< Alessandro nell'Indie
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Atto terzo

VARIANTI DELLA PRIMA REDAZIONE

rifiutata dall’autore


ATTO PRIMO

SCENA I

Poro. Fermatevi, o codardi! Ah! con la fuga
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
i piú forti avvilisce, io la ravviso.
Le calpestate insegne,
le lacere bandiere,
l’armi disperse, il sangue, e tanti e tanti
avanzi dell’insana
licenza militar tolgono il velo
a tutto il mio destino. È dunque in cielo
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
il trionfo a costui. Giá visse assai
chi libero morí. (in atto di uccidersi)
Gandarte.  Mio re, che fai? (l’impedisce)
Poro. Involo, amico, un infelice oggetto
all’ira degli dèi.
Gandarte.  Chi sa! Vi resta
qualche nume per noi. Mai non si perde
l’arbitrio di morir; né forse a caso
fra l’ire sue ti rispettò Fortuna.
Vivi alla tua vendetta;
a Cleofide vivi.
Poro.  Oh Dio! Quel nome,
fra l’ardor dello sdegno,

di geloso veleno il cor m’agghiaccia.
Ah! l’adora Alessandro!
Gandarte. E Poro l’abbandona?
Poro. No, no; gli si contenda (ripone la spada nel fodero)
l’acquisto di quel core
fino all’ultimo dí...
Gandarte.  Fuggi, o signore:
stuol nemico s’avanza.
Poro.  A tal difesa
inesperto sarei.
Gandarte. Célati almen.
Poro.  Palese
mi farebbe lo sdegno.
Gandarte.  Oh dèi! S’appressa
la schiera ostil... (si leva il cimiero) Prendi, e il real tuo serto
sollecito mi porgi: almen s’inganni
il nemico cosí.
Poro.  Ma il tuo periglio?
Gandarte. È periglio privato: in me non perde
l’India il suo difensor.
Poro.  Pietosi dèi,
voi mi toglieste poco,
riserbandomi in lui
sí bella fedeltá. Cinga il mio serto
 (si leva il cimiero proprio, e lo pone sul capo a Gandarte)
quella onorata fronte,
degna di possederlo, e sia presagio
dí grandezze future;
 (prende il cimiero di Gandarte, e se lo pone in capo)
ma non porti con sé le mie sventure.
               Gandarte. È prezzo leggiero
          d’un suddito il sangue,
          se all’indico impero
          conserva il suo re.
               Oh inganni felici,
          se al par de’ nemici
          restasse ingannato
          il fato da me! (parte)

SCENA II

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro.  Olá! fermate.
Abbastanza finora
versò d’indico sangue il greco acciaro.
Tregua alle stragi. (a Timagene) Aduna
le disperse falangi, e in esse affrena
di vincere il desio. Scema il soverchio
uso della vittoria
il merto al vincitor: ne’ miei seguaci
chiedo virtude alla fortuna uguale.
Timagene. Il cenno eseguirò. (parte)
Poro.  (Questi è il rivale.)
Alessandro. Guerrier, chi sei?
Poro.  Se mi richiedi il nome,
mi chiamo Asbite; se il natal, sul Gange
io vidi il primo dí; se poi ti piace
saper le cure mie, per genio antico
son di Poro seguace e tuo nemico.
Alessandro. (Come ardito ragiona!) E quali offese
tu soffristi da me?
Poro.  Quelle che soffre
il resto della terra. E qual ragione
a’ regni dell’aurora
guida Alessandro a disturbar la pace?
Sono i figli di Giove
inumani cosí? Per far contrasto
alla tua strana aviditá d’impero,
dunque ti oppone invano
l’Asia le sue ricchezze; invan feconda
è l’Africa di mostri; a noi non giova
l’essere ignoti. Hai tributario ormai
il mondo in ogni loco,
e tutto il mondo alla tua sete è poco.
Alessandro. T’inganni, Asbite. In ogni clima ignoto
se pugnando m’aggiro, i regni altrui
usurpar non pretendo. Io cerco solo,

per compire i miei fasti,
un’emula virtú che mi contrasti.
Poro. Forse in Poro l’avrai.
Alessandro.  Qual è di Poro
l’indole, il genio?
Poro.  È degno
d’un guerriero e d’un re.
Alessandro.  Quai sensi in lui
destan le mie vittorie?
Poro. Invidia e non timor.
Alessandro.  La sua sventura
ancor non l’avvilisce?
Poro.  Anzi l’irríta:
e forse adesso a’ patrii numi ei giura
d’involar quegli allori alle tue chiome
colá su l’are istesse,
che il timor de’ mortali offre al tuo nome.
Alessandro. In India eroe sí grande
è germoglio straniero. Errò natura
nel produrlo all’Idaspe. In greca cuna
d’esser nato costui degno saria.
Poro. Credi dunque che sia
il ciel di Macedonia
sol fecondo d’eroi? Qui pur s’intende
di gloria il nome, e la virtú s’onora:
ha gli Alessandri suoi l’Idaspe ancora.
Alessandro. Oh coraggio sublime!
Oh illustre fedeltá! Poro felice
per sudditi sí grandi! Al tuo signore
libero torna, e digli
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro. Generoso però. Libero il passo
si lasci al prigionier. Ma il fianco illustre
abbia il suo peso, e non rimanga inerme.
 (si cava la spada per darla a Poro)
Prendi questa, ch’io cingo,
ricca di Dario e preziosa spoglia,
e, lei trattando, il donator rammenta.
Vanne, e sappi frattanto,
per gloria tua, ch’altro invidiar finora

non seppe il mio pensiero
che Asbite a Poro e ad Achille Omero.
Poro. (prende la spada di Alessandro, al quale una comparsa ne presenta subito un’altra)
Il dono accetto, e ti diran fra poco
mille e mille ferite,
qual uso a’ danni tuoi ne faccia Asbite.
          Vedrai con tuo periglio, ecc.

SCENA III

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro.  Indegni! Il ciglio
rasciuga, o principessa. Il tuo destino
non è degno di pianto. Altri nemici
trarrian da tua bellezza
la ragion d’oltraggiarti; ad Alessandro
persuade rispetto il tuo sembiante, ecc.

SCENA V

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
che rammenta le grandi. Ei di sua mano
del mio gran genitor macchiò col sangue
l’infauste mense; e, se pentito ei pianse,
io n’abborrisco appunto
la tiranna virtú, con cui mi scema
la ragion d’abborrirlo. Eh! l’odio mio, ecc.

SCENA VI

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Poro.  Per Alessandro alfine
si dichiarò la sorte. A me non resta
che una vana costanza,
che un inutile ardir.
Cleofide.  Son queste, oh Dio,
le felici novelle?

