?
Timagene.  (Semplice!) Appunto.
Erissena. Quanto invidio la sorte
delle greche donzelle! Almen fra loro
fossi nata ancor io!

Timagene.  Che aver potresti
di piú vago, nascendo in altra arena?
Erissena. Avrebbe un Alessandro anche Erissena.
Timagene. Se le greche sembianze
ti son grate cosí, l’affetto mio
posso offrirti, se vuoi: son greco anch’io.
Erissena. Tu greco ancor?
Timagene.  Sotto un istesso cielo
spuntò la prima aurora
a’ giorni d’Alessandro, a’ giorni miei.
Erissena. Non è greco Alessandro, o tu nol sei.
Timagene. Dimmi almen qual ragione
sí diverso da me lo rende mai.
Erissena. Ha in volto un non so che, che tu non hai.
Timagene. (Che pena!) Ah! giá per lui
fra gli amorosi affanni
dunque vive Erissena?
Erissena.  Io?
Timagene.  Sí.
Erissena.  T’inganni.
     Chi vive amante, sai che delira;
spesso si lagna, sempre sospira,
né d’altro parla che di morir.
     Io non mi affanno, non mi querelo;
giammai tiranno non chiamo il cielo:
dunque il mio core d’amor non pena,
o pur l’amore non è martir.
(parte coi due prigionieri indiani, accompagnata dal séguito di Timagene)

SCENA V

Timagene.

Ma qual sorte è la mia! Nacque Alessandro
per offendermi sempre. Anche in amore
m’oltraggia il merto suo: picciola offesa,
che rammenta le grandi. Eh! l’odio mio
si appaghi alfine. Irriterò le squadre,
solleverò di Poro
le cadenti speranze: alla vendetta
qualche via troverò; ché il vendicarsi
d’un ingiusto potere
persuade natura anche alle fiere.
          O su gli estivi ardori
     placida al sol riposa,
     o sta fra l’erbe e i fiori
     la pigra serpe ascosa,
     se non la preme il piede
     di ninfa o di pastor.
          Ma, se calcar si sente,
     a vendicarsi aspira;
     e su l’acuto dente
     il suo veleno e l’ira
     tutta raccoglie allor. (parte)

SCENA VI

Recinto di palme e cipressi con picciolo tempio nel mezzo, dedicato a Bacco, nella reggia di Cleofide.

Cleofide con séguito, indi Poro.

Cleofide. Perfidi! qual riparo, (alle comparse)
qual rimedio adoprar? Mancando ogni altro,

dovevate morir. Tornate in campo,
ricercate di Poro. Il vostro sangue,
se tardo è alla difesa,
se vile è alla vendetta,
spargetelo dal seno
alla grand’ombra in sacrificio almeno.
 (partono le comparse)
Oh dèi! mi fa spavento
piú di Poro il coraggio,
l’anima intollerante e le gelose
furie, che in sen si facilmente aduna,
che il valor d’Alessandro e la fortuna.
Poro. (Ecco l’infida!) Io vengo,
regina, a te di fortunati eventi
felice apportator. (con ironia amara)
Cleofide. (rasserenandosi) Numi! respiro.
Che rechi mai?
Poro. (come sopra, con ironia) Per Alessandro alfine
si dichiarò la sorte. Esulta: avrai
dell’Oriente oppresso (Cleofide si turba)
a momenti al tuo piè tutti i trofei.
Cleofide. Cosí m’insulti? Oh dèi! Dunque saranno
eterne le dubbiezze
del geloso tuo cor? Fidati, o caro,
fidati pur di me.
Poro.  Di te si fida
anche Alessandro. E chi può dir qual sia
l’ingannato di noi? So ch’ei ritorna,
e torna vincitor; so che altre volte
coll’armi de’ tuoi vezzi, o finti o veri,
hai le sue forze indebolite e dome.
E creder deggio? e ho da fidarmi? e come?
Cleofide. Ingrato! hai poche prove
della mia fedeltá? Comparve appena
su l’indico confine
dell’Asia il domator, che il tuo periglio

