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DI
ANNA COMNENA PORFIROGENITA
CESAREA ALESSIADE
LIBRO PRIMO
GESTE DI ALESSIO PRIMA DI ASCENDERE IL TRONO,
E SUOI MOTIVI PER GUERREGGIARE ROBERTO
DUCA DELLA CALABRIA.
SOMMARIO.
ALESSIADE PRIMA
I. L’IMPERATORE ALESSIO, mio genitore, anche prima di avere lo scettro del principato fu grande ornamento e sostegno del romano impero. Egli, compiuto appena il decimoquarto anno, si dedicò alla militare carriera sotto Romano Diogene, al quale nella faticosissima non meno che malagevole spedizione contro i Persiani si fe’ di pienissimo voler suo compagno ne’ pericoli, appalesandosi a prima giunta infin d’allora di maravigliosa indole per le cose guerresche, assai pronto nell’incontrare ardui cimenti, e tale che al presentarsi l’occasione di battagliare coi barbari ne avrebbe valorosamente colla sua spada fatto grande strage.
II. Se non che inoltratosi già nel cammino la pietà ed il sovrano comando gl’imposero di tornare indietro. La madre addoloravasi pel trapasso del primogenito, Manuele, giovane assai valente, come testè lo hanno con pubblico voto chiarito cose di altissimo rilievo da lui operate. Ora l’imperatore ponendo mente alla materna doglia vietava ad Alessio il procedere più oltre seco, onde non ne venisse aumento al cordoglio dell’afflitta matrona, la quale vedrebbesi al tutto priva di consolazione se mentre delibera ove tumular debba l’uno dei figli vegga l’altro guidato agli incerti esiti delle guerre, ed esposto parimente ad incontrar morte laddove, tale essendo il caso delle remote pugne, pure la notizia del luogo sarebbele pervenuta. Tanto bastò perchè Alessio retrocedesse, abbandonando tuttavia a malincorpo e con ripugnanza la consorteria de’ commilitoni; ma il tempo avvenire aprì ben vasto campo alle sue belliche imprese.
Ill. E che tal sia; asceso il trono Michele Dnca in virtù della rinunzia di Diogene, Alessio fe’ pubblica mostra di sua valentia negli imprendimenti fidatigli contro Urselio. Questi, di gallica schiatta, da prima inscritto nella romana milizia, e fornito in grande misura, da propizia fortuna, di ricchezze e di arroganza, diedesi a guerreggiare per sè stesso con propria e non dispregevole soldatesca tratta fuori in parte dall’originario suolo, in parte da altri luoghi comunque, e mirando niente meno che all’usurpazione del supremo seggio. Ed era acconcio il tempo allo stabilimento d’una tirannide, poichè le romane faccende con declinamento non dubbio volgevano a rovina, sospintevi dal fato colla recente vittoria de’ feroci Turchi, e non altrimenti che il pugillatore cui sdruccioli il piede nell’arena e sia da braccio e da gagliardo urto sospinto, riuscivano appena ad evitare la caduta. In tanto sconvolgimento di cose la sua connaturale ambizione, allettata dal solletico dell’opportunità, proruppe in manifesta audacia di occupare il regno.
IV. Il perchè lo vedevi andare qua e là predando con pronta soldatesca, minacciante ognora, e con ostili scorribande corseggiare, quasi direi, le orientali regioni, da per tutto all’intorno recando violenza e terrore. I condottieri celebri per belliche geste mandatigli contro non fecero colle riportate stragi che aumentarne l’audacia, poichè altri di essi, piombato lor sopra con impreveduta celerità, a foggia d’igneo turbine, erano stati da lui sconfitti, ed altri, rafforzatosi cogli aiuti turchi, vennero con perfetto schieramento assaliti e sbaragliati, rimanendone alcuni prigionieri; imperciocchè le romane legioni non aveano forza bastevole per resistere all’invincibile falange da Urselio stesso comandata. In questo tempo Alessio militava sotto gli ordini del fratello, subordinati essendo gli eserciti delle frontiere, orientale ed occidentale, alla prefettura di mio zio.
V. L’imperatore Michele visto la repubblica precipitosamente rovinare, mettendo il barbaro a soqquadro ogni cosa con fulminea prestezza e devastazione, affidò al padre mio con assoluta autorità il comando dell’esercito, inculcandogli d’opporsi del suo meglio a così desolante sciagura. Alessio, ricevuti i comandamenti e le truppe, si diede con tutta l’energia ed industria d’un animo solerte e d’un coraggioso petto a condurre bene la faccenda, e già rendeva in que’ primi saggj d’un giovane guerriero, le cui gote apparivano coperte appena di recentissima lanuggine, non dubbia simiglianza di que’ tanto famosi nomi romani Emilio e Scipione, e del cartaginese Annibale, studiandosi imitarne la grandissima tolleranza delle fatiche, e la più sollecita antiveggenza così felicemente che fu il solo capace, entro il periodo di pochi giorni, di arrestare quell’Urselio precipitoso fin qui nel rapido corso delle sue vittorie, e dante colla sua spinta il crollo al romano impero, trovandosi in lui maravigliosa perspicacia onde conoscere di colpo ciò che fosse mestieri operare, e somma prontezza nell’eseguirlo.
VI. In qual modo poi Urselio sia addivenuto prigioniero di Alessio molto diffusamente lo espone Cesare nel secondo libro della sua istoria; non di meno pur noi lo riferiremo fin dove la nostra narrazione possa trarne giovamento. Il barbaro Tutac erasi condotto dalle più lontane parti dell’oriente, con forte esercito e bramoso di bottino, ad assalire i romani confini allorquando Alessio, e colla propria industria e col valore delle genti poste a’ suoi ordini, pigliato a combattere Urselio, quantunque fornito copiosamente di animose e ben armate schiere, andavalo a poco a poco riducendo a mal fine, ed occupatine l’un dopo l’altro i luoghi muniti non lasciavagli quasi più mezzo di farsi indietro. L’usurpatore, posta mente alla triste sua condizione e privo affatto di consiglio, s’appresenta alla per fine a Tutac, ed inescatolo ad amicarsi seco procura indurlo ad una comunanza di bellici piani e di truppe onde proseguire in società la guerra. A tale notizia il duce romano tosto risolvè d’impedire ad ogni guisa il compimento dell’udita confederazione, al quale uopo cerca subito di preoccupare l’animo di Tutac non risparmiando parole, doni, altri mezzi ed artifizj comunque idonei a cattivarselo. Nè v’ha chi porgli a confronto per rispetto alla sorprendente sua bravura nell’escogitare e connettere simiglianti artifizj; nè tampoco aveanvi cose della più grande malagevolezza che quella mente cotanto sagace e di provvedimenti feconda non conducessele a buon fine. Pruova di questo suo elevato ingegno l’abbiamo nelle seguenti parole da lui adoperate ad allettare e blandire il barbaro Tutac.
VII. “Il tuo sultano ed il mio imperatore hanno vincoli d’amicizia infra loro; questo barbaro Urselio poi agisce violentemente e guerreggia contro l’uno e l’altro, da solo in pari guisa ad entrambi nemico. Non volere adunque, credimi, attribuire a favore o riguardi verso di voi il mirare che mentre ora gettasi armata mano sopra di noi, spogliandoci a poco a poco e conculcando il romano suolo, non molesti ad uno la Persia; egli sì opera conoscendosi insufficiente colle attuali sue forze a combattervi, ne va pertanto col temporeggiare e cogli inganni raccogliendo; ma lascia che siesi rafforzato, potendo, col debellarmi, ed in allora, franco da ogni timore de’ Romani, lo avrai tosto nemico audacissimo contro. Nè io pretendo che tu concorra meco a togliere di mezzo un comune danno mediante l’unica mercede riposta nella pubblica utilità. Domanda pure danaro quanto ne vuoi, e questo sarà un altro tuo guiderdone se imprigionato Urselio a noi lo consegnerai. Ora ben vedi se tu debba stare in forse nell’aderire a tale consiglio, dal quale saranno per derivarti tre beni superiori ad ogni altro che tu bramar possa. Conciossiachè ne avrai in primo luogo danaro quanto non giunse mai a guadagnarne alcun di voi; ti procaccerai in grado eminentissimo l’imperiale benevolenza, coll’aiuto della quale ti si appianerà in seguito la via ad una prosperità somma; farai da ultimo grandissimo piacere allo stesso sultano, col rimirarsi, la tua mercè, libero da Urselio, uomo di ambigua fede, già di sospetta potenza, e testè nemico, il quale da lungo tempo e non senza vicendevole pericolo tiene in iscompiglio e Turchi e Romani.”
VIII. Persuaso Tutac unitameute ai barbari seguaci di lui si compiè questa faccenda, per via di messaggi, dal padre mio duce del romano esercito col dare ostaggi scelti fra le più illustri famiglie a guarentigia del convenuto danaro e relativo pagamento. Dopo di che Urselio viene subitamente arrestato e condotto ad Alessio in Amasea, a norma del fatto accordo; ma da poi lo sborso della somma promessa patì indugio, mancando il duce di mezzi per adempierlo, e l’imperatore non curandosene punto; il danaro adunque non solo procedeva con tardo piede (come dice la tragedia), ma del tutto non veniva innanzi. Laonde Tutac co’ suoi pigliò ad instare perchè o si numerasse l’oro convenuto, o fosse restituito il prigioniero, andatane la compera a vuoto, rimandandolo nel luogo di sua partenza. Alessio, il quale neppure spogliatosi di tutto avrebbe potuto soddisfare del proprio il convenuto prezzo della cattiva merce, passata l’intera notte in affannosi pensieri, deliberò alla fine di chiedere in prestanza agli Amaseni e con pronta colletta l’occorrente danaro. Il di che scomparse le tenebre, egli, sebbene comprendesse la molta difficoltà di quanto era per trattare, chiamò a consiglio tutti que’ cittadini, ed in ispecie i più ragguardevoli per opulenza ed autorità, e volgendo particolarmente ad essi la parola cominciò a dire:
IX. “Affè di Dio che a voi sono manifesti i procedimenti d’Urselio contro tutte le città degli armeni confini; rammentatevi or dunque il numero di quelle da lui guastate, dei cittadini multati ingiustamente, dei liberi corpi fatti bersaglio d’intollerabili pene, dell’oro da voi strappato. Ecco non di meno appresentarsi l’occasione di liberarvi in un sol giorno, se volete, da tutti i prefati mali gravissimi, e da quanti ve ne sovrastano per opera di così molesto nemico; ed è se procaccerete oggi d’impedire che noi siamo costretti a rimandare libero questo barbaro, che mercè l’aiuto certamente divino ed il vostro favore qui custodiamo prigioniero. Tutac, dal quale venne arrestato ed a noi venduto, ci chiede il pattuito prezzo della sua industria e preda; ma noi lontani dal proprio paese, ed avendo col diuturno guerreggiare contro de’ barbari consumato quanto al partirci dai nostri possedevamo, da senno che ora non siamo in istato di seco lui sdebitarci. E piacesse al Cielo che questi volesse almeno accordare un idoneo respiro, poichè mi recherei di colta presso all’imperatore, e mi farei indietro, avutone il tempo, coll’urgente somma. Ora da tale esposizione dovete a bastanza chiaramente comprendere che, nulla di ciò essendo in mia facoltà, l’unico mezzo di trarmi d’impaccio consiste nel voler essere voi condiscendenti a metter fuori il danaro, certi di riaverlo tra poco e con molti ringraziamenti dall’imperatore.”
X. Tale proposta non solo fu accolta con gravissime offese e villanie, ma provocò eziandio a veemente trambusta gli Amaseni, disposti in vero ad una ribellione. Nè infra la plebe mancavano seduttori, scaltri artefici di scombugli, e pronti a vie più irritare gli animi già commossi ed infuriati sopponendo faci più del bisogno alla fervente sedizione. Divolgavansi intorno le costoro voci: doversi salvare e togliere dalle carceri Urselio, sgraziatamente sorpreso dalla forza; così alcuni; altri senza palesare una deliberata opinione agitavansi pur tuttavia e, come la minuta plebe suole in simiglianti casi, con istrepito e jattanza ivano a romore. Alessio vedendo il popolo di questa guisa furente e le cose sue a mal partito non si perdè in niun modo affatto d’animo, e pieno di coraggio, rizzatosi, colla mano impose silenzio; ottenutolo, avvegnachè tardi ed imperfetto, rivoltosi alla plebe disse:
XI. “Stupisco, o Amaseni, che non comprendiate ancora i macchinamenti di cotesti pravi incitatori. Vi darete sempre coll’opera vostra ed a vostra rovina ad uomini pieni d’inganni, e solo intenti a redimere la propria salvezza col vostro sangue? Ascenda pure quest’Urselio il trono, come andate con grida e macchinamenti dichiarando; quale vantaggio ne trarrete voi se non che stragi, accecamenti e mutilazioni? I promotori di cotanto vostro sdegno provvederanno da prima alla salvezza ed alle cose loro cattivandosi il favore del barbaro, ove poi vegganne dubbia la sorte, fattisi prontamente al possesso dell’animo imperiale, verseranno, a fe mia, sopra voi l’odio e le pene della ribellione, e sopra sè stessi la riconoscenza d’una costante fedeltà, e grandissimi guiderdoni, quasi che ai loro meriti unicamente sia dovuta la salvezza della città Amasena, e la non avvenuta irreparabile sua perdita. Eccovi con quale baldanza alcuni malvagi cittadini prendono a giuoco le vostre vite e sostanze, e voi intanto, semplicioni come siete, ne secondate la frode e la malignità coll’aderire ai loro sediziosi impulsi; nè comprendete che poscia eglino stessi con perfide accuse accenderanno l'ira imperiale contro di voi per quelle colpe che a loro persuasione avete commesse. Laonde se mi credete meritevole di qualche fede accommiatateli, e ritiratevi, ognuno, nelle proprie case, ove, ponderate diligentemente le mie osservazioni, di leggieri potrete giudicare se gli autori del ribellamento od il romano duce siavi largo di più salutari consigli.”