Poro.  Io non saprei
per te piú liete immaginarne. Il solo
inciampo al vincitor con me si toglie;
onde potrai fra poco
in lui destar gl’intepiditi ardori,
e far che, ossequioso,
del domato Oriente
venga a deporti al piè tutt’i trofei.
Cleofide. Ah! non dirmi cosí, ché ingiusto sei.
Poro. Ingiusto! È forse ignoto
che, quando in su l’Idaspe
spiegò primier le pellegrine insegne,
adorasti Alessandro? e che di lui
seppe la tua beltá farsi tiranna?
Forse l’India nol sa?
Cleofide.  L’India s’inganna.
Io non l’amai: ma, dall’altrui ruine
giá resa accorta, al suo valor m’opposi
con lusinghe innocenti, armi non vane
del sesso mio. Donde sperar difesa
maggior di questa? Era miglior consiglio
forse nell’elmo imprigionar le chiome?
Coll’inesperta mano
trattar l’asta guerriera? Uscendo in campo,
vacillar sotto il peso
d’insolita lorica, e farmi teco
spettacolo di riso al fasto greco?
Torna, torna in te stesso: altro pensiero
chiede la nostra sorte
che quel di gelosia.
Poro.  Qual è? Pretendi
che d’Alessandro al piede
io mi riduca ad implorar pietade?
Vuoi che sia la tua mano
prezzo di pace? Ambasciador mi vuoi
di queste offerte? Ho da condurti a lui?
Ho da soffrir tacendo
di rimirarti ad Alessandro in braccio?
Spiégati pur, ch’io l’eseguisco e taccio.
Cleofide. Né mai termine avranno

le frequenti dubbiezze
del geloso tuo cor? Credimi, o caro:
fidati pur di me, ecc.

SCENA VII

Cleofide. Erissena, che veggo!
Tu nella reggia? (ad Erissena)
Poro.  Io ti credea, germana,
prigioniera nel campo.
Erissena.  Un tradimento
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Cleofide. Che ti disse Alessandro?
Parlò di me?
Poro.  (Che mai richiede!)
Cleofide.  (Assai
può giovarmi il saperlo.)
Poro.  (Alfine è questa
innocente richiesta.)
Erissena.  I detti suoi
ridirti non saprei. So che mi piacque
il suon di sue parole. Io non l’intesi
cosí soave in altro labbro. Oh, quanto
ancor nella favella
son diversi da’ nostri i suoi costumi!
Credo che in ciel cosí parlino i numi.
Poro. (Che importuna!)
Erissena.  Oh, regina,
come dolce in quel volto
fra lo sdegno guerrier sfavilla amore! ecc.

SCENA VIII

Erissena e Poro.

Poro. Erissena, che dici? Ho da fidarmi?
Ho da temer che sia
Cleofide infedel? Tu nel mio caso

le crederesti? Ah! parla,
consigliami, Erissena.
Erissena.  Oh, quanto è folle
chi è geloso in amor! Perché non credi
le sue promesse? Alfine
pegno maggior di questo
bramar non puoi.
Poro.  Ma intanto
va Cleofide al campo, ed io qui resto.
Erissena. Che figuri perciò?
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Erissena.  Ma saran finti
  Oh Dio!
Fingendo s’incomincia. E tu non sai
quanto è breve il sentiero
che dal finto in amor conduce al vero.
Non può amare Alessandro?
Non può cangiar desio?
Erissena. È ver. (Comincio a ingelosirmi anch’io.)
Poro. Ah! non so trattenermi,
soffrir non so. Si vada. In quelle tende
Cleofide mi vegga. A’ nuovi amori
serva di qualche inciampo
l’aspetto mio. (in atto di partire)

SCENA IX [VIII]

Gandarte e detti.

Gandarte.  Dove, mio re?
Poro.  Nel campo.
Gandarte. Ancor tempo non è di porre in uso
disperati consigli. Io non invano
tardai finor. Questo real diadema
Timagene ingannò. Poro mi crede:
mi parlò, lo scopersi
nemico d’Alessandro: assai da lui
noi possiamo sperare.
Poro.  Ah! non è questa
la mia cura maggiore. Al greco duce

Cleofide s’invia:
non deggio rimaner. (in atto di partire)
Gandarte.  Férmati. E vuoi
per vana gelosia
scomporre i gran disegni? Agli occhi altrui
debole comparir? Vedi che sei
a Cleofide ingiusto, a te nemico.
Poro. Tu dici il vero: io lo conosco, amico.
Ma che perciò? Rimprovero a me stesso
ben mille volte il giorno i miei sospetti;
e mille volte il giorno
ne’ miei sospetti a ricadere io torno.
               Se possono tanto
          due luci vezzose,
          son degne di pianto
          le furie gelose
          d’un’alma infelice,
          d’un povero cor.
               S’accenda un momento
          chi sgrida, chi dice
          che vano è il tormento,
          che ingiusto è il timor. (parte)

SCENA X [IX]

Erissena e Gandarte.

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Erissena. Se Alessandro una volta
giungi a veder, gli troverai nel viso
un raggio ancora ignoto
d’insolita beltá.
Gandarte.  Per fama è noto.
Deh! non perdiamo, o cara,
con ragionar di lui, questo momento
che dal ciel n’è permesso.
Erissena. Eh! non è giá l’istesso
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Gandarte.  Ma tanto
parlar di lui tu non dovresti. Io temo,

cara, sia con tua pace,
che Alessandro ti piaccia.
Erissena.  È ver: mi piace.
Gandarte. Ti piace? Oh dèi! Ma il tuo real germano
non sai che la tua mano
giá mi promise?
Erissena.  Il so.
Gandarte.  Non ti sovviene
quante volte, pietosa al mio tormento,
mi promettesti amor?
Erissena.  Sí, mel rammento.
Gandarte. Ed or perché, tiranna,
hai piacer d’ingannarmi?
Erissena.  E chi t’inganna?
Gandarte. Tu, che ad altri gli affetti,
dovuti a me, senza ragion comparti.
Erissena. Dunque, per bene amarti,
tutto il resto del mondo odiar degg’io?
Gandarte. Chi udí caso in amore eguale al mio?
               Erissena. Compagni nell’amore
          se tollerar non sai,
          non puoi trovare un core
          che avvampi mai per te.
               Chi tanta fé richiede,
          si rende altrui molesto:
          questo rigor di fede
          piú di stagion non è. (parte)

SCENA XI [X]

Gandarte solo.

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Per me l’etá del ferro è piú felice.
               Voi, che adorate il vanto
          di semplice beltá,
          non vi fidate tanto
          di chi mentir non sa;
          ché l’innocenza ancora
          sempre non è virtú.

               Mentisca pure e finga
          colei che m’arde il seno;
          ché almeno mi lusinga,
          che non mi toglie almeno
          la libertá d’odiarla,
          quando infedel mi fu. (parte)

SCENA XII [XI]

Alessandro con guardie dietro al padiglione e Timagene.