fu il mio primo spavento. Incontro a lui
lusinghiera m’offersi, onde con l’armi
non passasse a’ tuoi regni. Ad onta mia,
seco pugnasti. A te, giá vinto, asilo
fu questa reggia; e non è tutto. In campo
la seconda fortuna
vuoi ritentar: l’armi io ti porgo, e perdo
l’amistá d’Alessandro,
di mie lusinghe il frutto,
de’ miei sudditi il sangue, il regno mio;
e non ti basta? e non mi credi?
Poro. (commosso)   (Oh Dio!)
Cleofide. Tollerar piú non posso
cosí barbari oltraggi.
Fuggirò questo cielo; andrò raminga
per balze e per foreste
spaventose allo sguardo, ignote al sole,
mendicando una morte. I miei tormenti,
le tue furie una volta
finiranno cosí. (in atto di partire disperata)
Poro.  Férmati! Ascolta.
Cleofide. Che dir mi puoi?
Poro.  Che a gran ragion t’offende
il geloso amor mio.
Cleofide.  Questo è un amore
peggior dell’odio.
Poro.  Io ti prometto, o cara,
che mai piú di tua fede
dubitar non saprò.
Cleofide.  Queste promesse
mille volte facesti, e mille volte
tornasti a vacillar.
Poro.  Se mai di nuovo
io ti credo infedel, per mio tormento
altra fiamma t’accenda,
e vera in te l’infedeltá si renda.

Cleofide. Ancor non m’assicuro:
giuralo.
Poro.  A tutti i nostri dèi lo giuro.
          Se mai piú sarò geloso,
     mi punisca il sacro nume,
     che dell’India è domator.

SCENA VII

Erissena accompagnata da macedoni, e detti.

Cleofide. Erissena! Che veggo!
Poro. Come! Tu nella reggia?
Erissena.  Un tradimento
mi portò fra’ nemici, e un atto illustre
del vincitor pietoso a voi mi rende.
Cleofide. Che ti disse Alessandro? (Poro si turba)
Parlò di me?
Poro. (si corregge) (Ma questa
è innocente richiesta.)
Erissena.  I detti suoi
ridirti non saprei: so che mi piacque;
so che dolce in quel volto
fra lo sdegno guerrier sfavilla amore.
Di polve e di sudore
anche aspersa la fronte
serba la sua bellezza, e l’alma grande
in ogni sguardo suo tutta si vede.
Poro. Cleofide da te questo non chiede.
 (con isdegno ad Erissena)
Cleofide. Ma giova questo ancora
forse a’ disegni miei.
Poro. (Ah! non torniamo a dubitar di lei.)
Cleofide. Macedoni guerrieri,
tornate al vostro re: ditegli quanto
anche fra noi la sua virtú s’ammira;

ditegli che al suo piede
tra le falangi armate
Cleofide verrá.
Poro.  Come! Fermate!
  (a’ macedoni, con impeto)
Tu ad Alessandro? (a Cleofide, turbato)
Cleofide.  E che per ciò? Non vedo
ragion di meraviglia.
Poro. (come sopra)   In questa guisa
il tuo decoro, il nome tuo si oscura.
L’India che mai dirá?
Cleofide.  Questa è mia cura.
Partite. (a’ macedoni, che partono)
Poro.  (Io smanio.)
Cleofide.  Ah! non vorrei che fosse
il tuo soverchio zelo
quel solito timor che t’avvelena.
Poro. Lo tolga il cielo! (con tranquillitá forzata)
 (Oh giuramento! oh pena!)
Cleofide. Siegui a fidarti: in questa guisa impegni
a maggior fedeltá gli affetti miei.
Quando Poro mi crede,
come tradir potrei sí bella fede?
          Se mai turbo il tuo riposo,
     se m’accendo ad altro lume,
     pace mai non abbia il cor.
          Fosti sempre il mio bel nume;
     sei tu solo il mio diletto;
     e sarai l’ultimo affetto,
     come fosti il primo amor. (parte)
     

SCENA VIII

Poro, Erissena, indi Gandarte.

Poro. Dèi, che tormento è questo!
Va Cleofide al campo, ed io qui resto!
No, no! si siegua. A’ suoi novelli amori
serva di qualche inciampo
la mia presenza. (in atto di partire)
Gandarte.  Ove, signore?
Poro.  Al campo.
Gandarte. Ferma! non è ancor tempo. Io non invano
tardai finor. Questo real diadema
Timagene ingannò: Poro mi crede;
mi parlò: lo scopersi
nemico d’Alessandro. Assai da lui
noi possiamo sperare.
Poro.  Or non è questa
la mia cura maggiore. Al greco duce
Cleofide s’invia.
Gandarte.  Ma che paventi?
Erissena. Che figuri per ciò?
Poro.  Mille figuro
immagini crudeli
d’infedeltá, vezzi, lusinghe, sguardi.
Che posso dir?
Erissena.  Ma saran finti.
Poro.  Addio.
Fingendo s’incomincia. Ah! non sapete
quanto è breve il sentiero,
che dal finto in amor conduce al vero.
 (parte frettoloso)

SCENA IX

Erissena e Gandarte.