XII. Porto orecchio a queste parole gli Amaseni abbandonarono nel foro, non altrimenti che un fragile vasello caduto in terra, il divisamento condotto seco dalle proprie case, e ciascheduno riparò sotto il suo tetto lasciando Alessio libero pel momento da timore, ma sempre in agitazione sull’avvenire. Conciossiachè egli ravvolgea nell’animo suo quanto la volubile plebe sia facile a cangiar d’opinione, presto abbandonando i concepiti progetti, e riprendendoli coll’eguale celerità quando in ispecie abbiane incitamento da seduttori. Cominciò dunque a paventare non i tumultuanti al sopraggiugnere delle tenebre tornati ad'impazzire gli si facessero novamente contro per torre ad Urselio i ceppi e rimetterlo in libertà; ad impedire poi il grave attentato ben sapevasi in difetto di truppe a bastanza coraggiose. Chiamato a sè pertanto, in aiuto dell’impotenza sua, un molto scaltrito Palamedese pensa di fingere l’accecamento del prigione, dandone l’incarico al pubblico giustiziere, onde vengane con evidenza maggiore propalata la fama; al qual uopo armatolo del ferro da cavare gli occhi, fa gittare di forza a terra, porre supino ed incavalcare, quasi a sofferenza del supplizio, Urselio digrignante e gemente non meno d’imprigionato leone, operandosi in simulata guisa il tutto. Laonde quanti udironne le acute ed iocontinenti grida persuasero sè stessi e gli altri che quelle si fossero le dogliose voci di lui, addivenuto fiero al truce e minaccioso aspetto del carnefice, per l’orrore dell'imminente supplizio. Il barbaro poi, quantunque dalla sola tema sopraffatto, agitavasi con forza ed orgasmo tali da provare che la simulazione del gastigo avea oltrepassato i limiti dello spavento e delle minacce. Sparsasi dunque per la città la nuova del reale accecamento d’Urselio, e dileguatasi con essa ogni speranza in lui, tutti e cittadini e forestieri dissimularono ossequio, recando ognuno, a foggia delle api, quel tanto danaro che gli si conveniva. Di questo modo riuscì ad ottimo fine il sagace consiglio del padre mio, togliendo con tali maestrie, simili a sceniche rappresentazioni, le concepite perverse speranze ai vogliosi di novità, i quali, ponendo illimitata fiducia nell’ardire e nella potenza del barbaro, se avessero trovato mezzo, essendo ancor fresca la cosa, di trarlo sano e con vantaggio al partito loro sarebbonsi dati a sperimentare anzi la forza che a sovvenire l’addimandato presto; quetamente in cambio e di leggieri aderirebbero a cosiffatta prestanza, ove si persuadessero che al destinato da essi a duce o capo della rivolta fossersi cavati gli occhi.
XIII. Ora il portentoso condottiero della guerra tenne Urselio in carcere come leone in gabbia, cogli occhi coperti da certo congegno onde la fama dell’accecamento di lui si mantenesse in vigore. Nè fu pago dell’operato, nè addormentossi dopo gli ottenuti prosperi eventi quasi per godere dell’abbondevole riportata gloria, ma, fermo nel pensiero che si dovessero con tutto l’impeto incalzare le abbattute fazioni, recossi contro le molte città e fortezze tuttavia in poter loro, nè depose le armi che dopo avere riconquistato all’impero il toltogli infin dai primi assalimenti del nemico. Riuscite a buon fine tutte queste cose venne condotto nella città regale, ove, mentre concedeva, fra la domestica quiete, alquanto ristoro a sè stesso ed all’esercito dopo le fatiche della malagevole spedizione, gli occorse di fare un miracolo simigliante quello attribuito ad Ercole, il quale d’improviso restituì al re Admeto viva e fiorente la consorte, allorchè egli lagrimavala morta1. Era Doceano, per parte di sorella, nipote d’lsaacio Comneno testè imperatore, cugino di Alessio, ed uomo che per ischiatta e dignità poteano ben pochi agguagliare. Questi, veduto Urselio imbavagliato coi menzogneri segni della sua sciagura e da mano altrui condotto, mandava profondi sospiri, e lamentando l’indegna sorte di quel valoroso non si ristette dal condannare la barbara crudeltà di Alessio, il quale così miseramente avea difformato, anzichè guardare sano, il generosissimo eroe. Ed Alessio a lui: in altra occasione, o amatissimo, ti appaleserò i motivi di tale accecamento. Del resto accompagnatolo da lì a poco in una casipola e quivi tolte dagli occhi d’Urselio le bende e le invoglie, comparvero essi fulgenti di vivida luce e pieni di vigore. Al che Doceano, instancabile nel farne le maraviglie, andava toccando i proprj quasi per isperimentare se quanto vedea fosse una realtà o piuttosto un sogno, ovvero una illusione prodottagli da magici prestigj, o da nuova frode; ma quando finalmente ebbe riconosciuto ad evidenza la umanità di Alessio ne commendò l’artifizio, e, convertita in gaudio l’ammirazione, passò ad abbracciare e baciare più e più volte il cugino; divulgatasene quindi la fama, tutta la comitiva di Michele ed anche lo stesso Augusto n’ebbero pieno contento.
XIV. Alessio di qua viene spedito altra fiata nell’occidente dall’imperatore Niceforo, già in possesso del romano scettro, contro Niceforo Brienio turbatore di tutte quelle provincie, e millantantesi, cinto la fronte del diadema, l’Augusto de’ Romani. Conciossiachè non appena Michele Duca ebbe a discendere dal trono e vestire, in luogo della fascia e della corona, la talare ed arcivescovile epomide2 Botaniate lo ascende, e congiuntosi in matrimonio coll’imperatrice Maria, il che verrà esposto più diffusamente altrove, comincia a prendere le redini dell’impero. Se non che Niceforo Brienio, infin dai tempi dell’imperatore Michele, afforzatosi col ducato di Dirrachio3, prima ancora del regno di Niceforo appalesavasi manifestamente candidato dell’impero e, per dir meglio, non attesane la vacanza erasi dato a sediziosi macchinamenti; nè qui m’è uopo iudicare con accuratezza maggiore la causa ed i motivi di queste mene, avendovi in proposito il diligente commentario del nostro Cesare; impertanto sembrami necessariissimo di esporre brevemente in qual modo e con quale fortuna Brienio inoltratosi da Dirrachio, come dalla sede della guerra, sia riuscito a percorrere ed unire a’ suoi dominj l’intera occidentale regione, ed al postutto venisse a cadere nelle nostre mani; dissi brevemente, poichè rimandiamo a Cesare chiunque ne bramasse più minuta ed ampla notizia. XV. Era questo Niceforo Brienio, di cui favelliamo, il primo nell’arte guerresca, di nobilissimo legnaggio, commendevole per l’elevata sua taglia ed avvenenza del volto, superiore di più ad ogni altro dell’età sua e per ingegno e per vigoria. Principe assolutamente degno dell’impero, la cui sola presenza, eziandio prima di trattarlo o di udirne la favella, si conciliava l’universale affetto, per guisa che tutti e militari e cittadini lo riconoscevano e dichiaravano meritevolissimo non meno dell’occidentale che dell’orientale corona. Il perchè presentatosi alle città veniva accolto a braccia aperte, e con plauso e pompa da ognuna di esse condotto a quelle vicine, pronte egualmente a riceverlo con giubilo. Di tali faccende attristavano tanto più Botaniata in quanto che sapevalo alla testa di grosso e valoroso esercito, e tenevano tutto l’impero in bilico, incerto a chi dei due padroni alla fin fine obbedirebbe. Da ultimo piacque mandargli contro Alessio Comneno, mio genitore, ornato di fresco della dignità di gran Domestico delle Scuole4, fidandogli all’uopo tutta la soldatesca pronta, quantunque ben poca, trovandosi il romano impero a que’ di manchevolissimo di apprestamenti bellici, costretto a tenere gli orientali eserciti qua e là sparsi, e necessariamente alle stanze presso delle frontiere contro i Turchi usurpatori di vastissimo terreno, ed in possesso de’ luoghi muniti in tutte le regioni di mezzo all’Enssino ed Ellesponto, rinserrate dall’una parte dall’Egeo e dall’altra dal siriaco mare, in ispecie poi da que’ seni, i quali, trascorsa la Pamfilia e la Cilicia, congiungonsi coll’egizio mare. Quindi ne avvenne che mentre gli orientali eserciti si occupavano a tenere in freno i Turchi, e gli occidentali eransi uniti a Brienio, il rimanente della romana milizia sommasse ben piccolo numero. Gli altri poi erano tal maniera d’immortali, che ieri o ier l’altro aveano cominciato a maneggiare le aste e le spade. Vi si annoveravano pure di quelli detti Comateni, radi anch’essi, ed alcune compagnie celtiche parimente scarsissime di numero.
XVI. Tali furono le truppe che gli amministratori di Botaniate consegnarono al mio genitore, promettendogli inoltre turcheschi aiuti ch’e’ aveano mandato a prezzolare; e ad un tempo gl’imponevano di subito muover guerra a Brienio, poggiando lor fidanza meno alla forza dell’esercito che non al senno ed alla valentìa del condottiero. Questi, non attesi tampoco gli ausiliarj Turchi, alla nuova che il nemico facevasi innanzi abbandonò insiem coll’esercito, ordinato come potè il meglio, la regale città e, presa la via della Tracia, andò a piantare il campo, senza fossa e vallo, presso del fiume Salso. E siccome avea per udita essere l’esercito di Brienio attendato ne’ campi di Cedotto procurò con idoneo intervallo di rimanerne lunge, per tema non, ponendogli di contro le proprie truppe, il duce venisse in cognizione della pochezza ed imperizia loro, e che le sue numerosissime ed esercitatissime combatterebbero con altre non molte e sore. Egli di più, non giudicando quello il tempo d’imprendere e di venire scopertamente alle mani in campo aperto, opinò doversi per allora contentare di procedere con accorgimento, e così fece. Ora prima di porre in una definitiva battaglia questi due valentissimi condottieri, nè per valore, nè per tattica guerresca l'uno al disotto dell’altro, come narrava il nostro discorso, e prima di favellare dell’ordinanza d’ambo gli eserciti e dei primordj della pugna, sforziamoci di trarre dalla considerazione dei comandanti loro qualche presagio di quanto sarebbe per avvenire. Questi due personaggi erano d’una eroica bellezza e magnanimi; per valore poi ed esperienza di guerra se, quasi direi, posti in bilancia, contrappesavansi, e quale de’ bacini da ultimo, la fortuna premendolo, abbia dato il tratto or ora sarà manifesto. Brienio intrattanto pieno di grandi speranze a sè arrogava la palma, vedendosi alla testa di militi nella cui bravura potea meritamente contare, ed essendo egli stesso peritissimo tanto nell’arte di condurre la guerra, mercè del grande esercizio in essa, quanto in quella di attelare le truppe. Alessio in cambio, nulla potendo ripromettersi da’ suoi, ogni speranza in sè stesso fondava, e solo rimaneagli da opporre agli antedetti vantaggi del competitore un talento accorto, e scaltrito degli stratagemmi ed artifizj della guerra. Ambo di già cominciato aveano ad annasarsi vicendevolmente, ed era giunta l’ora di venire alle armi. Brienio, il primo, sapevole che Alessio con celerità aveagli tagliato la via per inoltrare ostilmente, gli muove contro presso Calaura, informato dagli esploratori essere quivi a campo.
XVII. Diviso egli avea le sue truppe in due corni, il destro de’ quali, sotto gli ordini del fratello Giovanni, componevasi di cinque mila Italiani all’incirca e delle rimanenti truppe di Maniaco. Univansi pure ad esse i cavalieri tessali, ed anche un certo numero di eteri5, gente non imbelle. Tarcaniote Catacalo comandava il sinistro corno, avendo seco tre mila Traci e Macedoni gravemente armati. Brienio stesso occupava il centro dell’ordinanza, circondato da fortissimi cavalieri macedoni e traci, e dal fiore della pretoriana soldatesca. Tutti montavano cavalli tessali, e risplendean da lunge mercè le ferree loriche, le celate e gli ornamenti d’esse; il quale splendore, in ispecie delle celate, addivenuto formidabile e pe’ cimieri cavallini elevati di su l’orecchio destro e pel fragore degli scudi pulsantisi a vicenda, abbagliava i riguardanti. Nel mezzo vedevi Brienio stesso, qual Marte, o qual gigante, i cui omeri sorpassavano per l’altezza d’un cubito il resto della turba, in dubbio se fosse in lui più ammiranda l’avvenenza, o terribile l’aspetto. Di là, due stadj o in quel torno, da tutta la moltitudine de’ combattenti aveanvi alcuni aiuti scitici armati alla foggia barbarica, i quali doveano al comparire del nemico, ed al primo squillar delle sue trombe circondarlo da tergo e lanciottarlo coll’estremo di lor possa, intanto che la falange di contro impetuosamente con armi e forze unite gittavaglisi addosso; Brienio con tale schieramento procedeva alla pugna. XVIII. Il mio genitore poi, Alessio Comneno, osservate da prima alcune valli ed approfittatosi della opportunità loro, fe’ comando che parte delle sue truppe ivi si accovacciassero, ed il resto attelò rimpetto al nemico. Disposti così, a seconda del tempo e luogo, gli uni e gli altri, e privatamente esortatili con faconda loquela a comportarsi da prodi, ordinò a quelli posti negli aguati che non appena il nemico esercito inoltrato si fosse là dove eglino potessero batterlo dagli omeri, andassero con gagliardissimo strepito ed impeto ad assalirne il corno destro. Volle inoltre tenere presso di sè ed al suo comando i nomati immortali e pochi Celti, fidando i Comateni ed i Turchi al duce Catacalone coll’ordine di non perdere di vista gli Sciti, e di ritenere sua particolare incumbenza l’opporsi alle scorribande loro. Messe di tal modo in assetto le cose non appena l’esercito di Brienio ebbe posto il piede laddove erano gli aguati, ecco ad un subitano cenno d’Alessio balzarne fuori i nostri, e parte con mai più immaginata guisa di nocumenti, parte con urto violentissimo e colla morte di quanti appresentavansi loro pervennero da prima a sconvolgerne lo schieramento e quindi a fugarlo. Ora Giovanni Brienio, fratello del condottiero, mettendo opportunamente a pruova tutto il suo grandissimo coraggio, voltato il destriero, gittò a terra ferito uno degli immortali che gli era sopra da tergo, ed arrestata la fuga de’ suoi infuse nuovo spirito nella falange, e messa altra fiata in punto la fe’ marciare contro il vincitore, di modo respingendolo che gli immortali a vicenda incalzati dagli omeri da’ Brieniani diedersi bruttamente a gambe. Il mio genitore intanto, lanciatosi infin da principio nel mezzo de’ barbari, colle sue valorose azioni e coll’abbattere animosamente chiunque gli si parava innanzi, sconvolto avea la parte dell’ordinanza da lui assalita; nè si ristette dall’ardito intraprendimento, confidando mai sempre nella cooperazione del proprio seguito, che quando ebbe a sapere da ultimo la sua falange rotta, sperperata e messa in fuga. A tale annunzio scelti i più intrepidi infra guerrieri ivi presenti, e furono sei di numero, risolve di condurli, impugnate le spade, contro Brienio, e, trovatolo, di assalirlo valorosamente, fermo d’incontrare vittoria, o morte. Se non che da un soldato, di nome Teodoto ed antico suo domestico, fu distolto da cotanto intempestiva arditezza, e porto orecchio al consiglio di questo fido, sano di mente e dalla stessa puerizia sua molto provato iudividuo, abbandonò il pensiero d’un mal accorto cimento, e ritirossi un poco dall’esercito di Brienio, per raccogliere ed a sè chiamare i dispersi e più valenti suoi militi; quindi si pone di nuovo all’impresa. Ma prima ch’e’ desistesse nell’antedetta guisa dal fatto proposito gli Sciti avventatisi contro de’ Comateni sommessi a Catacalone, ed agevolmente spaventatili con molto strepito e con barbariche grida li aveano posti in fuga. Nè paghi di ciò eransi volti al saccheggio, e quando furono ben carichi di preda si fecero indietro negli accampamenti, donde erano venuti, per metterla in luogo sicuro. È desso vizio solenne degli scitici guerrieri, i quali non appena veggono il nemico in fuga, mal ferma tuttavia essendo la vittoria, dannosi a rapirne le spoglie, pervertendo l’avidità loro, come si fu in allora, il buon esito della pugna. Imperciocchè i vivandieri, i bagaglioni e tutto l’altro servidorame dell’esercito per non patire molestie dagli scitici predatori si unirono alla estremità dell’ordinanza de’ Brieniani combattenti, e fu tale e tanto il concorso di quelli introdottisi nella falange per evitare i barbari, che dal mescolamento degli ordini, dalla susseguente confusione de’ bellici segni e dall’addensamento, oltre il dovere, delle file, addossatisi gli uni agli altri, ne derivò grave scombuglio.