Alessandro. Non condannarmi, amico,
perché mesto mi vedi. Ha il mio dolore
la sua ragion.
Timagene.  Quando il timor non sia
che manchi terra al tuo valore, ogni altra,
perdonami, è leggiera. E quale impresa
dubbia è per te, che hai tanto mondo oppresso
Alessandro. L’impresa, oh Dio! di soggiogar me stesso.
Timagene. Che intendo!
Alessandro.  Alla tua fede
io svelo, o Timagene, il piú geloso
segreto del mio cor. Nol crederai:
ama Alessandro, e del suo cor trionfa
Cleofide giá vinta. Io non so dirti
se combatte per lei
il genio o la pietá. Senza difesa
so ben che mi trovai
nel momento primier ch’io la mirai.
Timagene. Ella viene.
Alessandro.  Oh cimento!
Timagene.  Eccoti in porto:
Cleofide è tua preda:
puoi domandarle amor.
Alessandro.  Tolgan gli dèi
che vinca amor, che sia
la debolezza mia nota a costei.

SCENA XIII [XII]

Cleofide e detti.

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro. .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Timagene, alle navi
tornino que’ tesori. (Timagene si ritira)
Cleofide.  Il tuo comando
anch’io deggio eseguir; ché a me non lice
miglior sorte sperar de’ doni miei:
piú di quegli importuna io ti sarei. (in atto di partire)
Alessandro. Troppo male, o regina,
interpreti il mio cor. Siedi e ragiona.
Cleofide. Ubbidirò. (siedono)
Alessandro.  (Che amabile sembianza!)
Cleofide. (Mie lusinghe, alla prova!)
Alessandro.  (Alma, costanza!)
Cleofide. In faccia ad Alessandro
mi perdo, mi confondo, e, non so come,
le meditate innanzi
suppliche fra’ miei labbri io non ritrovo;
e nel timor che provo,
or che d’appresso ammiro
la maestá de’ sguardi suoi guerrieri,
scuso il timor de’ soggiogati imperi.
Alessandro. (Detti ingegnosi!)
Cleofide.  A te, signor, non voglio
rimproverar le mie sventure, e dirti
le cittá, le campagne
desolate e distrutte, il sangue, il pianto,
onde gonfio è l’Idaspe. Ah! che da queste
immagini funeste
d’una miseria estrema
fogge il pensiero, inorridisce e trema.
Sol ti dirò ch’io non avrei creduto
che venisse Alessandro
dagli estremi del mondo a’ nostri lidi,
per trionfar con l’armi

d’una femmina imbelle,
che tanto ammira i pregi suoi, che tanto...
Oh Dio! Pur nel mirarti
la prima volta io m’ingannai... Mi parve
placido il tuo sembiante,
pietoso il ciglio, il ragionar cortese.
Spiegai la tua clemenza,
come se fosse... Eh! rammentar non giova
le mie folli speranze, i sogni miei,
ché troppo è manifesto
quale io son, qual tu sei.
Alessandro.  (Che assalto è questo!)
Cleofide. Non domando i miei regni,
non spero il tuo favor: tanto non oso
nello stato infelice in cui mi vedo.
Non chiamarmi nemica: altro non chiedo.
Alessandro. Nell’udirti, o regina,
sí accorta ragionar, vere le accuse
credei talvolta, e meditai le scuse.
Ma il timore ingegnoso,
i tronchi accenti, e le confuse ad arte
rispettose querele, armi bastanti
non son per tua difesa. Io da’ tuoi regni
allontanar non feci
le mie schiere temute e vincitrici
per lasciarti un asilo a’ miei nemici...
Tu di Poro in soccorso,
tu contro me...
Cleofide.  Che ascolto!
Sei tu che parli? E mi sará delitto
l’aver pietá d’un infelice amico?
E tua virtú privata
forse l’usar pietá? Ne usurpo forse
la tua ragion, quando t’imito? Ah! sia
Cleofide infelice,
se questo è fallo. Avrá la gloria almeno
che il gran cor d’Alessandro
seppe imitar. Si perda
regno, sudditi e vita;
non questo pregio: inonorata a Dite

l’ombra mia non andrá, benché in sembianza
di suddita vi giunga.
Alessandro.  (Alma, costanza!)
Cleofide. Tu non mi guardi, e fuggi
rincontro del mio ciglio? Ah! non credea
d’essere agli occhi tuoi
orribile cosí. Signor, perdona
la debolezza mia: questa sventura
giustifica il mio pianto.
L’esserti odiosa tanto...
Alessandro. Ma non è ver. Sappi... T’inganni... Oh Dio!
(M’usci quasi da’ labbri «idolo mio».)

SCENA XIV [XIII]

Timagene e detti.

Timagene. Monarca, il duce Asbite
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro.  Fra poco
avrá l’ingresso.
Timagene.  Impaziente ei brama
teco parlar.
Alessandro.  Ma la regina...
Timagene.  Appunto
innanzi a lei di ragionar desia.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro.  T’è noto il suo pensiero?
Cleofide. Pavento assai, ma non so dirti il vero.

SCENA XV [XIV]

Poro e detti.

Cleofide.  Eh, taci!
(Egli si perde.) Alla mia reggia il passo (ad Alessandro)
volgi qual piú ti piace,
amico o vincitor. Piú dell’Idaspe

non ti contendo il varco. Ivi di Poro
meglio i sensi saprai.
Poro.  (Che pena!) A lei
non fidarti, Alessandro. È quella infida
avvezza ad ingannar: grato a’ tuoi doni,
io ti deggio avvertir.
Cleofide.  (Che soffro!)
Alessandro.  Asbite,
sei troppo audace.
Poro.  Io n’ho ragion: conosco
Cleofide e il mio re. Da lei tradito
fu il misero in amor.
Cleofide.  (D’ingelosirsi
abbia ragion per suo castigo.) Ascolta.
Forse amante di Poro (a Poro)
Cleofide saria; ma tante volte
lo ritrovò spergiuro,
che giunge ad abborrirlo. Or non è tempo
di finger piú. Per Alessandro solo
intesi amor, da che lo vidi. Io scopro
sol per colpa d’Asbite (ad Alessandro)
un affetto, signor, con tanta pena
finor taciuto.
Poro.  (Oh infedeltá!)
Alessandro.  (Che ascolto!)
Cleofide. Ah! se il ciel mi destina
l’acquisto del tuo cor...
Alessandro.  Basta, o regina. (s’alza)
Godi pur la tua pace, i regni tuoi;
chiedimi qual mi vuoi,
amico e difensore,
tutto otterrai: non domandarmi il core.
Questo, d’allor ch’io nacqui,
alla gloria donai. Lodo ed ammiro,
ma però non adoro il tuo sembiante.
Son guerrier su l’Idaspe, e non amante.
               Se amore a questo petto
          non fosse ignoto affetto,
          per te m’accenderei,
          lo proverei per te.