Gandarte. Principessa adorata, allor che intesi
te prigioniera, il mio dolor fu estremo:
or che sciolta ti vedo,
credimi, estremo è il mio piacer.
Erissena.  Lo credo.
Dimmi: vedesti in su gli opposti iidi
dell’Idaspe Alessandro?
Gandarte.  Ancor nol vidi.
E tu provasti mai
alcun timor ne’ miei perigli?
Erissena.  Assai.
Se Alessandro una volta
giungi a veder...
Gandarte.  M’è noto. Ah! piú di lui
or non parliam. Dimmi che m’ami; i pegni
rinnova di tua fe’; dimmi che anela
il tuo bel core all’imeneo promesso.
Erissena. Eh! non è giá l’istesso
il vedere Alessandro
che udirne ragionar. Qualunque vanto
spiegar non può...
Gandarte.  Ma tanto
parlar di lui che mai vuol dir? Pavento,
cara (sia con tua pace),
che Alessandro ti piaccia.
Erissena.  È ver: mi piace.
Gandarte. Dunque, cosí tiranna,
mi deridi, m’inganni?
Erissena.  E chi t’inganna?
San gli dèi ch’io non fíngo.
Gandarte.  Allor fingevi

dunque, o crudel, che del tuo core amante
mi giuravi il possesso.
Erissena. Allora io non fingea: non fingo adesso. (parte)

SCENA X

Gandarte.

Perché senz’opra degli altrui sudori
nasceano i frutti, i fiori;
perché piú volte l’anno,
non dubbio prezzo delle altrui fatiche,
biondeggiavan le spiche, e al lupo appresso
in un covile istesso
il sicuro agnellin prendea ristoro;
era bella, cred’io, l’etá dell’oro.
Ma, se allor le donzelle,
per soverchia innocenza, a’ loro amanti
dicean d’esser infide
chiaro cosí come Erissena il dice,
per me l’etá del ferro è piú felice.
          Ah, colei che m’arde il seno,
     se non m’ama, ah, finga almeno!
     Un inganno è men tiranno
     d’un sí barbaro candor.
          Finché sembrami sincera,
     io mi credo almen felice;
     se la scopro ingannatrice,
     cangio in odio almen l’amor. (parte)

SCENA XI

Gran padiglione d’Alessandro vicino all’Idaspe. Vista della reggia di Cleofide sull’altra sponda del fiume.

Alessandro e Timagene, guardie dietro al padiglione.

Alessandro. Pur troppo, amico, è vero: ama Alessandro;
e nel suo cor trionfa
Cleofide giá vinta.
Timagene.  Eccola: a lei
offri e dimanda amore.
Alessandro.  Amor? T’inganni:
Alessandro sí presto
non si lascia agli affetti in abbandono.
Debole a questo segno ancor non sono.

SCENA XII

Nel tempo d’una breve sinfonia si vedono venire diverse barche pel fiume, dalle quali scendono molti indiani, portando diversi doni; e dalla principale sbarca Cleofide, che viene incontrata da Alessandro.

Cleofide e detti.

Cleofide. Ciò ch’io t’offro, Alessandro,
è quanto di piú raro,
o nell’indiche rupi
o nella vasta oriental marina,
per me nutre e colora
il sol vicino e la feconda aurora.
Se non mi sdegni amica, eccoti un dono
all’amistá dovuto;
se suddita mi brami, ecco un tributo.

Alessandro. Da’ sudditi io non chiedo
altr’omaggio che fede, e dagli amici
prezzo dell’amistade io non ricevo:
onde inutili sono
le tue ricchezze, o sian tributo o dono.
Timagene, alle navi
tornino que’ tesori.
(Timagene si ritira, dando ordine agl’indiani che tornino su le navi coi doni)
Cleofide. Ah! mel predisse il cor. Questo disprezzo
giustifica il mio pianto. (piange)
L’esserti... odiosa... tanto...
Alessandro. Ma non è ver. Sappi... t’inganni... Oh Dio!
(M’usci quasi da’ labbri «idolo mio».)
Cleofide. Signor, rimanti in pace. A me non lice
miglior sorte sperar de’ doni miei:
piú di quelli importuna io ti sarei. (in atto di partire)
Alessandro. T’arresta. (arrestandola) Ah! mal, regina,
interpetri il mio cor. Siedi e ragiona.
Cleofide. Ubbidirò.
Alessandro.  (Che amabile sembianza!)
Cleofide. (Mie lusinghe, alla prova!) (siedono)
Alessandro.  (Alma, costanza!)
Cleofide. In faccia ad Alessandro
mi perdo, mi confondo; e non so come...