XIX. Mio padre, come fu da noi esposto, era già penetrato nello schieramento nemico, e v’andava di tutta possa combattendo allorchè vide, trovandosi per ventura sul fatto, altro de’ palafrenieri di Brienio condurre a mano un destriero coperto di porpora e splendidamente ornato di bardatura e freno d’oro, nè da lunge seguirlo gli armati di quelli spadoni soliti rimanersi ai fianchi dell’imperatore (quale vantavasi Brienio). Ora non appena aocchiatili, copertosi il volto colla visiera dell’elmo, procede con impeto ed in compagnia degli antedetti sei militi ad incontrarli, ed atterato di leggieri il palafreniere s’impadronisce non pur del reale cavallo, ma ben anche delle spade, e colla preda furtivamente s’arretra. Pervenuto quindi in salvo invia a mostrare da per tutto il cavallo bardamentato d’oro e le spade che rimaneansi di continuo presso l’imperiale persona, comandando in pari tempo ad un sonorissimo banditore di annunziare qua e là per l’esercito la morte di Brienio. Tale stratagemma riuscì oltre ogni credere vantaggioso al gran Domestico mio genitore, conciossiachè a quella voce riunironglisi di colta i vaganti disertori, e gl’immobili nello schieramento vennero incorati a tenzonare con perseveranza.
XX. In questa i combattenti cavalieri d’Alessio presentarono un nuovo spettacolo, i quali attoniti per l’annunzio volgendo lor teste, mentre le cervici equine eran di fronte al nemico, rimiravano indietro, tenendosi lungamente e pieni di stupore in tale posizione. Di verità fu cosa inaspettata per essi il vedere quelli Sciti, che testè aveanli soprastanti da tergo, arretrati di molto, ed anzi solleciti della patria, delle famiglie e di tutt’altro che della guerra, starsene lunge da ambo gli eserciti ed intorno al raccolto bottino. Nè recava sorpresa minore il ripercotimento nelle orecchie loro del bando promulgante ucciso e tolto di mezzo Brienio, al quale annunzio dava fede la presenza del destriero condotto in giro colle imperiali insegne, non bastando le sole spade a testimoniare che quegli per la cui guardia eransi apprestate fosse caduto unitamente ad esse in nemiche mani, e da queste morto. Il riferito avvenimento valse altresì alcun poco a propagare il felice successo delle imprese.
XXI. Capitò di poi opportunamente laddove era mio padre una coorte di Turchi ausiliarii, i quali dopo avere da lui udito l’esito dell’antedetta pugna, addimandaronlo ove si stessero i nemici, ed egli menatili su d’un poggio loro accennavali quasi da vedetta. E cotal vista chiaro indicava non andasservi troppo bene le cose, poichè li miravi alla rinfusa e fuor di proposito mescolati insieme (non ricomposta peranche ordinanza, ed in perfetta quiete, come se vittoriosi nella prima tenzone, dispregiatori del nemico e pieni di sè non avessero più che temere. Il quale aspetto rincorò i socj grandemente costernati e per gli altri infortunj sofferti, ed in ispecie pel disertamento de’ Franchi. Imperocchè queglino di essi appunto, i quali volle mio padre compagni nella battaglia, dopo la prima fuga de’ nostri passati erano per più riprese a Brienio, e portisi a vicenda le destre (in conformità della patria costumanza), e scambievolmente obbligatisi fede, pochi da prima, quindi altri, ed altri eranvi concorsi per attendervi la futura sorte delle armi. Tale sciagura, dalla fama propagata sollecitamente nell’esercito, ridotto avea le cose a peggiori termini, essendo che, sua mercede, insinuatasi la disperazione, veniva meno il coraggio agli Alessiani e la costanza ai più valorosi guerrieri.
XXII. Del resto osservatosi nell’antedetto modo lo stato de’ nemici tanto dai Turchi di fresco venuti, quanto da coloro i quali erano di già con Alessio, questi, preso dal tempo consiglio, divide i suoi militi in tre schiere, e fattene colà rimanere due, manda la terza ad assalire il nemico. I Turchi dunque non tutti ordinatamente in un corpo, nè obbligati alle file procedevano, ma alla spicciolata per torme inoltrando, a qualche distanza le più folte di esse l’una dall’altra, di maniera che per singole sorprendevano il nemico spignendogli contro i cavalieri, e con densissimo saettamento alleviando il peso de’ loro turcassi. Da tergo seguiva chi mediante solo un consiglio erasi cattivato tutti questi militi, Alessio mio padre, in mezzo ai fuggitivi suoi di arma comunque, i quali a vanvera incontrati potuto avea lusinghevolmente a sè trarre. Intanto uno degli immortali di compagnia con Alessio, uomo di grande coraggio e fidante nelle sue forze insino alla temerarietà, spronato fuori dell’ordinanza il cavallo, diritto sen corre a briglia sciolta ad affrontare Brienio stesso, e di tutto impeto piagagli di lancia il petto. Ma l’offeso prima che il ferro, trafitto il torace, vie più affondasse, spezzò di subito l’asta, e gittò a terra, stroncato per intero dalla sommità dell’omero, il braccio dell’offenditore, quantunque munito di ferreo bracciale. I Turchi intanto gli uni dopo gli altri aombravano i Brieniani con assidui nembi di strali. Questi a rincontro, sebbene alcun poco intimoriti dal repentino assalimento, riunitisi tuttavia e procedendo ordinatamente schermivansi coll’estremo di lor possa, e sostenevano il grave peso della mischia esortandosi per vicenda a far pruova di bravura.
XXIII. Di poi così i Turchi come il mio genitore, data una breve carica, ritiraronsi, fingendo appostatamente la fuga, e traendo a sè il nemico finchè lo ebbero condotto negli aguati. Giunti di questo modo i fuggitivi al luogo dove si rimaneva la prima schiera, rivolta di subito la faccia, prendono a combattere gli inseguenti, e ad un determinato segno queglino delle insidie, a foggia di calabroni, chi qua, chi là spronan lor contro, con altissime grida e continuo trar d’arco, togliendo gli orecchi col non interrotto fracasso, e con nembi di strali coprendo i corpi de’ Brieniani. Questi allora dovettero necessariamente, incapaci di più resistere, farsi indietro, costretti e cavalieri e cavalli per le gravissime ferite a cercare altrove maggior sicurezza; fatto dunque precedere il segno tutti volgono le spalle al nemico.
XXIV. Ma Brienio, avvegnachè molto faticato dalla mal riuscita pugna, e ridotto da forze di gran lunga maggiori a cedere, mostrò quanto mai sempre fosse valoroso ed a sè stesso presente, riguardando a otta a otta indietro, ferendo chi veniagli da presso, e non perdendo in conto alcuno di vista, in conformità dell’arte guerresca, una decorosa e nobile ritirata, assistito in essa dal fratello e dal figlio, amendue prodi coadiutori, le cui geste di quel dì, senza esagerazione affatto eroiche, sembrarono vero miracolo perfino ai nemici. Poichè mancate le forze al destriero di Brienio per le molte e lunghe corse, ora fuggitivo ed ora persecutore, in ogni direzione, e ritenutolo agli estremi di sua vita, il duce smontato a piede e colle redini in mano di moto proprio sfidò i due più fieri de’ vicin Turchi, l’uno de’ quali avventògli un colpo d’asta; ma prima di portargliene altro più grave fu da lui ripercosso in modo che ebbene a un tratto balzata la mano coll’impugnato dardo per terra. Il secondo intanto di essi Turchi saltato con mirabil destrezza dal proprio cavallo sopra quello di Brienio occupavane prontamente l’arcione, e il duce, possessore tuttavia delle redini, cercava indarno con gagliardissimo sforzo di montarne, piegandosi a mo’ di serpe, il groppone, e precipitarlo a basso; ma fallitagli l’impresa cangia consiglio, e tenta ferirlo di spada, avvegnachè pur ora inutilmente, di continuo rincontrando vigorosa resistenza. A furia di vibrar colpi in fine stancataglisi la destra, ed uscito di speranza d’uccidere il suo antagonista, si gittò in mezzo alla turba de’ circostanti nemici, i quali fattolo prigioniero e rettamente credendosi apportatori di rilevantissimo oggetto, lo condussero a mio padre non lunge di là, ed occupato nell’infervorare la imperiale falange ed i Turchi a dar pruova di coraggio nella pugna. Mandato pertanto da prima l’annunzio della riportata vittoria, quindi eglino stessi gli presentarono l’illustre prigioniero, il quale eziandio vinto appariva, del pari che testè nella lotta, agli altrui sguardi tremendo.
XXV. Alessio di poi spedì Brienio senza guastarne gli occhi all’imperatore Botaniate, ed a torto grandissimo diremmo il contrario, essendo mio padre di tempera tale da non poter salire in furore, dopo la battaglia, contro il nemico, e da estimare le calamità dei prigionieri al di sopra d’ogni vendetta; che anzi largheggiava grandemente secoloro d’ogni maniera di cortesie, d’inviti, di regali e di altre affettuose dimostrazioni. E di questa piacevolezza in allora soprattutto diede pruova, con suo pericolo, a Brienio, poichè avendolo accompagnato per non breve tratto di via insino al luogo nomato ......, col proposito di mitigarne il dolore, ed inspirargli fiducia d’un men triste avvenire, dissegli: perchè, scavalcati, non adageremmo un poco i nostri corpi sull’erba ed alla sottoposta ombra, onde godervi qualche riposo? Così egli; ed il prigioniero, avvegnachè in quel tempo nulla potesse accogliere con lieto animo, attendendosi ad ogni momento la morte, e quindi fosse implacabile, simile ad un furibondo, nè per ancora suscettivo d’un pensiero di buona ventura, avendo la vita stessa in odio, piegatosi non di meno alla costumanza de’ servi, ed in ispecie di quelli fatti in guerra, i quali non sanno dire di no ai loro padroni, consentì all’udita proposta. Smontati dunque a piede ambo i duci, mio padre s’addormentò sopra un verde letto di folta gramigna, ma a Brienio, quantunque avesse appoggiato il capo alla radice d’un alta quercia agitante sua chioma, pure non comparve il dolce sonno (come direbbe il soavissimo poeta) a tentarne le luci. Ora tenendosi egli supino, al vedere, alzati gli occhi, una spada penzoloni dai rami e libero il luogo all’intorno da testimonj, sentissi animato dal pensiero, avendone tutta l’opportunità, di uccidere Alessio. Nè sarebbe ristato dal farlo se non saprei qual divina forza (e mi ricordo averlo udito soventi volte da lui) non vi si fosse opposta, la quale, in buon punto ammansandone il fiero cuore, lo persuase a rimirare mio padre con occhio benigno ed asperso di tenera compassione. Potrà quindi ognuno di leggieri comprendere che il Nume con particolare sollecitudine vegliava la salvezza di Comneno, di quel prezioso capo vo’ dire, cui fin d’allora con manifesta deliberazione prometteva l’impero ed il romano scettro. Che se col tratto successivo Brienio ebbe a patire aspro ed inumano trattamento è uopo incolparne l’atroce consiglio di cortigiani potentissimi a que’ di presso dell’imperatore, non avendovi preso menomamente parte mio padre.
XXVI. Di questo modo giunse a buon termine la Brieniana spedizione sotto gli ordini del gran Domestico mio genitore, destinato dal nascer suo a non avere tranquillità ed a passare da uno ad altro cimento. E che tal sia; il barbaro Borilo, in intima amistade con Botaniate, si fe’ ad incontrarlo fuori della città, e cupidamente ricevuto dalle mani di lui Brienio (poichè avea già bramosia di eseguire, come effettuò in appresso, l’accecamento di così illustre personaggio), gli consegnò l’imperiale mandato di guerreggiare Basilacio, pur questi cintosi il capo del diadema, e mettendo in iscompilio l’occidente con mezzi non inferiori di forza e pericoli a quelli de’ Brieniani. Era costui per valore, presenza di spirito, ardire e forza al di sopra d’ogni altro dell’età sua. Fornito inoltre dalla natura di così grande ambizione da pretendere l’impero, tratto avea al suo partito i più illustri magistrati, procurandone i suffragj ora col discorso e cogli artifizj, ora usando autorità e forza, poichè, fattosi quasi erede e successore di Brienio, avea in sè concentrato tutto il credito di quella causa, e la stima, il favore, gli affetti e la propensione degli amatori di novitadi. Pigliate dunque le mosse da Epidanno6, capitale dell’Illirico, marciò infino alla città de’ Tessali soggiogando ogni cosa. Di per sè poscia creatosi ed acclamatosi imperatore, e conducendo all’intorno, ovunque attagliavali, un randagio esercito, era con plausi e voci festive accolto da quella rozza e militare adunanza, la quale, non comprendendo forma di vera lode, e coll’acume del suo ingegno non oltrepassando il senso e l’apparenza, veniva attratta dalle inorpellate virtù e speciose qualità di lui, dichiarandole abbondevolmente degne della porpora e del diadema; uomo per verità da non isgomentarsi di qualsivoglia impresa, e d’una gagliardia, agilità ed elevatezza della persona veramente singolari. Arrogi al detto una mente imperturbabile e parata ad ogni evento, aspetto e sguardo spiranti un che di regale, voce altitonante e formidabile, acconcia a riempire le orecchie di tutto l’esercito, potendo con solo un grido animarlo alla pugna, o cessarne l’impeto, o intimargli la fuga.