               Ma, se quest’alma avvezza
          non è a sí dolce ardore,
          colpa di tua bellezza,
          colpa non è d’amore,
          e colpa mia non è. (parte)

[segue la scena XVI perfettamente conforme alla XV della redazione definitiva.]

ATTO SECONDO

SCENA III

Poro. (Poro, ove corri? E tanto
debole adunque hai da mostrarti a lei?) (fra sé)
Erissena. Germano, anch’io vorrei,
purché a te non dispiaccia, esser nel campo,
d’Alessandro all’arrivo.
Poro.  Anzi tu déi
nella reggia restar. Parti.
Erissena.  E non posso
di sí gran pompa essere a parte? Ogni altro
presente vi sará. Solo Erissena
dell’incontro festivo
non ottiene il piacer.
Poro.  Ma questo incontro
sará di quel che credi,
men piacevole assai. Lasciami solo.
A una real donzella
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Erissena. Misera servitú del nostro sesso!
          Non sarei sí sventurata,
     se, nascendo infra le schiere
     delle amazzoni guerriere,
     apprendevo a guerreggiar.

     Avrei forse il crine incolto,
     fiero il ciglio e rozzo il volto,
     ma saprei farmi temere,
     non sapendo innamorar. (parte)

SCENA VI

Poro esce dalla parte sinistra della scena senza spada, seguito da Cleofide.

Cleofide. Mio ben. (trattenendolo)
Poro.  Lasciami. (si stacca da Cleofide)
Cleofide.  Oh Dio!
Sentimi: dove fuggi?
Poro.  Io fuggo, ingrata,
l’aspetto di mia sorte. Io fuggo l’ire
dell’inferno e del ciel, congiunti insieme
contro un monarca oppresso.
Da te fuggo, infedele, e da me stesso.
Cleofide. Lascia almen ch’io ti siegua.
Poro.  Io mi vedrei
sempre d’intorno il mio maggior tormento.
Cleofide. Dunque m’uccidi.
Poro.  A’ fortunati Elisi
tu giungeresti a disturbar la pace.
Io non invidio tanto
il riposo agli estinti.
Cleofide.  Ah! per quei primi
fortunati momenti in cui ti piacqui,
per l’infelice e vero,
non creduto amor mio, dolce mia vita,
non lasciarmi cosí.
Poro.  Ti lascio alfine
coll’amato Alessandro.
Cleofide.  E ancor non vedi,
che, per punir l’eccesso
della tua gelosia, finsi incostanza?
Poro. Ti conosco abbastanza.
Cleofide. (s’inginocchia)   Ecco a’ tuoi piedi

un’amante regina,
supplice, sconsolata, e di frequenti
lagrime sventurate aspersa il volto.
Poro. (Mi giunge a indebolir, se piú l’ascolto.)
 (in atto di partire)
Cleofide. Ingrato, non partir. Guardami. Io t’offro
spettacolo gradito agli occhi tuoi. (s’alza)
Voi, dell’Idaspe, voi,
onde, di quel crudel meno insensate,
meco le mie sventure al mar portate.
 (va per gittarsi nel fiume)
Poro. Cleofide! che fai? Férmati, oh dèi! (corre per arrestarla)
Cleofide. Che vuoi? Perché m’arresti,
adorato tiranno? È di mia sorte
la pietá che ti muove? O ti compiaci
di vedermi ogn’istante
mille volte morir?
Poro.  (Numi, che pena!)
Cleofide. Parla.
Poro.  Deh! se tu m’ami,
non dar prove sí grandi
della tua fedeltá. Fingi incostanza,
del geloso mio cor le furie irríta.
Il perderti è tormento;
ma il perderti fedele è tal martíre,
è pena tal, che non si può soffrire.
Cleofide. Io vi perdono, o stelle,
tutto il vostro rigor. Compensa assai
la sua pietade i miei sofferti affanni.
Poro. E questo, astri tiranni,
il talamo sperato? È questo il frutto
di tanto amor? Felicitá sognate!
Inutili speranze!
Cleofide.  Ancor, mio bene,
noi siamo in libertá. Posso a dispetto
dell’ingiusto destin darti una prova
maggior d’ogni altra. In sacro nodo uniti
oggi l’India ci vegga; e questo il punto
de’ tuoi dubbi gelosi ultimo sia.
Porgimi la tua destra, ecco la mia.

Poro. Ah! qual tempo, qual luogo,
quali auspici funesti
per invitarmi a tanto ben scegliesti!
E celebrar dovrassi
un real imeneo fra le ruine,
fra le stragi, fra l’armi, in riva a un fiume,
senz’ara, senza tempio e senza nume?
Cleofide. Alle azioni de’ regi
sempre assistono i numi; ara che basta
è un cor divoto; e in questo clima o altrove
ogni parte del mondo è tempio a Giove.
Prendi della mia fede,
prendi il pegno piú grande.
Poro.  In tal momento
la mia sorte infelice io non rammento.
          a due. Sommi dèi, se giusti siete,
     proteggete — il bel desio
     d’un amor cosí pudico;
     proteggete...
Cleofide.  Ah! ben mio, giunge il nemico.
Poro. Vieni. Quest’altra via
involarci potrá... Ma quindi ancora
giunge stuol numeroso. Agl’infelici
son pur brevi i contenti!
Cleofide.  Io non saprei,
figurarmi uno scampo: a tergo il fiume,
Alessandro ci arresta
in quella parte, e Timagene in questa.
Eccoci prigionieri.
Poro.  Oh dèi! Vedrassi
la consorte di Poro
preda de’ greci? Agli impudici sguardi
misero oggetto? Alle insolenti squadre
scherno servil? Chi sa qual nuovo amore,
qual talamo novello... Ah! ch’io mi sento
dall’insano furor di gelosia
tutta l’alma avvampar.
Cleofide.  Sposo, un momento
ci resta ancor di libertá. Risolvi:
un consiglio, un aiuto.

Poro.  Eccolo: è questo,
 (impugna uno stile)
barbaro sí, ma necessario e degno
del tuo core e del mio. Mori, e m’attenda
l’ombra tua degli Elisi in su la soglia
senza il rossor della macchiata spoglia.
Cleofide. Come!
Poro.  Sí, mori! (vuol ferirla e si ferma) Oh Dio!
Qual gelo! Qual timor! Vacilla il piede,
palpita il core, e fugge
dall’uffizio crudel la man pietosa.
Ah Cleofide, ah sposa,
ah dell’anima mia parte piú cara,
qual momento è mai questo! E chi potrebbe
non avvilirsi e trattenere il pianto?
Cara, la mia virtú non giunge a tanto.
Cleofide. Oh tenerezze! Oh pene!
Poro. (guardando dentro la scena) Ecco i nemici.
Perdona i miei furori,
adorato ben mio, perdona e mori. (in atto di ferirla)

SCENA VII

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro. (a Poro)   E donde
tanto ardimento e tanta
temeritá?
Poro.  Dal mio valor, dal mio
carattere sublime.
Cleofide.  (Oh Dio, si scopre!)
Poro. Io sono...
Cleofide. (va nel mezzo) Egli è di Poro
fedele esecutor. Di Poro è il cenno
la morte mia.
Alessandro.  Ma non doveva Asbite
eseguir tal comando.
Poro.  Or piú non sono
quell’Asbite che credi.