SCENA XIII

Timagene e detti.

Timagene. Monarca, il duce Asbite
chiede a nome di Poro
di presentarsi a te.
Cleofide.  (Numi!)
Alessandro.  Fra poco
verrá: per or con la regina...

Timagene.  Appunto
innanzi a lei di ragionar desia.
Alessandro. Venga. (Timagene parte)
Cleofide.  (Poro l’invia!
Chi è mai costui!) (turbata)
Alessandro.  T’è noto il suo pensiero?
Cleofide. Signor, l’ignoro, e non so dirti il vero.

SCENA XIV

Poro e detti.

Poro. (Eccola: oh gelosia!)
Cleofide.  (Poro!)
Poro.  Perdona,
Cleofide, s’io vengo
importuno cosí. La tua dimora
piú breve io figurai; ma d’Alessandro
piacevole è il soggiorno e di te degno.
Cleofide. (Giá di nuovo è geloso! Ardo di sdegno.)
Alessandro. Parla, Asbite: che chiede
Poro da me?
Poro.  Le offerte tue ricusa,
né vinto ancor si chiama.
Alessandro.  E ben, di nuovo
tenti la sorte sua.
Cleofide.  Signor, sospendi
la tua credenza: Asbite
forse non ben comprese
di Poro i detti.
Poro.  Anzi son questi.
Cleofide.  Eh! taci.
Poro. No: lo pretendi invan.
Cleofide.  (Per suo castigo
abbia ragion d’ingelosirsi.) Il passo,

amico o vincitor, qual piú ti piace,
volgi, signore, alla mia reggia.
Poro.  (Ah, infida!)
Cleofide. Piú dell’Idaspe il varco
non ti sará conteso, e lá saprai
meglio tutti di Poro i sensi e i miei.
Poro. Non fidarti a costei:
è avvezza ad ingannar. Grato a’ tuoi doni,
io ti deggio avvertir.
Cleofide.  (Che soffro!)
Alessandro.  Asbite,
sei troppo audace.
Poro.  Io n’ho ragion: conosco
Cleofide e il mio re. Da lei tradito...
Cleofide. Non udirlo, o signor; nol merta: i primi
oltraggi non son questi,
ch’io soffro da costui.
Poro.  (Perfida!)
Cleofide.  Accetti,
Alessandro, l’invito?
Qual risposta mi rendi?
Che ho da sperar? Verrai?
Alessandro.  Verrò: m’attendi. (parte)

SCENA XV

Poro e Cleofide.

Poro. Lode agli dèi! Son persuaso alfine
della tua fedeltá. (con ironia)
Cleofide. (come sopra)   Lode agli dèi!
Poro di me si fida,
piú geloso non è.
Poro.  Dov’è chi dice
che un femminil pensiero
dell’aura è piú leggiero?

Cleofide.  Ov’è chi dice
che piú del mare un sospettoso amante
è torbido e incostante?
Io non lo credo.
Poro.  Ed io
nol posso dir.
Cleofide.  Mi disinganna assai...
Poro. Mi convince abbastanza...
Cleofide. ...la placidezza tua.
Poro.  ...la tua costanza.
Cleofide. Ricordo il giuramento.
Poro. La promessa rammento.
Cleofide. Si conosce...
Poro.  Si vede...
Cleofide. Che placido amator!
Poro.  Che bella fede!
          «Se mai turbo il tuo riposo,
     se m’accendo ad altro lume,
     pace mai non abbia il cor».
          Cleofide. «Se mai piú sarò geloso,
     mi punisca il sacro nume,
     che dell’India è domator».
     Poro. Infedel! questo è l’amore?
     Cleofide. Menzogner! questa è la fede?
     A due. Chi non crede al mio dolore,
     che lo possa un dí provar!
     Poro. Per chi perdo, o giusti dèi,
     il riposo de’ miei giorni!
     Cleofide. A chi mai gli affetti miei,
     giusti dèi, serbai finora!
     A due. Ah! si mora e non si torni

     per l’ingrata a sospirar.
     per l’ingrato
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