XXVII. Ricco di queste doti, dono della natura e della fortuna, ed avente seco elettissime legioni, Basilacio occupò la città de’ Tessali, come narrava. Laonde vennegli spedito contro mio padre, Alessio Comneno, il quale, non altrimenti che fosse per combattere il gran Tifone7, o il centimano gigante8, mise a prova ogni sua bellica perizia ed arte, apprestandosi da forte e magnanimo non meno che se dovesse affrontare un cimento ed un nemico degni di sè. Non levatasi pertanto da dosso neppur la polvere dell’antecedente lotta, nè ancora terse dal nemico sangue la spada e le mani, gettasi con impeto, qual fiero leone, sopra questo Basilacio digrignante i suoi denti. E’ dà principio alla guerra coll’occupare il fiume nomato da’ paesani Bardaro, che scorrendo dai vicini monti della Misia, dopo aver circondato molti luoghi, ed infra essi quelli di mezzo a Berrea e Tessalonica, dividendoli in due parti, occidentale vo’ dire ed orientale, va a metter foce nel nostro mare di ponente. Imperciocchè sogliono i maggiori fiumi dopo aver colmato gli antichi alvei, adducendovi colle frequentissime alluvioni tanta quantità di melma da rimanerne eglino stessi alla per fine esclusi, inondare nuove sedi e col declivo lor corso formarsi altre vie, lasciando tra’ due alvei qualche distanza. Mio padre, osservato ciò relativamente al Bardaro, colla sua militare scaltrezza sceglie appunto il luogo, munito di naturali fosse, infra l’uno e l’altro fiume, per mettervi il campo, essendogli Basilacio distante non più di due o tre stadj. Sembra in vero che ambo i duci venissero nell’eguale determinazione onde a vicenda schivare e tramare le notturne frodi. In amendue i campi a simile i militi prendevano durante il giorno riposo ed i quadrupedi cibo, e nelle ore notturne ognuno si tenea desto ed in accurata guardia. Tale sistema ebbe principio da Basilacio, suggeritogli o dalla propria furberia, o da qualche straordinaria inspirazione, e lo seguì anche Alessio la mercè di sua prudenza, acquistata col lungo esercizio nel guerreggiare, e di sua naturale avvedutezza. Di più avendo congetturato dall’indole del suo avversario e dalla vicinanza dei campi la probabilità che Basilacio tramassegli una sorpresa notturna, al calar delle tenebre fa comando a tutti i suoi, cavalieri e fanti, di uscir seco armati e disposti come per dare battaglia. lngiunge parimente che si lascino da per tutto nella notte accesi i fuochi nel campo, onde meglio conseguire il divisato scopo. Da ultimo pone alla custodia della vittuaglia e delle vestimenta abbandonate nel proprio padiglione un suo famigliare, il vecchio monaco Gioannicio, e va insiem coll’esercito a collocarsi in luogo assai lontano e remotissimo dalla vista del campo, attendendovi l’ora di compiere il suo proponimento. Conciossiachè sospettando egli, come fu il caso, che durante la notte Basilacio irebbe ad assalirgli il campo, ed in ispecie la tenda, ove le accese lampane darebbero indizio che vi dormisse in piena sicurezza il supremo duce, e quindi potrebbesi a tutto bell’agio imprigionare, dimorava negli aguati in espettativa di quanto prevedea; nè andò errato.
XXVIII. A notte ferma pronto Basilacio con diecimila combattenti, pedoni e cavalieri, lanciossi nel campo, ed ovunque vedendo fuochi accesi, ed il padiglione del condottiero, più alto e largo d’ogni altro, risplendentissimo, vi si diresse di tutto impeto e con provocatrici e turbolente grida. Ma non comparendo giammai Alessio, nè centurione o tribuno, come pareva il caso, dai luoghi prossimani al padiglione, non rimastovi tampoco un guerriero, e non appressandoglisi che pochi sordidi ed abbietti iudividui del basso servigio, vie più gridava a tutta gola chiedendo ove stesse quel balbuziente, nomato così da lui per ischerno il gran Domestico. E di verità, sebbene mio padre avesse un favellare sciolto ed anche fornito di qualche naturale facondia, la sua lingua tuttavia lievemente s’impigliava nel proferire l’R, e scorrendo agevole per tutte le altre lettere, all’incontrare questo decimo settimo elemento9 v’impuntava soffermandosi un poco. Basilacio dunque, pigliato da questa imperfezione motivo di oltraggiarlo, iva gridando: il balbuziente, ed in pari tempo ricercando, rimestando e sconvolgendo ogni cosa, forzieri, mense, vasi, ed infino lo stesso letto di lui per tema non vi si tenesse ascoso al disotto. Non di meno tratto tratto volgeva i suoi sguardi a Gioannicio (tale il nome del cenobita custode del padiglione di Alessio, la cui madre erasi data premura grandissima che ogni qual volta egli si partiva coll’esercito avesse di continuo al lato, in qualità di famigliare, alcuno de’ più venerandi monaci, ed il pio figlio secondò la materna volontà non solamente ne’ primi tempi di sua giovinezza, ma eziandio negli anni contigui alla virilitade, vo’ dire all’epoca del suo matrimonio). Basilacio dunque assiduo nell’importunare Gioannicio colle sue interrogazioni, mentre ponea sossopra il padiglione del supremo duce scompigliando, arrovesciando ed investigandone tutte le suppellettili, niente meno che se avesse nell’animo d’indagare chi nascondeasi nell’Erebo (il che Aristofane espresse con una semplice parola10), così proseguì nelle sue indagini e diligenti ricerche infinoattantochè, sempre fermo Gioannicio nel dichiarare essere il gran Domestico un’ora prima uscito del campo con tutto l’esercito, si persuase di aver preso un solennissimo granchio, e cambiata all’istante favella: Siamo errati, esclamava, o commilitoni, la guerra ed il cimento sovrastanci al di fuori. Nè avea ancora terminato queste parole che, al ritirarsi dal campo unitamente alle truppe, gli si fe’ incontro e addosso mio padre Comneno A!essio, precedendo pieno di coraggio la falange, con pochi de’ suoi. Qui sol uno de’ nemici, memore della militare disciplina, mostrossi a comporre gli ordini ed a richiamare gli sbandati. Dico sol uno, poichè gli altri tutti distolti dalla brama di predare mandavano ad effetto la speranza di mio padre, il quale a bello studio abbandonato avea il bottino del campo all’avidità de’ barbari, acciocchè, occupati nel raccoglierlo, addivenisse più agevole, all’entrarvi egli di furia co’ suoi, l’ucciderli e sbaragliare. A!essio intanto pigliando sospetto, così per l’altura della persona, come per la forbitezza delle armi, che ai riverberanti raggi degli astri ottimamente tramandavano blando splendore, non quel uno sforzantesi di ricondurre all’ordine tutte le proprie genti fosse Basilacio medesimo, gli si accostò da presso, e con forte colpo fecegli cadere in terra la destra mano ed il ferro da lei impugnato; que’ pochi in allora, i quali indotti dall’autorità e dalle esortazioni di lui aveano cominciato ad attelarsi, sopraffatti da gravissimo terrore, novamente si dispersero: del restante quegli non era il vero Basilacio, ma altri chiarissimo de’ suoi famigliari, nè per coraggio ad esso inferiore. Comneno dà poscia addosso con ogni sorta di violenza ai trepidanti, percotendoli da lontano coll’arco, lanciottandoli da vicino, e spaventandoli a furia di grida; col favor delle tenebre li rabbuffa, e si vale del luogo, del tempo e di mezzo comunque ad istrumento della vittoria, ponendo acconciamente in opera tutti gli oggetti giusta le proprietà dalla natura loro accordate. Oltre di che quanto più riempiva di confusione e terrore i nemici, tanto maggiormente lo rimiravi tranquillo, col suo senno e coll’acume della sua intrepida mente tener l’occhio a che che sia, distinguere quanto appresentavaglisi, essere di tutto memore, e di tutto curarsi, anche de’ singoli individui, con soprabbondante premura; incalzare i fuggitivi se nemici, racquistarli se imperiali, senza cader mai in fallo, tra quel grandissimo perturbamento, sbagliando assisa, volto, o voce; nè fia discaro che a mostrare la prontezza del suo intelletto nell’osservare e dirigere le menome faccende stesse ne riferiamo qui alcuni esempi.
XXIX. Aveavi un Gula cappadoce, fido servo di mio padre, pronto ad alzar le mani, e di un ardire al di là nei pericoli della guerra. Questi aocchiato avendo Basilacio, e ben lo conoscea: gli avventa un forte colpo sopra l’elmo; se non che a lui eziandio sorvenne il caso di Menelao, alle prese con Paride, andandogli la spada in tre o quattro pezzi, non rimasane che l’elsa nella sua mano. Alessio vedutolo in tale stato, lo sgridò acerbamente, incolpandolo d’infingardaggine, siccome colui che si fosse lasciato portar via il ferro; ma egli si giustificò e riconciliossi col suo padrone, mostrandogli impugnatura tuttavia dalla mano pendente. Un altro macedone a simile, di nome Pietro e di soprannome Tornicio, avvenutosi nel mezzo de’ nemici, n’andava occidendo molti, poichè la costoro falange si trovava all’oscuro, durando peranche la notte, di quanto accadeva. Comneno osservata quella moltitudine ferma nel combattere vi si lanciò con furia contro, occidendone chi gli si opponeva, quindi tornato a’ suoi procacciava che tutti dessero opera a quanto era per imprendere, quelli da presso chiamando colla propria voce e mano, e spedendo messaggieri agli arretrati e lontani onde avvertirli che mentre egli dava dentro alla nemica falange lo seguissero di colta. In tale frangente, per dire tutto con brevità, uno dei Galli sotto le imperiali bandiere, uomo pieno di coraggio e spirante guerra, vedendolo per l’antedetto divisamento ritirarsi dal mezzo de’ nemici, impugna la spada, bagnata e fumante di fresco sangue, credendolo probabilmente uno de’ barbari, gli corre contro di tutta possa, e lo ferisce vicino al petto, e per poco non lo scavalca. Ma egli tenendosi ben fermo in arcione, e chiamando per nome il milite lo minaccia che gli farebbe saltar via la testa; se non che l’offenditore coll’addurre a sua discolpa e ad impetrar perdono di sua reità la notte e quell’orribile parapiglia, scontò la pena dell’imminente morte.
XXX. Nella mattina del seguente giorno, pervenuto il sole sopra l’orizzonte, i tribuni ed i duci di Basilacio si travagliavano pieni di sollecitudine a richiamare le truppe loro dalla preda, bramosi di riordinarle e di ricomporre la falange. Il gran Domestico in cambio, attelati di già i suoi, dirigevasi ad un nuovo assalto, quando taluni degli Alessiani, da lunge rimirato avendo altri de’ militi nemici, erano proceduti con violenza grandissima a combatterli, e riusciti a disperderli e porre in fuga menavanne al duce loro alquanti prigionieri. In cotal mezzo Manuele, fratello di Basilacio, asceso un colle a piena gola incoraggiava i suoi gridando: Questo giorno è giorno e vittoria di Basilacio. Al che un Basilio di nome e di cognome Curtricio, famigliare e compagno del Brienio Niceforo testè rammentato, uomo ardito ed intrepido ne’ cimenti, partitosi dallo schieramento di Comneno salì quel colle. Manuele, vedutolo, muove ad incontrarlo a briglia sciolta, con tremendo cipiglio e colla spada in pugno; ma Curtricio, anzi di bastone, penzoloni dalla sella, che di spada, colpitolo fortemente in su la testa di botto lo scavalca, e fattolo prigioniero lo presenta come una spoglia a mio padre. Quindi tutte le rimanenti truppe di Basilacio dopo breve resistenza voltarono le spalle, primo il duce stesso a fuggire, e giunte a Tessalonica, perseguitate ognora dal nemico, i cittadini le accolgono, chiudendo le porte agli imperiali. Un tal procedere non isgomentò punto mio padre, il quale, senza svestirsi l’usbergo, senza deporre l’elmo, lo scudo e la spada, tosto preparossi a batterne le mura, e minacciò del saccheggio i cittadini. Ma poichè bramava di prendere vivo e servare Basilacio, stabilì di venire agli accordi seco mediante il cenobita Gioannicio, uomo di specchiata virtù, colla promessa che arrendendosi non patirebbe molestia alcuna. Sordo Basilacio alla proposta, i Tessalonicesi, zelanti delle cose loro a temendone il saccheggio, aprirono le porte a Comneno, e Basilacio, uditone, passò dalla città nella rocca. Mandategli novamente dal gran Domestico le medesime condizioni, che non andrebbe, ripeto, soggetto, cedendo, a gastigo comunque, egli non volle sentir di pace; macchinava in cambio sortite e certami, niente del tutto potendo le angustie del luogo e di quanto lo attorniava temperare lo stato dell’ardita sua mente, e la fermezza del suo valoroso petto. Se non che alla fine, cospirandogli contro tutti gli abitatori e tutte le guardie della rocca, fu levato a forza di là, e consegnato, resistendo in vano, a mio padre; il quale inviò di subito un messo ad annunziare il prospero evento all’imperatore, dovendo egli rimanere ancor qualche tempo in Tessalonica per ordinarvi le pubbliche faccende, e quindi tornare in patria ricco d’una splendida vittoria. Laonde quelli che per sovrano comandamento erangli camminati incontro lo raggiunsero intra Filippi ed Anfipoli, e presentatigli in iscritto i voleri di lui, si andò, obbedienti ad essi, a cavare gli occhi a Basilacio presso ad un luogo detto Clempina e ad una fonte, che dall’avventutovi nomossi e tuttavia nomasi fonte di Basilacio. Questa fu la terza fatica superata, alla foggia d’Ercole, dal grande Alessio prima di ascendere il trono; nè andrebbe certamente errato chi raffrontasse Basilacio al cinghiale d’Erimanto11, e mio padre al valorosissimo figliuolo di Giove e di Alcmena. Tali furono le gloriose ed illustri sue imprese avanti di giugnere al supremo potere, ed ebbene in premio dal sovrano l’onoranza di Sebasto12, acclamandolo siffattamente nel mezzo del senato.