Cleofide. (ad Alessandro)   Egli sostiene
le veci del suo re, perciò si scorda
d’essere Asbite. (a Poro) Eh! rammentar dovresti
che suddito nascesti, e che non basta
un comando real, perché in obblio
tu ponga il grado tuo. (Taci, ben mio.), ecc.

SCENA VIII

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro. .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
custodito rimanga e prigioniero.
Poro. Io prigionier!
Cleofide.  Deh! lascia
Asbite in libertá. Sua colpa alfine
è l’esser fido a Poro. Un tal delitto
non merita il tuo sdegno.
Alessandro. Di sí bella pietá si rese indegno.
          D’un barbaro scortese
     non rammentar l’offese
     è un pregio che innamora
     piú che la tua beltá.
          Da lei, crudel, da lei, (a Poro)
     che ingiustamente offendi,
     quella pietade apprendi,
     che l’alma tua non ha. (parte)

SCENA X

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Timagene. .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
che doveva al passaggio esser primiera.
Poro. Chi può di te fidarsi?
Timagene.  Io mille prove
ti darò d’amistá. Va’: la mia cura
prigionier non t’arresta.
Libero sei: la prima prova è questa.

Poro. Ma come ad Alessandro
discolperai...
Timagene.  Questo è mio peso. A lui
una fuga, una morte
finger saprò. Frattanto
sollecito e nascosto
tu ricerca di Poro, e reca a lui (cava un foglio)
questo mio foglio. Un messaggier piú fido
non so trovar di te. Digli che in questo
vedrá le mie discolpe,
vedrá le sue speranze. (gii dá il foglio)
Poro.  Amico, addio.
Da’ legami disciolto,
l’impeto giá de’ miei furori ascolto, ecc.

SCENA XI

Timagene solo.

D’Alessandro in difesa
sempre cosí non veglieranno i numi.
Un’insidia felice
spero fra tante, onde mi sia permesso
sollevar dal suo giogo il mondo oppresso.
               È ver che all’amo intorno
          l’abitator dell’onda
          scherzando va talor,
          e fugge e fa ritorno,
          e lascia in su la sponda
          deluso il pescator:
               ma giunge quel momento
          che nel fuggir s’intrica;
          e, della sua fatica
          il pescator contento,
          si riconsola allor. (parte)

SCENA XII [XI]

Appartamenti nella reggia di Cleofide.

Cleofide e Gandarte.

Gandarte. E tentò di svenarti? E a questo eccesso
del geloso mio re giunse il furore?
Cleofide. Fu trasporto d’amor.
Gandarte.  Barbaro amore!
Cleofide. Ma, giacché il ciel pietoso
dall’onde ti salvò, perché qui vieni
nuovi perigli ad incontrar? Tu vedi
quali armi, quai custodi
circondan questa reggia.
Gandarte.  E in altra parte
neghittoso restar dovrá Gandarte?
Cleofide. E se intanto Alessandro
aggrava anche il tuo piè de’ lacci suoi, ecc.

SCENA XIII [XII]

Alessandro e detti.

Alessandro. .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
e minacciando il sangue tuo richiede.
Cleofide. Abbialo pur. Dell’innocenza oppressa
né l’esempio primiero,
né l’ultimo sarò. Vittima io vado
volontaria ad offrirmi. (in atto di partire)
Alessandro.  Ah! no, t’arresta.
Non soffrirò che sia
oppressa in faccia mia
Cleofide cosí. Mi resta ancora
una via di salvarti. In te rispetti
ogni schiera orgogliosa
una parte di me: sarai mia sposa.

Cleofide. Io sposa d’Alessandro?
Che ascolto mai!
Alessandro.  Di questa, agli occhi altrui
forse dubbia, pietá la gloria mia
si risente gelosa; e basta appena,
regina, il tuo periglio,
perché ceda il mio core a tal consiglio.
Cleofide. (Che dirò?)
Alessandro.  Non rispondi?
Cleofide.  È grande il dono;
ma il mio destin..., la tua grandezza... Ah! cerca
un riparo migliore.
Alessandro.  E qual riparo,
quando il campo ribelle
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro. (E fia ver che mi vinca
un barbaro in virtú?)
Gandarte.  Che fai? Che pensi?
Per disciogliere Asbite,
per la vita di lei, bastar ti deve
ch’offra un monarca alle ferite il petto.
Alessandro. No, Poro, queste offerte io non accetto.
Voglio...
Gandarte.  Vuoi tutti estinti, e ti compiaci
che manchi ogni nemico...
Alessandro.  Ascolta, e taci.
Teco libero Asbite
ritorni, o Poro, e quell’istessa via,
che fra noi ti condusse,
allo sdegno de’ greci anche t’involi.
Gandarte. Ma qui frattanto, infra i perigli avvolta,
Cleofide dovrá...
Alessandro.  Ma tutto ascolta.
Cleofide è mia preda, ecc.

SCENA XIV [XIII]

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Gandarte. Di vassallo e d’amico
ho compíto il dover. Pensiamo intanto

quale asilo alla fuga
sará miglior: de’ Gandariti il regno,
o la reggia de’ Prasi. A te congiunti
d’interesse e di sangue ambo i regnanti,
contenderanno a gara
la gloria di salvarti, infin che passi
questo nembo di guerra
in altro clima a desolar la terra.
Cleofide. L’arbitrio della scelta
rimanga a Poro. E ancor non viene! Oh, quanto
l’attenderlo è penoso! Eccolo, io sento...
Ma no, giunge Erissena.
Gandarte.  Oh, come asperso
ha di lagrime il volto!
Cleofide. (ad Erissena, che sopraggiunge) Eh! non è tempo
di pianto, o principessa. È stanco alfine
di tormentarne il ciel. Con noi respira;
consòlati con noi. Libero è il varco
al nostro scampo, e libera mi rende
al mio sposo Alessandro. Andremo altrove
a respirar con Poro aure felici, ecc.

ATTO TERZO

SCENA I

Portici dei giardini reali.

Poro, poi Erissena.

Poro. Erissena!
Erissena.  Che miro!
Poro, tu vivi? E quale amico nume
fuor del rapido fiume
salvo ti trasse?
Poro.  Io non t’intendo. E quando
fra l’onde io mi trovai?

Erissena.  Ma tu pur sei
il finto Asbite.
Poro.  E per Asbite solo
mi conosce Alessandro,
son noto a Timagene.
Erissena.  E ben, da questo
si pubblicò che disperato Asbite
nell’Idaspe morí.
Poro.  Fola ingegnosa,
che, d’Alessandro ad evitar lo sdegno,
Timagene inventò.
Erissena.  Lascia ch’io vada
di sí lieta novella
a Cleofide...
Poro.  Ascolta. Infin ch’io giunga
un disegno a compir, giova che ognuno
mi creda estinto, e, piú che ad altri, a lei
convien celare il ver. Per troppo affetto
scoprir mi può; ché van di rado insieme
l’accortezza e l’amore. A maggior uopo
opportuna mi sei. Senti: ritrova
l’amico Timagene. A lui dirai
che del real giardino
nell’ombroso recinto, ove ristagna
l’onda del maggior fonte, ascoso attendo
Alessandro con lui. Lá del suo foglio
può valermi l’offerta. Io di svenarlo,
ei di condurlo abbia la cura.
Erissena.  Oh Dio!
Poro. Tu impallidisci! E di che temi? Hai forse
pietá per Alessandro? E preferisci
la sua vita alla mia?
Erissena.  No. Ma pavento...
Chi sa... Può Timagene
non credermi, tradirci...
Poro. (cava un foglio)   Eccoti un pegno,
per cui ti creda, anzi ti tema. È questo
vergato di sua mano un foglio, in cui
mi stimola all’insidia; e farlo reo
può col suo re, quando c’inganni. Ardisci:

mòstrati mia germana,
e mostra che ti diede in vario sesso
un istesso coraggio un sangue istesso. (le dá il foglio)
               Risveglia lo sdegno,
          rammenta l’offesa,
          e pensa a qual segno
          mi fido di te.
               Nell’aspra contesa
          di tante vicende
          da te sol dipende
          l’onor dell’impresa,
          la pace d’un regno,
          la vita d’un re. (parte)

SCENA II

Erissena, poi Cleofide.

Erissena. Sí funesto comando
amareggia il piacer ch’io proverei
per la vita di Poro. Oh Dio! se penso
che trafitto per me cade Alessandro,
palpito e tremo.
Cleofide.  Immagini dolenti,
deh! per pochi momenti
partite dal pensier.
Erissena.  Regina, ormai
rasciuga i lumi. Il consolarsi alfine
è virtú necessaria alle regine.
Cleofide. Quando si perde tanto,
necessitá, non debolezza è il pianto.
Erissena. (Lagrime intempestive!
Mi fa pietá: le vorrei dir che vive.)

SCENA III

Alessandro e dette.

Alessandro. Regina, è dunque vero
che non partisti! A che mi chiami? E come
senza Poro qui sei?

Cleofide.  Mi lasciò, lo perdei.
Alessandro. Dovevi almeno
fuggir, salvarti.
Cleofide.  Ove? Con chi? Mi veggo
da tutti abbandonata, e non mi resta
altra speme che in te.
Alessandro.  Ma in questo loco,
Cleofide, ti perdi. È di mie schiere
troppo contro di te grande il furore.
Cleofide. Sí, ma piú grande è d’Alessandro il core.
Alessandro. Che far poss’io?
Cleofide.  Della tua destra il dono
de’ greci placherá l’ira funesta.
Tu me la offristi, il sai.
Erissena.  (Sogno, o son desta?)
Alessandro. (Oh sorpresa! Oh dubbiezza!)
Cleofide.  A che pensoso
tacer cosí? Non ti rammenti forse
la tua pietosa offerta, o sei pentito
di tua pietá? Questa sventura sola
mi mancheria fra tante. Io qui rimango
certa del tuo soccorso.
Son vicina a perir, tu puoi salvarmi;
e la risposta ancora
su’ labbri tuoi, misera me! sospendi?
Alessandro. Vanne, al tempio verrò. Sposo m’attendi. (parte)

SCENA IV [I]

Cleofide ed Erissena.

Erissena. Cleofide, sí presto io non sperai
le lagrime sul ciglio
vederti inaridir: ma n’hai ragione.
Allor che acquisti tanto,
non è per te piú necessario il pianto.
Cleofide. «Il consolarsi alfine
è virtú necessaria alle regine».

Erissena. Quando costa sí poco
l’uso della virtude, a chi non piace?
Cleofide. Forse il tuo cor non ne saria capace.
Erissena. Incapace lo credi, e pur distingue
la debolezza tua.
Cleofide.  Vorrei vederti
piú cauta in giudicare. Il tempo, il luogo
cangia aspetto alle cose. Un’opra istessa
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
          e pur cosí non è.
               Se troppo al ciglio crede
          fanciullo al fonte appresso,
          scherza con l’ombra, e vede
          moltiplicar se stesso;
          e semplice deride
          l’immagine di sé. (parte)

SCENA V [II - III]

Erissena, poi Alessandro con due guardie.

Erissena. Chi non avria creduto
verace il suo dolore? Or va’, ti fida
di chi mostrò sí grande affanno. E noi
ci lagneremo poi,
se non credon gli amanti
alle nostre querele, a’ nostri pianti?
Ma ritorna Alessandro. Oh, come in volto
sembra sdegnato! Io tremo
che non gli sia palese
quanto contien di Timagene il foglio.
Alessandro. Oh temerario orgoglio!
Oh infedeltá! Mai non avrei potuto
figurarmi, Erissena,
tanta perfidia.
Erissena.  (Ah, di noi parla!) E quale,
signore, è la cagion di tanto sdegno?
Alessandro. L’odio, l’ardire indegno
di chi dovrebbe a’ benefizi miei
esser piú grato.

Erissena.  (Ah! che dirò?) Potresti
forse ingannarti.
Alessandro.  Eh! non m’inganno. Io stesso
vidi, ascoltai, scopersi
il pensier contumace;
e chi lo meditò, né pur lo tace.
Erissena. Alessandro, pietá! Son colpe alfine...
Alessandro. Son colpe, che impunite
moltiplicano i rei. Voglio che provi
la vendetta, il gastigo ogni alma infida.
Olá! qui Timagene. (partono le guardie)
Erissena.  Ei sol di tutto
è la prima cagione.
Alessandro.  Anzi avvertito
da Timagene io fui.
Erissena.  Che indegno! Accusa
gli altri del suo delitto. E Poro ed io,
signor, siamo innocenti. In questo foglio
vedi l’autor del tradimento. (gli dá il foglio)
Alessandro.  E quando
io mi dolsi di voi? Che foglio è questo?
Di qual frode si parla?
Erissena.  A me la chiede
chi a me finor la rinfacciò?
Alessandro.  Parlai
sempre de’ greci, il cui ribelle ardire
si oppone alle mie nozze.
Erissena.  E non dicesti
che a te giá Timagene
tutto avvertí?
Alessandro.  Di questo ardire intesi,
non d’altra insidia.
Erissena. (Oh inganno!
Il timor mi tradí.)
Alessandro. (legge)   «Poro, se invano
su l’Idaspe Alessandro
d’opprimer si tentò, colpa non ebbi.
Tutto il messo dirá. Ma tu frattanto
non avvilirti; a me ti fida, e credi
che alla vendetta avrai