XXXI. Siccome ne’ corpi mal fermi in salute le malattie non derivano sempre dalle stesse cagioni, ma talora dai succhi interni non bene assimilati, o da una disordinata abbondanza di umori, ed altre volte hanno esse origine dal concorso di cause circostanti, o dallo smodato uso di cibi insalubri, così di que’ tempi la romana repubblica ora si procacciò da sè stessa nel suo interno letali morbi, dir voglio i prefati Urselj, i Basilacj e quanti altri hannovene da essere annoverati nella moltitudine de’ tiranni fervente in allora; oltre poi cosiffatti sconcerti interni, ella soggiaceva parimente ad esterne sciagure, costretta a piegare il capo sotto fieri, molesti e barbari tiranni d’altronde venuti. Morbo insanabile di tale specie e d’irreparabile rovina dirò quel famoso campione di tirannica demenza, l’altero ed assai potente Roberto, il quale, in mia fe, ebbe a madre la Normandia, ed a levatrice e nutrice furberia e malizia d’ogni fatta. Ma l’impero stesso armò e provocò a suo danno questo nemico mediante un improvido e mal accorto parentado, unendo insieme individui per natura incompatibili, Greci con barbari, nostrali con istranieri, ond’ebbe a prole dal non lecito ed infelice matrimonio una sanguinosa e mortifera guerra. Di così grave male poi è mestieri accagionare l’imprudenza dell’imperante a que’ giorni, Michele della famiglia dei Duca, propagatore della schiatta donde trasse, dal materno lato, origine la mia. Del resto qui addimando la permissione, o piuttosto a diritto l’assumo, di riprendere, occorrendo, eziandio coloro, i quali hanno meco vincoli di consanguineità, o di parentela, e certamente infinoattantochè mi occuperò nel pubblicare senza frode la verità, fattami legge di questo intendimento e dovere, opino di pormi a riparo da ogni richiamo in proposito di qualsivoglia persona. Or bene il prefato imperatore Michele Duca unì in matrimonio al proprio figlio Constantino la figliuola di questo barbaro, nozze sorgenti d’affannose sciagure e di pretesti ai nemici per rompere la pace, e provocarci ad una orribile guerra. Ma intorno a Constantino, prole di Michele, a’ suoi patti nuziali ed a quanto ha relazione con la contratta barbarica parentela, come pure ai delineamenti ed alla statura del giovane mi riservo a parlare in più acconcio tempo, allorchè, intendomi, lamenterò le mie sciagure (o vero sia terminato che abbia di esporre le cose riferentisi a tale congiunzione), tutti i mali che ne ridondarono, e le ultime stragi del barbaro esercito coll’estrema rovina della normannica tirannia, la cui forza e potentissima audacia Michele Duca volse sconsigliatamente contro il romano impero coll’aderire alle antedette nozze. Se non che, facendomi più indietro col discorso, innanzi tutto indicherò i principj di Roberto, donde egli abbia tratto origine, quanto il suo patrimonio si fosse, ed a qual alto grado di potenza una serie, o, per meglio dire, un fortuito accozzamento di variati eventi lo abbiano condotto, e, per esprimermi più religiosamente, infino a qual punto la divina provvidenza abbiagli permesso di giugnere, accordando con saggia dissimulazione alle costui maliziose geste ed arti un prospero successo.
XXXII. Roberto fu di patria normanna, di bassi natali, d’indole tirannica, d’animo astutissimo, forte di braccio, rimirante con avido sguardo le ricchezze e le felicità degli ottimati, d’insuperabile violenza, e d’invincibile fermezza nel tener dietro a’ suoi concepimenti, allorchè ostinavasi di mandarli a buon fine. Era poi di così elevata statura da non avervi, neppure a fronte degli altissimi, chi lo agguagliasse; la sua pelle tendeva al rosso, la chioma al biondo; larghi avea gli omeri, e luci tanto vive che di vero sembravano scintillanti. Nella rimanente conformazione delle sue membra inoltre, laddove si conveniva prolungamento maggiore lo vedevi, senza trascorrere i giusti limiti, disteso; e dove l’uso e la proporzione delle forme addomandavano ristringimento l’avresti detto lavorato al tornio dalla natura con certo qual artifizio da renderlo maravigliosamente disposto; tale infine dalla pianta dei piedi alla sommità del capo, siccome ricordomi avere udito da molti conoscenti suoi per veduta, che indarno sarebbesi attentato di scoprire in lui il più piccolo neo, e doverlosi quindi ritenere quasi un ideale concetto. In quanto alla voce, Omero per verità rammenta di Achille che parlando si pareva agli astanti udir voce di tumultuante volgo; ma le costui grida, come udimmo, avrebbero atterrito e messo in fuga miriadi intiere di persone. Dotato di cotanti pregi dalla natura, dalla fortuna e dall’indole dell'animo, era ad uno zelantissimo della propria libertà, ed affatto alieno dal soggettarsi a chiunque, o dal prestare servile omaggio, carattere, dicono, delle grandi menti, avvegnachè umiliate dall’abietta lor condizione. Recatosi dunque a noia di vivere altrui sommesso abbandona il luogo natale, la Normandia, con cinque cavalieri e trenta pedoni al tutto, e va con essi ad occupare le foreste e le spelonche intorno ai disviati monti lombardi, ove, posti a ruba i viandanti, provvide sè stesso ed i suoi di cavalli, pecunia ed armi.
XXXIII. Tali furono i principj e rudimenti del viver suo contaminato di stragi e di umano sangue. Quivi lungamente soggiornando vennelo a sapere Guglielmo13 Mascabele, signore in allora di gran parte delle regioni adiacenti alla Lombardia, il quale raccogliendovi copiosi annuali tributi valevasene ad alimentare molte truppe, e ad acquistarsi con ciò larga rinomanza d’illustre potente. Questi avendo inteso levarsi a cielo le prefate doti, così dell’animo come del corpo, di Roberto, risolve imprudentemente, e ne fe’ pruova l’esito, di amicarselo per via di parentado. Impromettegli dunque una delle sue figlie, e compiutesi dopo breve tempo le nozze vivea beato per gli stretti legami con un genero di cotanta forza ed esperienza nelle cose di guerra. Che poi l’animo suo ne fosse oltremodo contento lo mostrò ad evidenza cogli splendidissimi doni fattigli, ceduto avendo a titolo di dote insiememente con più altre generosissime largizioni una delle sue città, ben longe dal riportarne tuttavia gli sperati e ben meritevoli frutti. Conciossiachè Roberto presto addivenuto invidioso del suocero cominciò a macchinargli contro; represse non di meno il suo mal animo insinattantochè non videsi a bastanza forte. Ma non appena ebbe triplicato il numero de’ suoi cavalieri e duplicato quello de’ fanti, sentendosi già fornito di abbondanti armi, si leva la maschera e con aperta e libera sfacciataggine dà principio agli assalimenti, piede innanzi piede procedendo in essi, e seminando e facendo sorgere gli uni dagli altri i pretesti delle sue nimicizie; vero mascagno artefice di gittar semi da cui mietere contese e guerre. Ma dappoichè tanto per l’esperienza, quanto pel numero de’ suoi militi, rimpetto alle schiere dell’avversario, e’ riconobbesi di leggieri inferiore onde venire seco lui ad aperte gare, sapendolo uomo fornito di molte ricchezze e di copiosissime truppe, voltosi agli inganni, tornagli amico fingendo pentimento del testè operato; nè cessa intrattanto dal tramargli insidie per giugnere colla buona riuscita loro e colla frode a spogliarlo d’ogni podestà e di tutti i suoi beni e diritti. Fattosi pertanto a chiedere pace e riconciliazione domanda sia stabilito di comune accordo un giorno ed un luogo per acconciarsi di presenza sopra ogni controverso punto. Mascabele, amantissimo della propria figlia, con giubilo accolta la speranza di ricuperare il genero, condiscende come che sia, giusta il piacere di lui, al colloquio, e Roberto passa alla scelta.
XXXIV. Aveanvi due colli estollentisi pressochè alla medesima altezza, e l’uno di contro all’altro, il cui suolo nel mezzo essendo palustre e folto di arbuscelli e fruttici si reputò da lui idoneo agli agnati. Laonde quivi colloca quattro fortissimi e ben armati guerrieri, coll’ordine di tener l’occhio dappertutto all’intorno, e non appena lo avessero veduto alle prese con Mascabele di correre subito in suo aiuto, sicuri di quanto passava in quel tratto di paese. Disposte colà non altrimenti le cose, il frodolentissimo Roberto non pose truppa comunque sul colle fissato per venire ad un abboccamento, destinò invece, per l’altro, a sua difesa, quindici cavalieri e cinquantasei fanti, comandando loro di ascenderlo e prenderne possesso, comunicato soltanto a pochi dei principali tra essi ed in compendio il suo divisamento, e prescritto in particolare ad ognuno di portar seco le proprie armi, lo scudo, l’elmo e la scimitarra, onde senza indugio valersene all’uopo, ed unitamente ai quattro acquattati a basso prestargli assistenza al primo segno di zuffa con Guglielmo. Questi per nulla sapevole delle ordite trame recasi nell’appuntato giorno al sito indicatogli, e miratolo da lontano procedere alla sua volta, va ad incontrarlo affettuosamente, e lo reputa degno di saluto e di cordiali amplessi. E’ poscia giungono alla stazione destinata pel congresso, laddove l’apice del colle comincia a declinare, e consumatovi qualche tempo in istudiati discorsi, Roberto si fa a dire: Perchè, scavalcati, non ci adagiamo a confabulare sedendo sull’erba? Mascabele, tutto bonarietà, v’assente, ed imitando Roberto, disceso il primo, si asside per terra, sostenendosi col cubito il capo e proseguendo il discorso, intanto che l’altro, raddoppiate le sue menzognere ed officiose parole, promettegli eterna fede, e chiamalo più e più volte il signor suo. I seguaci di Mascabele poi, dal modo in cui vedevanli così famigliarmente ed amichevolmente adagiati, argomentando che andrebbe alle lunghe il colloquio, saltarono giù pur essi d’arcione, e sentendosi alcun poco molestati dalla fame, dalla sete e dal caldo, giunto il dì al meriggio, pigliarono dal vertice del colle, battuto dai raggi solari, ov’eransi fermati, a discendere nell’ombrosa valle, e quivi taluni di loro, raccomandate le briglie de’ cavalli ai rami degli alberi, si giacevano sul terreno a godere di quella frescura, ed altri si diressero alle proprie case. Tale operarono costoro; ma Roberto, pieno la mente del concepito misfatto, allorchè lo giudicò a maturanza, cangiatosi tosto di voce e di volto, e ad un placido e sommesso sguardo fattone succedere altro tutto fuoco e sangue, osa eziandio porre le mani addosso al suocero, il quale ripone medesimamente ogni sua difesa nel braccio; nasce quindi una riotta, in cui sospingendosi con variati sforzi l’un l’altro per la china del colle, voltolaronsi entrambi precipitosamente all’estremità di essa. I quattro guerrieri negli aguati non appena osservato quel certame, trattisi fuori della palude, frettolosi accorrono contro a Guglielmo, ed agevolmente trascinalo presso i cavalieri di Roberto, in attesa, come dicemmo, sopra l’altro colle, i quali a simile rimirata da lunge la zuffa, di già avacciavansi per la declività del monte di raggiungerli. Ora i compagni di Guglielmo, tardi accortisi della frode, avanzavano pur eglino quasi vendicatori dell’offeso padron loro, se non che Roberto salito in arcione, copertosi colla celata, brandendo ferocemente l’asta, e protetto dallo scudo piglia a combattere uno di essi e, feritolo, morto lo atterra, cessando così la foga dei compagni di lui, e distogliendoli dalla speranza di salvare il proprio signore. Eglino dunque all'istante, e vie meglio spaventati dalla vista de’ cavalieri di Roberto che inoltravano colle minaccevoli aste lor contro, diedonsi a gambe. Il perchè Mascabele, qual misero prigione in ritorte, vien condotto via impunemente, e rinchiuso nella stessa città da lui ceduta, in dote della figlia, all’egregio suo genero; questa città così accoglieva in allora, sotto la vigilanza della guernigione, il signor suo, donde fu meritamente Frurion appellata, come dire presidio o rocca.
XXXV. Ora nulla vieta il compiere la narrazione di quanto rimane da esporsi intorno alla crudeltà di Roberto. Fattosi costui padrone del suocero gli svelle ad uno ad uno tutti i denti profferendo all’estirpazione d’ognuno di essi certa dismisurata somma di danaro, e costringendolo ad indicargli ove questa rinvenire si poteva. Da ultimo, insiem coi denti esausto il danaro, se la prende cogli occhi cavandoglieli barbaramente. arricchitosi con tale spoglio accrebbe di giorno in giorno, mercè nuovi ingrandimenti, la sua potenza, aggiugnendo cittadi a cittadi, danaro a danaro, sicchè in breve tempo ebbe mezzo di ascendere alla ducale onoranza, intitolandosi duca di tutta la Lombardia. Per la qual cosa vie più suscitossi la generale invidia, che non di meno egli coll’innata e consueta sua prudenza potè a bell’agio placare, ora con adulazioni e menzogneri omaggi adescando i più potenti degli avversarj; ora disarmando con doni e liberalitadi in ispecie i plebei insortigli contro; tal volta poi, ove non arrivava l’arte, adoperando la forza ed assalendo colle armi; finalmente quando con queste, e quando coll’acume del suo ingegno s’appianò il sentiero per divenire stabile padrone della Lombardia, e di tutta la contigua regione. Di più, sempre intento col pensiero a cose maggiori, ed estimando la presente sua elevazione siccome grado per ascendere ad altra bramata, osò ben anche aspirare all’impero de’ Romani, valendosi della riferita opportunità per cimentarsi ad un tale passo; vo’ dire la parentela che l’imperatore Michele, nè saprei con quale divisamento, seco lui contrasse, accordando in matrimonio Constantino suo figlio alla pulzella, nomata Elena, del tiranno.