quell’aita da me, che piú vorrai.
Timagene». Infedel! Sí, di sua mano
caratteri son questi.
Erissena. (Che feci mai!)
Alessandro.  Ma donde il foglio avesti?
Erissena. Da un tuo guerrier, che, invano
ricercando di Poro, a me lo diede.
(Celo il germano.)
Alessandro.  A chi darò piú fede?
Parti, Erissena.
Erissena.  Ah! tu mi scacci. Io vedo
che dubiti di me. Se tu sapessi
con quanto orrore io ricevei quel foglio,
mi saresti piú grato.
Alessandro.  Assai tardasti
però nell’avvertirmi.
Erissena.  Irresoluta
mi rendeva il timor.
Alessandro.  Lasciami solo
co’ miei pensieri.
Erissena.  Oh sventurata! Io dunque
teco perdei giá di fedele il vanto?
Alessandro. Eh! non dolerti tanto. Un dubbio alfine
sicurezza non è.
Erissena.  Sí, ma quell’alme,
cui nutrisce l’onor, la gloria accende,
il dubbio ancor d’un tradimento offende.
               Come il candore
          d’intatta neve
          è d’un bel core
          la fedeltá:
               un’orma sola,
          che in sé riceve,
          tutta le invola
          la sua beltá. (parte)

SCENA VI [IV]

Alessandro, poi Timagene.

Alessandro. Per qual via non pensata
mi scopre il cielo un traditor! Ma viene
l’infido Timagene. Io non comprendo
come abbia cor di comparirmi innanzi.
Timagene. Mio re, so che poc’anzi
di me chiedesti. Ho prevenuto il cenno:
le ribellanti schiere
ricomposi e sedai. Le regie nozze
puoi lieto celebrar.
Alessandro.  Non è la prima
prova della tua fé. Conosco assai,
Timagene, il tuo cor; né mai mi fosti
necessario cosí, come or mi sei.
Timagene. Chiedi. Che far potrei,
signor, per te? Pugnar di nuovo? Espormi
solo all’ire d’un campo?
Tutto il sangue versar? Morir si deve?
Alla mia fede ogni comando è lieve.
Alessandro. No, no. Solo un consiglio
da te desio. V’è chi m’insidia; è noto
il traditore, e in mio poter si trova;
non ho cor di punirlo,
perché amico mi fu. Ma il perdonargli
altri potrebbe a questi
tradimenti animar. Tu che faresti?
Timagene. Con un supplicio orrendo
lo punirei.
Alessandro.  Ma l’amicizia offendo.
Timagene. Ei primiero l’offese,
e indegno di pietá costui si rese.
Alessandro. (Qual fronte!)
Timagene.  Eh! di clemenza
tempo non è. La cura
lascia a me di punirlo. Il zelo mio
saprá nuovi stromenti

trovar di crudeltá. L’empio m’addita,
palesa il traditor, scoprilo ormai.
Alessandro. Prendi, leggi quel foglio, e lo saprai. (gli dá il foglio)
Timagene. (Stelle! il mio foglio! Ah, son perduto! Asbite
mancò di fé.)
Alessandro.  Tu impallidisci e tremi!
Perché taci cosí? Perché lo sguardo
fissi nel suol? Guardami! parla! E dove
andò quel zelo? È tempo
di porre in opra i tuoi consigli. Inventa
armi di crudeltá. Tu m’insegnasti
che indegno di pietá colui si rese,
che mi tradí, che l’amicizia offese.
Timagene. Ah, signore, al tuo piè... (in atto d’inginocchiarsi)
Alessandro.  Sorgi. Mi basta
per ora il tuo rossor. Ti rassicura
nel mio perdono; e, conservando in mente
del fallo tuo la rimembranza amara,
ad esser fido un’altra volta impara.
Sérbati a grandi imprese, ecc.

SCENA VII [V]

Timagene, indi Poro.

Timagene. Oh perdono! Oh delitto!
Oh rimorso! Oh rossore!
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Timagene. La promessa d’un fallo
non obbliga a compirlo.
Poro.  E pur quel foglio...
Timagene. L’abborro, lo calpesto,
e la mia debolezza in lui detesto. (lacera il foglio)
          Finché rimango in vita, ecc.

SCENA VIII [VI]

Poro, poi Gandarte.

Poro. Ecco spezzato il solo
debolissimo filo a cui s’attenne
finor la mia speranza. A che mi giova
piú questa vita? abbandonato e privo
della sposa e del regno, in odio al cielo,
grave a me stesso, ad ogn’istante esposto
di fortuna a soffrir gli scherni e l’ire?
Ah, finisca una volta il mio martíre.
 (entrando, s’incontra in Gandarte)
Gandarte. Mio re, tu vivi?
Poro.  Amico,
posso della tua fede
assicurarmi ancor?
Gandarte.  Qual colpa mia
tal dubbio meritò?
Poro.  Gandarte, è tempo
di darmene un gran pegno. Il brando stringi:
ferisci questo sen. Da tante morti
libera il tuo sovrano,
e togli quest’uffizio alla sua mano.
Gandarte. Ah! signor...
Poro.  Tu vacilli? Il tuo pallore
timido ti palesa. Ah! fin ad ora
di tal viltá non ti credei capace.
Gandarte. Agghiacciai, lo confesso,
al comando crudel. Ma, giacché vuoi,
il cenno eseguirò. (snuda la spada)
Poro.  Che tardi?
Gandarte.  Oh Dio!
esposto al regio sguardo,
il rispettoso cor palpita e trema.
Ah! se vuoi sí gran prove,
volgi, mio re, volgi il tuo ciglio altrove.

Poro. Ardisci, io non ti miro: il braccio invitto
conservi nel ferir l’usato stile.

(Poro rivolge il volto non mirando Gandarte, e Gandarte allontanatosi da lui, nell’atto di uccider se stesso, dice:)

Gandarte. Guarda, signor, se il tuo Gandarte è vile.

SCENA IX [VI]

Erissena e detti.

Erissena. Férmati. (trattenendolo)
Poro.  Oh ciel, che fai? (rivolgendosi a Gandarte)
Gandarte.  Perché mi togli,
principessa adorata,
la gloria d’una morte,
che può rendere illustri i giorni miei?
Erissena. Qui di morir si parla, e intanto altrove
un placido imeneo
stringe Alessandro all’infedel tua sposa. (a Poro)
Poro. Come!
Gandarte.  E fia ver?
Erissena.  Tutto risuona il tempio
di stromenti festivi. Ardon su l’are
gli arabi odori. A celebrar le nozze
mancan pochi momenti.
Poro.  Udiste mai
piú perfida incostanza? Or chi di voi
torna a rimproverarmi i miei sospetti,
le gelose follie,
il soverchio timor, le furie mie?
Cadrá per questa mano,
cadrá la coppia rea.
Gandarte.  Che dici!
Poro.  Il tempio
è comodo alle insidie; a me fedeli
son di quello i ministri. Andiamo.
Erissena.  Oh Dio!
Gandarte. Ferma! chi sa, forse la téma è vana.

Poro. Ah Gandarte, ah germana,
io mi sento morir! Gelo ed avvampo
d’amor, di gelosia; lagrimo e fremo
di tenerezza e d’ira; ed è sí fiero
di sí barbare smanie il moto alterno,
ch’io mi sento nel cor tutto l’inferno.
               Dov’è? Si affretti
          per me la morte.
          Poveri affetti!
          Barbara sorte!
          Perché tradirmi,
          sposa infedel?
               Lo credo appena:
          l’empia m’inganna!
          Questa è una pena
          troppo tiranna;
          questo è un tormento
          troppo crudel. (parte)

SCENA X [VII]

Erissena e Gandarte.

Erissena. Gandarte, in questo stato
non lasciarlo, se m’ami, ecc.

SCENA XI [VIII]

Erissena sola.

D’inaspettati eventi
qual serie è questa? Oh, come
l’alma mia, non avvezza
a sí strane vicende,
si perde, si confonde e nulla intende!
          Son confusa pastorella,
     che nel bosco a notte oscura
     senza face e senza stella
     infelice si smarrí.

          Ogni moto piú leggiero
     mi spaventa e mi scolora,
     è lontana ancor l’aurora
     e non spero un chiaro dí. (parte)

[manca la scena corrispondente alla nona della redazione definitiva].

SCENA XII [ULTIMA]

Tempio magnifico dedicato a Bacco, con rogo nel mezzo, che poi s’accende.

Alessandro e Cleofide, preceduti dal coro de’ baccanti, che escono danzando. Guardie, popolo e ministri del tempio con faci. Indi Poro in disparte.

.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Cleofide. Nell’odorata pira
si dèstino le fiamme. (i ministri con due faci accendono il rogo)
Alessandro.  È dolce sorte
d’un’alma grande accompagnare insieme
e la gloria e l’amor.
Poro.  (Reggete il colpo,
vindici dèi!)
Alessandro.  Si uniscano, o regina,
ormai le destre, e delle destre il nodo
unisca i nostri cori. (accostandosele, in atto di darle la mano)
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Alessandro. .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
che distrugger saprò.
Cleofide.  Ferma, o mi sveno!
Alessandro. Stelle! che far degg’io?
          Cleofide. Ombra dell’idol mio,
     accogli i miei sospiri,
     se giri intorno a me.

SCENA ULTIMA

Timagene poi Gandarte, indi Erissena e detti.


Timagene.  Qui prigioniero
giunge Poro, mio re.
Cleofide.  Come!
Alessandro.  E fia vero?
Timagene. Sí: nel tempio nascoso
col ferro in pugno io lo trovai. Volea
tentar qualche delitto. Ecco che viene.
 (esce Gandarte, prigioniero fra due guardie)
Cleofide. Dove, dov’è il mio bene? (getta lo stile)
Timagene. Non lo ravvisi piú?
Alessandro.  Vedilo.
Cleofide.  Oh Dio!
M’ingannate, o crudeli, acciò risenta
delle perdite mie tutto il dolore.
Ah! si mora una volta,
s’incontri il fin delle sventure estreme.
 (in atto di volersi gettar sul rogo)
Poro. Anima mia! noi moriremo insieme. (trattenendola)
Cleofide. Numi! Sposo! M’inganno
forse di nuovo? Ah, l’idol mio tu sei!
Poro. Sí, mia vita, son io
il tuo barbaro sposo,
che, inumano e geloso,
ingiustamente offese il tuo candore.
Ah! d’un estremo amore
perdona, o cara, il violento eccesso.
Perdona... (volendosi inginocchiare)
Cleofide.  Ecco il perdono in questo amplesso.
Alessandro. Oh strano ardire!
Poro.  Or delle tue vittorie
fa’ pur uso, Alessandro. Allor ch’io trovo
fido il mio bene, a farmi sventurato
sfido la tua fortuna e gli astri e il fato.

Alessandro. Con troppo orgoglio, o Poro,
parli con me. Sai che non v’è piú scampo,
che sei mio prigionier?
Poro.  Lo so.
Alessandro.  Rammenti
con quanti tradimenti
tentasti la mia morte?
Poro.  A far l’istesso
io tornerei, vivendo.
Alessandro.  E la tua pena?
Poro. E la mia pena attendo.
Alessandro. E ben, sceglila. Io voglio
che prescriva tu stesso a te le leggi.
Pensa alle offese, e la tua sorte eleggi.
Poro. Sia qual tu vuoi, ma sia
sempre degna d’un re la sorte mia.
Alessandro. E tal sará. Chi seppe
serbar l’animo regio in mezzo a tante
ingiurie del destin, degno è del trono:
e regni e sposa e libertá ti dono.
Cleofide. Oh magnanimo!
Gandarte.  Oh grande!
Poro.  E ancor non sei
sazio di trionfar? Giá mi togliesti
dell’armi il primo onore:
basti alla gloria tua; lasciami il core.
Sugli affetti, sull’alme
il tuo poter si stende? Adesso intendo
quel decreto immortal, che ti destina
all’impero del mondo.
Cleofide.  E qual mercede
sará degna di te?
Alessandro.  La vostra fede.
Poro. Vieni, vieni, o germana, (vedendo Erissena)
al nostro vincitore. Ah! tu non sai,
quai doni, qual pietá...
Erissena.  Tutto ascoltai...
Poro. Soffri, o signor, ch’io del fedel Gandarte
colla man d’Erissena
premii il valor.

Alessandro.  Da voi dipende. Intanto
ei, che sí ben sostenne un finto impero,
avrá virtú di regolarne un vero.
Su la feconda parte,
ch’oltre il Gange io domai, regni Gandarte.
Erissena. Oh illustre eroe!
Gandarte.  Dal benefizio oppresso,
io favellar non oso.
Cleofide. Secolo avventuroso,
che dal grande Alessandro il nome avrai!
Poro. Io non saprò giammai
da te partire: esecutor fedele
sarò de’ cenni tuoi. Guidami pure
sugli estremi del mondo. Avranno sempre,
di Libia al sole o della Scizia al ghiaccio,
la sposa il core ed Alessandro il braccio.
Coro.   Serva ad eroe sí grande, ecc.



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