XXXVI. Al rammentare poi questo giovincello torna l’animo mio a forte commoversi e la ragione a conturbarsi. Non uscirò tuttavia del proposito, nè qui inopportunamente frammescolerò quanto lo riguarda, riservandomi a farlo, come diceva, in altro più adatto luogo; ma pure non so temperarmi ora in passare con silenzio, sebbene conosca intempestivo l’esporre come il giovinetto modellato si fosse a campione di bellezza dalla natura, adoperandosi costei tutto il poter suo nell’eseguirlo; anzi vie meglio dichiarerollo delle mani del Nume eccellentissimo lavoro, dal quale poteasi argomentare l’industria dell’artefice, obbligato ognuno, al primo gittarvi gli occhi sopra rimaso attonito, ad asserirlo verissima propaggine dell’aurea generazione favoleggiata dal Greci, tanto in lui rifulgeva l’attraente forza d’un’assolutissima bellezza. Nè lo scorrimento dei molti e molti anni da che più nol mirai giunse infin qui ad affievolire o cancellare nel mio animo così grande avvenenza, di guisa che neppur qui émmi dato il rammentarlo senza effusione di abbondanti lagrime. Raffreno tuttavia del mio meglio il pianto, serbandolo per gli acconci luoghi de’ miei tempi, onde non isconvolgere l’ordine della storia mescendo insieme colla narrazione delle pubbliche faccende le private lamentele delle proprie sciagure. Questo giovinetto, alcun poco di me più avanti negli anni, scevro da contaminazione comunque, prima che a’ miei sguardi s’appresentasse il sole venne fidanzato ad Elena di Roberto. Eransi convenuti parimente infra di loro i conjugali patti, che, non oltrepassando i limiti d’una promessa, andarono in nulla tanto per la immatura morte di lui, quanto pel cambiamento della repubblica, posti in obblio al salire in trono di Niceforo Botaniate; ma, pur troppo accorgendomi di aver rotto il filo della mia narrazione, torno a rannodarlo.
XXXVII. Roberto, da umili natali pervenuto al sublime apice della fortuna, pensando nulla esservi al di là delle sue speranze cui non potesse aggiugnere colle ricchezze e colla forza onde vedevasi circondato, stabilì d’indagare se fossevi mezzo che lo conducesse a farsi eleggere imperatore de’ Romani, e la parentela, di che tenuto abbiamo discorso, lo fornì di speciosi pretesti per cominciare la guerra e le offese; come poi ne andasse la faccenda in doppio modo a noi venne dalla fama. Il primo e maggiormente avvaloratosi giunse, il confesso, alle mie orecchie come prendo a riferire: Un cotal monaco di nome Rettore infintosi l’imperator Michele riparò a Roberto siccome ad affine e suocero di suo figlio, e lamentatosi delle sofferte calamità gli addomandava soccorso, poichè questo Michele asceso il romano trono, spento Diogene, non avea potuto lungamente durarvi, balzato giù da Botaniate, ribellatoglisi contro, e costrettolo da principio a farsi monaco vestendone l’abito, cambiatolo poscia coll’arcivescovile talare e colla mitra. Che anzi divisato avea l’usurpatore di conferirgli perfino il pallio, a suggerimento di Cesare Giovanni suo zio, il quale osservata la vanezza di quel nuovo potente dottava non, addivenutogli sospetto, lo dichiarasse meritevole di sofferenze maggiori. Il monaco adunque appellato Rettore, vero comico nel fingere altrui ed esperto negli inganni più di quanti mai ve n’ebbero, mentì la persona di Michele, e sotto questa maschera presentatosi a Roberto nella qualità di suo consuocero lo fa partecipe dell’ingiuria cui dovette sgraziatamente soggiacere, vedendosi scacciato dal regio trono e ridotto a vivere con quell’abito ed in quella condizione; supplicavalo adunque, ricco essendo e potente, di fare le sue vendette contro Botaniate; il quale commettendo la fellonia di ribellione avea offeso non solamente la persona di lui, Michele, ma ben anche Roberto, di forza tratto avendogli il genero Costantino a parteggiare seco unitamente alla imperatrice Maria, e reso con tale scelleraggine allo stato di vedovanza Elena sua prole. Il divolgamento in fine di questa nuova trasse agevolmente Roberto a moversi a sdegno, e a disporre tutto il bisognevole per guerreggiare i Romani. Tali voci, come appunto sono da me riferite, ho inteso andare da per tutto intorno, nè forte stupisco che abbianvi cotanto vili creature, le quali cuopransi della maschera, vantandosene impudentissimamente, di personaggi per nascita ed onoranze illustri.
XXXVIII. Altra voce poi, ed a vero dire più meritevole di fede, mi percuote d’ogn’intorno le orecchie, ed è che non avessevi monaco veruno contraffattore di persone, il quale, di sua posta usurpato il nome del già imperatore Michele, ricorresse a Roberto; frottole ed illusioni sono queste, nè ad altri vuolsi attribuire cotanta scelleranza che al tiranno medesimo fecondissimo artefice di studiate frodi. Egli stesso, a non dubitarne, concepita da gran tempo la brama di procacciarsi colle armi il romano impero, allorchè vide a termine gli apprestamenti per sì grand’opera incapace di contenersi, nicchiava, macchinando intanto con tutte le forze di venirne furbescamente a capo. Conciossiachè ad un precipitoso muover ingiusta guerra contro i cristiani opponevansi e molti de’ principi suoi favoreggiatori, e la consorte stessa Gaita, i quali ogni volta che in lui scorgevano il pizzicore d’insultare al nome romano davansi incessantemente a dissuadernelo. Ora egli curante di trarli al parer suo mette in opera il seguente mezzo. Spedisce parecchi individui sapevoli de’ suoi arcani a Crotone14, soffiando loro negli orecchi che se rinvenisservi qualche monaco disposto a passare dalla Grecia al limitare degli apostoli, e d’aspetto e conversazione adatto, giusta l’avviso loro, a suoi macchinamenti, cercassero con mille officiosità di amicarselo, e ad ogni modo glielo conducessero. Presentossi loro di fatto in buon punto il prefato monaco Rettore, uomo scaltro, e sommo nell’arte di fingere e dissimulare checchè gli attalentava. Eglino pertanto, giudicatolo acconcissimo ai divisamenti di Roberto, mandano a costui lettera in Salerno15, estesa giusta i suoi ordini, avvisandolo che il consuocero di lui Michele, scacciato dall’impero e profugo in Italia riparava in Crotone, bramoso di presentarglisi per averne assistenza. Roberto ricevuto il foglio e tenendolo in mano, come al momento aperto, leggelo innanzi tutto alla moglie; quindi raccolti a consiglio i più illustri personaggi e d’alto affare della sua corte loro partecipa il contenuto in esso, e tutti prestandovi bonariamente fede convengono di non doversi trascurare le sciagure d’un parente del signor loro. Questi allora, senza indugio, mandò chiamando Rettore, il quale comparso con vesti e codazzo dicevoli alla persona da lui rappresentata, e non essendo in fe di Dio nè cattivo attore, nè obblioso, plausibilmente eseguisce in quel consistorio col gesto, colle parole, col volto e portamento dell’abito la sua tragica parte, adducendo che per opera del tiranno Botaniate vedesi privo del trono, della moglie e del figlio; di più spogliato con ingiustizia somma della regia benda e del diadema posto aveangli in dosso la tonaca monacale. Il perchè, vittima di cotante offese, era costretto recarsi loro innanzi nella forma di supplicante; nè cosiffatta esposizione del monaco Rettore, dettata da Roberto autore del dramma, era priva di eleganza; nè inferiore ad esso per verità mostravasi Roberto nel portare la sua parte, dichiarando apertamente che sembravagli degna azione il concorrere così egli come i suoi a riporre quest’uomo tanto benemerito della sua persona sull’avito trono. Ornatolo dunque dello scenico apparato convenevole a tale pompa, e’ fingeva mai sempre di reputarlo meritevole dell’usurpatagli dominazione, del più elevato seggio e dell’onoranza sopra tutte grandissima; quindi nel discorso attribuivagli con istudio particolare i titoli proprj dell’antecedente sognata condizione. Quegli in contraccambio ora consolavalo del torto sofferto nella persona della figlia, ora esponeva che temperavasi dal rammentare tutte le sue sciagure pel rispetto dovuto al consuocero, e per tema d’attristarne la pietà cotanto proclive a condolersi delle altrui disgrazie; ora finalmente in varie guise eccitava i conti e gli illustri duchi spettatori della farsa a guerreggiare senza una minima esitazione i Romani, dal che ognuno di essi riporterebbe cumuli di ricchezze, o per meglio dire monti d’oro.
XXXIX. Con tale commedia indotta la persuasione negli animi de’ presenti, e ricchi e poveri, ciascheduno a norma de’ proprj desiderj, incoratisi a imprendere novitadi, Roberto si parte dalla Longobardia, o piuttosto seco traendo tutta la Longobardia, e giunge a Salerno. È questa la metropoli de’ Melfii16, ove celebrò le nozze delle due figlie tuttavia nubili (poichè la terza, come abbiamo esposto, vivea nella mestizia in Constantinopoli, addivenuta vedova infin dalle stesse prime sponsalizie, l’impubere suo fidanzato abborrendo e lei ed ogni menzione di cosiffatto parentado come da’ fanciulli sogliono detestarsi gli spettri e le mostruose larve); celebrò ivi, ripeto, le nozze delle due figlie, l’una con Raimondo, prole del conte di Barcellona17, e l’altra con Eubulo pur egli nobilissimo conte. Procacciatosi non altrimenti le affinità di potentissimi personaggi, vantaggiose alla presente bisogna del guerresco apparato, da ogni selva raccolse prudentemente dardi, inducendo a prendere parte nella divisata milizia i Galli mercè la comunanza della stirpe, gli Spagnuoli e gli Italiani pel legame delle varie affinità, i sudditi suoi mediante la forza ed il comando, e gli altri con incredibili e mai più imaginati artificj. Non è poi da passare con silenzio il perchè in allora i principi d’occidente lasciassero cotanto crescere la pellegrina e dal nulla surta potenza di Roberto, nè permettessero allo sdegno ed all’invidia, che infallantemente portavangli, di far pruova del poter loro onde sconvolgere ed abbattere questa nuova dominazione, fragile ancora ne’ teneri suoi cominciamenti; nel che apparve ad evidenza un documento non comune della buona ventura di Roberto, uomo che la fortuna sopra tutti predilesse, e ad inalzarlo e dargli lustro impiegò sempre a larga mano il favor suo. Una grande controversia dunque levatasi infra il papa18 della città di Roma (è questo un principato non inerme, cinto ovunque da truppe molte e valenti) ed Enrico re di Alemagna distolse i principi d’ambi gli stati dall’opporsi agli ingrandimenti di Roberto per la brama concepita da ognuno di essi di vederlo parteggiar seco; in ispecie il papa, essendogli più da vicino, con maggiore speranza e broglio studiavasi di guadagnare il Normanno alla sua causa.
XL. Qui prendo a narrare i motivi della prefata controversia. Il romano pontefice accusava Enrico di conferire non gratuitamente, come si volea, le chiese, ma di venderle per via di largizioni, e di promovere immeritevoli personaggi al sacerdozio ed ai vescovati. Il re alemanno di rimbecco incolpava il pontefice di avere illegittimamente usurpato la posseduta dignità, essendosi intruso nell’apostolico trono senza il suo consentimento. Nell’imputargli poi questo demerito il re, mosso da collera e posto in non cale ogni rispetto verso il capo della chiesa, minacciavalo con fortissime parole di balzarlo giù ignominiosamente dalla sede occupata, qualora egli di sua posta non l’abbandonasse. Gregorio udito l’oltraggioso messaggio volse tutto il suo sdegno contro i legati di Enrico apportatori degli ordini sovrani. Fattili pertanto spietatamente vergheggiare, tolta loro con forbici la chioma, e con rasoi schernevolmente la barba, li deturpò soprappiù con altra foggia di crudele e barbarissimo vituperio, schifo e brutto cotanto a dirsi che abborrisce il mio pudore, e la verecondia a femina ed a principessa convenevole dal profferirlo. Una così grave scelleraggine indegnissima non solo del pontefice, ma di chiunque si dichiara cristiano detesto unitamente all’animo di chi osò concepirla e mandarla ad effetto, e se ne volessi più distintamente parlare contaminerei la penna e la carta19. Mi fu uopo tuttavia di qui esporre in generale lo sconcissimo fatto non meno per comprovare infin dove la barbarica sfrenatezza giugnere possa, che per non mancare alla fedeltà ed ai doveri di cui è in obbligo la storia, alla quale non è permesso di tacere così gli straordinarj e prodigiosi eventi, come gli atti e le deliberazioni d’un mostruoso ardire, onde l’umana malizia siasi fatta per ventura esecutrice. E tale, a fe mia, operò un pontefice; oh costumi! Ch’è peggio ancora un sommo pontefice, l’universale vicario di Cristo nel mondo intero; questi sono i titoli che i suoi latini reputandoli di lui proprj gli danno, anche in ciò, di conformità ad ogni altra arroganza loro, mentendo. Conciossiachè dall’antica Roma trasportatosi lo scettro nella regale nostra città, e con esso il senato e tutte le onoranze e gli ordini dell’imperio, vennevi parimente a mancare la prima dignità del pontificato; senzachè dai precedenti nostri sovrani il primato della chiesa fu aggiudicato al trono constantinopolitano, ed il sinodo calcedonese, conformandosi alla prefata ordinanza loro, dichiarò essere la constantinopolitana sede a tutte le altre chiese superiore, ed a lei volersi ritenere soggette le diocesi e provincie dell’intero orbe cristiano20. Sembra parimente che Gregorio si desse tutta la premura onde far manifesto non doversi la superchieria praticata contro a’ legati riferire alle persone loro bensì a quella dello stesso re, e per ciò, a cumulo di tutte le crudeltà delle quali furono vittime que’ meschini, imaginò pel primo l’antedetto strano genere d’ingiuria a significare quanto stimasse poco e sprezzasse il re, cui mostrava, a foggia di semideo imperversando colla ingiuriosissima turpitudine verso quei legati, disdegnarlo qual babbione.
XLI. Il pontefice con questa sua gravissima disistima della regale persona essendosi tirato addosso una orribile guerra e paventando con l’unione di Enrico a Roberto, pur questi in allora poco affezionato al papa, di non aver mezzi sufficienti da opporre ad ambedue insieme, risolvè di preoccupare con pronta riconciliazione e come che si fosse il duca. Sapevole adunque dell’andata di Roberto a Salerno, partitosi egli stesso da Roma giugne a Benevento21, e da quivi spediti legati a visitarlo ne ottenne di venire entrambi ad un abboccamento; laonde uscito di là il pontefice colle sue truppe, e Roberto di Salerno, accompagnato anch’egli da gente in armi, procedettero entrambi ad incontrarsi, e pervenuto il codazzo loro a fronte i principi gli comandarono di far alto; proceduti così da soli a colloquio strinsero confederazione, ratificandola con vicendevole giuramento. Questo fu poi a un di presso il tenore degli accordi: il papa conferirà nome e dignità regali al duca, e gli fornirà, occorrendo, truppe contro i Romani d’oriente. Roberto presterà il suo aiuto al pontefice, quando e dove sia per essere da lui richiesto. Tanto costoro sacramentarono con mal disposto animo ed intenzione di non attenervisi. Imperciocchè il papa non aveavi prestato di sua spontanea volontà consenso, ma costretto da bisogno estremo, sospinto vo’ dire dalla tema d’un imminente guerra provocatagli da Enrico. Roberto poi, gettati gli occhi della cupidigia sopra le constantinopolitane faccende e qual fiero cinghiale aguzzati i denti e l’ira contro di noi, non reputava infruttuosa la pace colla santa Sede onde non averne indugj e disturbi da tergo allorchè si travaglierebbe a compiere il divisato proposito; non era impertanto sua intenzione di comperarla a così alto prezzo da contrarre l’obbligo di mescolarsi per essa nelle papali dissensioni con Enrico, e destinare i proprj militi apprestati ad accrescere la sua dignità alla difesa dell’altrui. Fu dunque appena con parole giurato dai barbari per addivenire ben presto spergiuri22.
XLII. Terminato il colloquio Roberto si restituì in Salerno, ed il quistionabile papa (non potendolo altrimenti nomare al rammentarmi l’atroce e disumana ingiuria con che deturpò i legati) si apparecchiava colla grazia spirituale e coll’evangelica pace alla guerra, pacifico e discepolo del pacifico movendo ed eccitando la discordia civile. Imperciocchè fatti a sè venire tostamente i Sassoni e Lantulfo e Welco lor condottieri induceli con molte promesse, unitavi quella di crearli re di tutto l’occidente, a compiere i suoi disegni23. Cotanto avea egli pronta la destra a consacrare i re, sordo alle ammonizioni di Paolo, il quale dice non doversi così spacciatamente imporre le mani a nessuno, che di botto accordò la ducale benda a Roberto, e la corona ai Sassoni. Attelatisi poscia da entrambi, da Enrico e dal papa, gli eserciti di fronte, e datosi qua e là nelle trombe ne surse grave ed ostinata battaglia, le due fazioni di pari conformità lanciottandosi quando vicine, e quando lontane avventandosi quadrella con tale veemenza che in breve ora tutta la sottoposta pianura fu convertita in mare di sangue, i superstiti dalla strage bagnati di sudore e tutti sanguinosi proseguendo la pugna. Taluni di essi parimente, incespicando ne’ cadaveri, caduti e sommersi in un fiume di sangue, rimaneansi affogati, mercè la grande inondazione diffusasi per l’amplissima vastità del campo. L’esito poi della battaglia si librò, con eguali speranze dall’una e dall’altra parte, infino a che Lantulfo, duce dei Sassoni, fu il condottiero della sua fazione; ma spento costui da mortale ferita, la pontificia falange, dato di volta, pigliò a fuggire, esponendosi a gravissima strage per opera de’ suoi persecutori, ov’Enrico avessevi aderito. Ma questi, sebben persuaso che morto il duce agevole e sicuro addiverrebbegli l’incalzamento, e con esso la totale distruzione de’ fuggitivi, rattenne impertanto la foga de’ suoi, e, ristoratili, con breve riposo, de’ passati disagi, ritto condusseli ad assediare Roma. Spaventato il pontefice dal sovrastante pericolo manda chiedendo a Roberto aiuti giusta gli accordi, ed arrivano eziandio in pari tempo al duca i legati di Enrico pur eglino chiedenti a nome del re loro truppe ausiliarie per l’espugnazione dell’antica Roma. Se non che il Normanno schernendo ambedue rispose al re in altra guisa che per iscritto, ed al pontefice colla seguente lettera.
AL SOMMO PONTEFICE E SIGNOR MIO
ROBERTO PER LA DIVINA GRAZIA DUCA.
Udendoti esposto ad assalimento nemico molto ho indugiato pria d’accordar fede alla voce, onninamente persuaso che niuno osato avrebbe d'insorgerti contro. E chi mai, salvo un demente, può guerreggiare un padre, un tale e cotanto padre? Ti fo poi noto che apprestomi io stesso ad una malagevolissima guerra contro ben agguerrita gente, vo’ dire i Romani24, i quali empierono le terre ed i mari tutti de’ loro trofei. Per rispetto alle cose tue dichiaromi coll’intimo sentimento in obbligo di mantenerti la promessa, e lo farò giunto che siane il tempo. Gli uni de’ legati con questa lettera e gli altri con non dissimile furberia ebbero da lui commiato. Qui non dobbiamo passare con silenzio quanto egli operò nella Longobardia prima di avviarsi coll’esercito ad Aulone25, uomo insoffribile per le altre tutte barbarie di sua vita, e per avere in allora imitato eziandio la crudeltà di Erode feroce persecutore de’ fanciulli; e per fermo, alla prima leva di truppe volendo egli aggiungere nuovi supplimenti di cerne, non la perdonò ad età comunque nel compierli, dall’intiera Longobardia e dall’Apulia26 raccogliendo senza distinzione sotto le sue bandiere tanto i congedati, quanto gli’immaturi per diffalta d’anni. Fu in vero spettacolo miserando il vedere deboli fanciulletti e vecchierelli spossati, cui neppure in sogno eransi giammai appresentate le armi, coperti ad un tratto della pesante lorica, impediti dallo scudo, per nulla guisa addestrati al tendere aggiustatamente ed allentare l'arco, e sul punto di mettersi in via cadenti per debolezza bocconi. Così grande scelleraggine colmò la Longobardia di querimonie e lamenti, gli uomini da per tutto e le donne compassionando sotto i differenti proprj rapporti gli oggetti di loro affezione, mentre la moglie vedeasi di forza strappare il giubilato consorte per ricondurlo sotto le bandiere, la madre scritto ne’ ruoli l’inesperto fanciullo, e la sirocchia il fratello o giovinetto ancora, o iniziato in altre occupazioni. Tal furore poi del tiranno superava ben anche l’erodiano, conciossiachè il re, come narrammo, accontentossi d’inveire contro de’ soli fanciulli, ma la costui demenza si scatenò contro ogni età. Di mezzo tuttavia all’invidia e al duolo è, ritto inoltrando verso il suo proposito (la bramosia di quell’animo incontinente facendosi d’ogni campo strada, senza darsi pensiero delle altrui sciagure e della pubblica calamità nel recare al divisato fine qualunque intraprendimento), raccoglieva niente meno che ogni giorno ed istruiva supplimenti di cerne in Salerno, prima di passare a Idrunte27, ove mandato avea innanzi numerose truppe coll’ordine di rimanervi infino alla sua venuta, non potendole raggiungere che quando avesse posto in assetto gli affari de’ Longobardi, ed accomiatato le ambascerie in attesa di risposte.
XLIII. I suoi riguardi poi verso il papa furono soltanto di comandare al figlio Rogerio, preposto al governo di tutta l’Apulia, ed al fratello Boritila che se la romana Sede richiedesseli di aiuto contro Enrico prontissimamente andrebbero colà e del miglior modo presterebbonle ogni soccorso. Avea inoltre fatto precedere il minore de’ suoi figli Baimondo, in tutto e per tutto simigliantissimo al padre, vo’ dire per coraggio, ardimento, robustezza e sue naturali forme compitissima impronta dell’indole di Roberto, ad assalire i nostri confini, e scorrazzare in sella e mettere a sacco i luoghi all’intorno d’Aulone. E quegli a mo’ di fulmine con precipitate marce, insuperabile impeto ed immensamente strepitose minacce occupò i Canini e Gerico28 e tutto l’Aulone, mettendo lungo la via ogni luogo a ferro e fuoco, in guisa che veracemente dir poteasi l’importunissimo fumo nunzio del futuro incendio, e l’anticipato preludio del grande assalimento, preludio non molto più tollerabile dell’assalimento stesso. E ben acconciamente paragonerebbonsi il figlio ed il padre al bruco ed alla locusta, poichè siccome gli avanzi del primo vengono divorati dall’altra, così quanto era sfuggito alla voracità di Baimondo fu in seguito ingoiato da Roberto.
XLIV. Ma prima di mandare costui ad Aulone è uopo tener discorso del suo operato sull’opposto continente. Egli adunque partitosi da Salerno pervenne in Idrunte, ove si rimase pochi dì in aspettazione della moglie Gaita (costei, partecipe della spedizione del consorte, avea fama di essere alcun che di terribile in guerra quando sotto del sajo occultava la stola29. Giunta alla per fine ed abbracciatala, e’ troncò ogni indugio, e salpando coll’intero esercito a golfo lanciato si diresse a Brundusio30, il più comodo e sicuro porto di tutta la Japigia31. Arrivatovi prontamente, vi stette infino a tanto che ebbe riunito l’intero esercito e tutte le navi da carico e lunghe, opportune alle guerresche imprese, facendo mostra di voler valicare le terre ligie del romano impero. Del resto prima di abbandonare Salerno avea spedito all’imperatore Botaniate a Costantinopoli, ed occupante il trono, di forza tolto a Michele Duca, nella qualità di ambasciadore altro de’ grandi a dimora seco ed avente nome Raul, per querelarsi di avere strappato dallo sposo la propria figlia, data in matrimonio, come narrammo, a Costantino, e tolto a costui lo scettro, aquistato avendone la partecipazione; il perchè da cosiffatte ingiurie provocato divisava prenderne le vendette. Mandato avea inoltre varj doni con lettera e con l’offerta della sua amicizia al gran Domestico, in allora duce degli occidentali eserciti, vo’ dire a mio padre Alessio, ed in attesa del risultamento vivea di piè fermo in Brundusio. Ma quando, non arrivate pur ancora tutte le truppe e gittate di già molte navi al mare, fu di ritorno da Bizanzio Raul senza verbo di risposta intorno alla sua mandata, il barbaro divampò vie più di sdegno, offeso da tale dispregio verso la sua persona.
XLV. L’impensato a simile parlare di Raul tendente con molta energia a dissuadere la romana guerra, fu nuovo fomite all’irritamento di lui, mercecchè dichiarava innanzi tutto con esso doversi ritenere un plagiario impostore il monaco appresentatosi col nome di Michele Duca, ed artefice e cagione di così grave imprendimento. Il legato poi aggiugneva fede al suo dire asserendo aver egli medesimo veduto in Constantinopoli Michele con bruna veste indosso e dimorante in un monistero osservatolo di più tranquillamente con occhio indagatore averlo riconosciuto per quel desso testè balzato giù dal posseduto trono. Passava quindi a narrare per udita i cambiamenti occorsi durante il suo viaggio di ritorno, vogliam dire, essersi mio padre, cacciatone Botaniate, impossessato dell’impero (su di che terremo in appresso discorso), e dall’antecedente umile condizione aver sollevato Costantino figlio di Michele Duca, il più illustre personaggio di quanti ne rimira il sole, ritornandogli le regali insegne e la consorteria della sovranità. Laonde Raul concludeva non essere in verun conto giusto il guerreggiare Alessio per gli addotti motivi da Roberto, all’uopo di vendicarsi, intendomi, dell’ingiuria fattagli da Botaniate, addivenuto, a non dubitarne, colpevole coll’impedire le nozze di Elena e rimuovere dal trono Costantino, azioni che non sapremmo, per verità, come possansi imputare al Comneno, il quale anzi pigliò le vendette dell’offeso, e gli restituì il tolto. Se dunque manchevol sia giusta causa di guerra, poco si dovrà attendere e sperare dalle navi, dalle armi, dalla soldatesca e da ogni altro apprestamento per essa. Tale fu il ragionamento di Raul, e Roberto n’ebbe tanto sdegno che si contenne appena dall’andare in furore e porgli le mani addosso. Aggiuntoglisi di più il sospetto non egli cooperato avesse alla fuga del germano (poichè questi, appellato Rogerio, erasi di moto proprio recato presso de’ Costantinopolitani per annunziar loro il divisamento del tiranno ed il guerresco apparato), la ruggine della doppia offesa, doppiatasi pur ella ad un tratto, spinselo, irritabilissimo oltre ogni limite, poco meno che a minacciarlo di morte, ma quegli, accortosi del sovrastante suo pericolo, riparò con pronta fuga presso Baimondo, conveniente asilo in allora.
XLVI. È sopra le umane forze poi il formarsi un’idea della veementissima ira in cui trascorse il finto Michele, il cenobita Rettore, al vedere smascherato dalla testimonianza di Raul quel suo impudentissimo plagio, mercè di che non cessava di aumentare potentissimamente in Roberto, versando oglio sulla fiamma, con artificiosissime querimonie il furore. Animato inoltre da odio anche maggiore contro il fuggitivo Rogerio, iva con alteratissima voce, battendosi ad un tempo l’anca, addimandando istantissimamente e per unica grazia a Roberto che venissegli rimesso, non appena tornato ad assidersi in trono, Rogerio, per farlo appendere di colta su d’elevato patibolo nel mezzo di Costantinopoli, e condannarlo a penosissima morte, il che non attenendo spontaneamente offrivasi a patire dal Nume ogni maniera di traversie. Ora io mentre seriamente narro e scrivo tali cose, accorgomi di comporre al riso le mie labbra, e di vero non è a dirsi facetissima la più che insulsa costanza di questi due leggierissimi capi nel vicendevolmente illudersi? conciossiachè Roberto, conscio appieno del finale destino cui soggiacerebbe il menzognero cenobita addivenuto scenico imperatore, trattavalo non di meno come se stato fosse il vero Augusto suo consuocero, usavagli ambiziosamente ogni riguardo, e presentavalo frodolentemente alle città che macchinava togliere all’impero qual legittimo loro sovrano, valendosene di zimbello a guadagnarne gli animi per quindi, non appena conseguito il suo intento, discacciarlo da sè con ischernimento, a simiglianza dei cacciatori o pescatori, i quali tradito che abbiano la preda gettan via immediatamente l’esca posta sugli ami loro. Ma per l’opposto quello scelleratissimo commediante, avvegnachè sapevole di sua persona, della frode e dell’umile primitivo suo stato, farneticava pur tuttavia quanto era mestieri per sognare la vana speranza di assidersi sopra il trono costantinopolitano; come che Roberto riuscendo vincitore, a preferenza d’ogni altro, dopo cotanto dispendio e sì grande fatica ritener non volesse per sè stesso il diadema. Se d’altra parte Rettore, datosi a pensieri più analoghi alla sua condizione, lusingato si fosse di ottenere, in premio della sua comica parte, unicamente qualche onoranza, o danaro in molta copia, ben vivea nell’inganno per l’avarizia del suo compratore, il quale avea già stabilito, appena giunta la farsa al suo termine, di farlo spogliare dello scenico addobbo e rinchiudere negli ergastoli.
XLVII. Ma sia tregua alle risa incidentemente sopra di ciò fatte, e torniamo alle geste di Roberto, il quale, riunite in Brindisi navi e truppe (cenciquanta sommando le prime e trentamila gli armati, compartiti questi in numero di dugento con armi e cavalli su di ciascun vascello), risolvè di sarpare con tutto l’apprestamento dirigendosi alla città d’Epidanno, più comunemente in ogni appellata Dirrachio. Se non che avea in pria stabilito di coudurre a golfo lanciato le navi da Idrunte a Nicopoli32 ed occupare innanzi tratto Naupatto33 co’ luoghi adiacenti, compresevi le rocche. Ma ripensando poscia allargarsi maggiormente il mare infra Idrunte e Nicopoli che non infra Brundusio e Dirrachio, diede a questo tragitto la preferenza siccome più breve e men pericoloso, non richiedendosi a valicarlo maggior tempo d’una giornata, quantunque vernile, come appunto era il caso, appropinquandosi il sole ai circoli australi ed al Capricorno. Per non esporre adunque così grande armata di mare nella corrente stagione ai sinistri d’un viaggio notturno, dato l’ordine di costeggiare la piaggia da ldrunte a Brindisi, deliberò prender via per l’angusto stretto dell’Adriatico. Nè fu più di parere che il figlio Rogerio si rimanesse in Italia giusta il primo suo divisamento, creato avendolo a tal uopo principe dell’Apulia, ma lo volle, nè saprei qui addurre il motivo e la ragione del cambiato proposito, a compagno nella guerra. Lungo poi la navigazione per giugnere a Dirrachio occupa e presidia Corifo, munitissima città, ed altre nostre rocche; dopo di che, ricevuti dalla Lombardia e dall’Apulia ostaggi e raccolte le pecuniali imposte da tutto il proprio dominio, rivolge ogni suo desiderio e pensiero ad afferrare prontissimamente a Dirrachio.
XLVIII. Di quel tempo l’imperatore Botaniate avea posto l’intero Illirico sotto il governo di Giorgio Monomacato, il quale da prima saper non volle dell’offertagli presidenza; ma due servi, Borilo e Germano, di barbarica scitica schiatta, famigliari dell’imperatore, rimirandolo con invidioso occhio e tutti nel perderlo colle incessanti loro maldicenze presso il sovrano, di modo che questi tal fiata ebbe ad appalesare alla consorte Maria i suoi timori non Monomacato fosse nemico dell’impero, alla fin fine colle ribalderie loro lo indussero, conosciuto il pericolo mediante la strettissima sua amicizia con Giovanni Alano, ad ambire quel posto medesimo che in addietro avea ricusato, ed a conseguirlo molto giovogli l’opera degli stessi suoi detrattori, paghi a bastanza di averlo rimosso dalla corte. Accomiatatosi pertanto dal sovrano e ricevutine per iscritto i comandamenti, sollecitandone Borilo e Germano la partenza nel seguente giorno, da Bisanzio si pose in cammino per Epidanno e l’Illirico.
XLIX. Lungo il viaggio gli si fa incontro per sorte il gran domestico mio padre al luogo detto la Fonte, ove sorge un tempio, celebratissimo infra gli altri costantinopolitani, edificato in onore della Vergine Madre di Dio e mia Signora. Quivi Monomacato accostatoglisi amichevolmente lo rende consapevole che per cagion di lui sotto onorifica sembianza era mandato in esilio. E che tale si fosse lo dimostrava esponendo che i servi, mercè le cui gherminelle giudicato avea necessaria la sua partenza, erano stati indotti a portargli astio, più che da ogni altra cagione, dal saperlo fedelissimo al gran domestico; accesi pertanto di sdegno questi Sciti, Borilo e Germano, aver contro di lui rivolto la corrente del furor loro. In causa di che dover egli da quinci in poi abbandonare la dolcissima vista della patria, e discacciato dalla città regale vivere in paese straniero, celando sotto l’onesto nome di prefettura la pena dell’esilio. Nel dolersi poi con prolissa narrazione delle sue traversie, e nel riferire più distintamente le calunnie de’ servi e tutti gli altri argomenti e motivi delle sue calamitadi, trovò in Alessio, giusta i proprj desiderj, un efficacissimo consolatore, l’uomo d’una più che intrinseca amicizia e di poter sommo, il quale assicurollo, stando per dare fine al discorso, che il Nume sarebbesi fatto vendicatore de’ suoi mali; e chiestogli di non smenticare la reciproca loro amicizia entrò nella città, e l’altro diedesi a proseguire l’intrapreso viaggio.
L. Questi poscia al metter piede in Dirrachio, udito da quinci l’apprestamento di Roberto e da quindi il prospero evento di Alessio, pervenuto di già all’impero, cominciò destramente a provvedere alle occorrenze sue, ed in ispecie si determinò ad osservare perfetta neutralità infra ambedue, non mancando tuttavia l’esterna sua ripugnanza al parteggiare d’indizj appalesanti un animo intento a fantasticare più occulte cose. Di fatti avendogli scritto Alessio come, addivenuto scopo di grandi vessazioni e pericolando eziandio soggiacere ad un pronto accecamento, si fosse veduto costretto ad insorgere contro i tiranni, e che a sostegno di cotanto illustre e necessario imprendimento implorava pieno di speranza la cooperazione dell’amico da lunga data, col procacciargli ovunque potesse danaro in moltissima copia e tosto spedirglielo, nulla riputando più utile per condurre a buon fine l’opera difficilissima cui erasi cimentato, quegli di rimando colmollo di sovrabbondanti officiosità senz’ajutarlo onninamente di pecunia. Laonde con affettuosissime parole accolta dai legati la lettera, altra loro ne consegnò per Alessio, ove ampollosamente protestava di aver mai sempre fin qui serbato fede alla diuturna scambievole amicizia, e con ogni sforzo procurerebbe di eternare questa sua lode. Intorno poi al chiestogli danaro avrebbe per verità voluto inviargliene quant’e’ ne potesse bramare, se non che essergli di ostacolo per ora un motivo, della cui rettitudine confidava non incontrare opposizione da lui. Conciossiachè trovandosi egli in obbligo di obbedire a chi avealo posto colà, stretto da giuramento verso la persona di Botaniate, eragli uopo custodire inviolata la santità di tale atto, in virtù non solo del professato culto, ma eziandio per rispetto alla pubblica estimazione, se pur non vogliasi addivenire sfrenatamente prodighi della propria salvezza e buona fama. Andarvi pertanto dell’interesse di lui medesimo, asceso già quasi di volo all’apice del comando, che venga comprovato non doversi per riguardo comunque violare la santità di tanto giuro. Sapere d’altronde benissimo, che una volta scoperto di mal ferma fede, scapiterebbe d’arcana estimazione appo l’individuo stesso la cui mercè si rendesse spergiuro. Del resto poi in tutto il rimanente non indugerebbe di fargli servigio. Che se la divina providenza facilitasse questa grande impresa, come da prima e’ sperimentato lo avea fedelissimo nell’amicizia, così alla fine delle fini lo troverebbe più che leale nel vassallaggio. Tale Monomacato si espresse con mio padre, dimostrando coll’adulare entrambi, Botaniate ed Alessio, in simigliante guisa, e col non accostarsi nè all’uno, nè all’altro che non sapea da qual parte piegare. Nè ciò è il tutto, essendosi di ben maggior fellonia macchiato con Roberto, al quale promesso avea in chiarissimi termini la sua ribellione. È di verità cosiffatta la genia e l’indole dei tristissimi e volubili animi, segnaci con leggierezza somma della fortuna, e cambianti di colore a norma della varianza delle cose e de’ tempi ne’ quali s'avvengono; gente appieno disutile al pubblico bene, e solo instancabile nel tener dietro con ardore alle proprie speranze ed agiatezze; se non che di frequente ne falliscono il colpo, quantunque presuntuosi a segno che credonsi a bastanza cauti e scaltriti.
LI. Ma ito vagando licenziosamente il discorso oltre i limiti d’una storica narrazione, è mestieri, tirate quasi diremmo le redini, ricondurvelo entro. Roberto già da prima divampante in cuor suo d’incredibile bramosia d’occupare Dirrachio, vie più gagliardo ne risentì l’ardore dopo le promesse di Monomacato; cosicchè lo vedevi intollerabile d’ogni ritardo nell’eseguire il tragitto, e indefesso nel sollecitare ora i marinai, ora le truppe a condurre prontamente a termine la navigazione. Se non che Monomacato fu d’avviso di non riposare per intiero sopra gli accordi fatti seco lui, ma di apprestarsi eziandio, per ogni evento, altro scampo. Laonde si unì, col mezzo di lettere e doni, a Bodino e Michele esarchi34 del Dalmati, procurandosi disserate, a mo’ di dire, queste porte dagli omeri, nelle quali avervi rifugio se le sue speranze in Roberto o in Alessio riuscissero a mal fine. Ma di ciò basti, essendo ormai tempo di esporre il modo, le circostanze e le cagioni che innalzarono Alessio all'imperio. Tanto di verità proposimi eseguire nella mia istoria, non avendo giammai avuto intenzione di tramandare ai futuri la sua vita privata. Mi accingo dunque a riferirne le geste, nè mi tacerò, la mere è della paternità sua, ove in alcuna di esse abbia egli errato, ben accorta di non lasciarmi trascorrere da sentimento pietoso a disonorare ed offendere la storica verità. Faccia pertanto breve pausa Roberto laddove lo abbiamo condotto, e rimessa ad altro libro la particolare narrazione dell’avvenuta guerra, ci occuperemo ora a descrivere il coronamento dei mio genitore.
- ↑ Era Admeto re di Tessaglia e prole di Fereo. I poeti fingono ch’egli fosse dalla morte immune, sempre che avessevi alcuno disposto a morire in sua vece. Ora giunto per malattia agli estremi, Alceste sua consorte e figliuola di Pelia offrì in cambio di lui la propria vita. Se non che pervenuto Ercole in Tessaglia nel giorno medesimo in cui ella venne sagrificata, Admeto lo ricevette ed alloggiò cortesissimamente, ed il suo ospite per gratitudine intraprese di combattere colla morte. Disceso a tal uopo nell’inferno ricondussene Alceste, a malincorpo di Plutone, e la restituì piena di vita al re. ((Euripide, Nat. Com.).
- ↑ Pallio. Sacro arnese, surrogante il soprumerale del sommo sacerdote dell’antica legge (Durando, Razionale, lib.III, cap. 17), dal pontefice accordato ai patriarchi, ai metropolitani ed agli arcivescovi. È intessuto di candida lana d’agnello con alcune Croci ora nere, in altri tempi rosse. Indica poi la pienezza dell’ordine sacerdotale, e misticamente dinota la pecorella smarrita che il buon pastore, trovatala, pone sopra le sue spalle (Isidoro, Pelus., lib. I, ep. 136).
- ↑ Ora Durazzo, città in Albania.
- ↑ Così appellavasi il prefetto de’ militi pretoriani.
- ↑ Corpo di militi destinato alla difesa dell’imperatore del palazzo, composto di soli forestieri (Persiani, Russi, Franchi, Angli ec.) Il comandante loro nomavasi Eteriarca.
- ↑ Così detta dal re Epidanno, che la fabbricò; ora è città dell’Albania, e nomasi Durazzo.
- ↑ Quarto figliuolo di Titano e della Terra, famoso gigante, il quale ebbe l’ardimento di scacciare lo stesso Giove dal Cielo; ma questi sdegnatosi con un fulmine il percosse, e per abbassarne la superbia misegli sopra il corpo il Mongibello di Sicilia, come narra Ovidio, o l’isola d’Ischia, come Virgilio scrivea.
- ↑ Briareo. Por egli gigante, il quale avea, secondo la favola, cento braccia e cinquanta busti.
- ↑ Ρω (R). Lettera decima settima dell'alfabeto greco.
- ↑ Ἒρεβοδιφῶν.
- ↑ Ora Dimizana, monte, fiume e castello in Arcadia, ove da Ercole, prole di Giove ed Alcmena, fu domato il cinghiale, e portato su gli omeri vivo ad Adrasto.
- ↑ Titolo di sommo pregio nella constantinopolitana reggia, il quale soleasi conferire ai più stretti di sangue coll’imperatore, e significa venerando principe, o reverenda potestà. L’insignito di esso non di meno era un grado inferiore al Despota, altro titolo di cui venivano decorati i figli stessi dell’imperatore. Quindi era, secondo il Butingero, la terza dignità dell’impero constantinopolitano: Imperatore, Despota, Sebasto (Σεβαστος, veneratione dignus, augustus).
- ↑ Testo: Γελιέλμος Geglielmo.
- ↑ Città in Calabria, di ottima aria, ond’è venuto il proverbio: Crotone salubrius per significare una cosa molto salutevole (R. di Napoli).
- ↑ Città nel principato di Citra (R. di Napoli).
- ↑ Regno di Napoli, Melfi ora capitale della Basilicata.
- ↑ Città in Ispagna, edificata da Amilcare cartaginese per cognome Barca.
- ↑ Gregorio settimo inalzato al pontificato l’anno 1073, e morto nel 1085.
- ↑ Il lettore stia bene in guardia dall’accordar fede alle cose narrate con tutto lo scismatico livore contro la pontificia romana Sede, e più e più volte da scrittori autorevolissimi notate di falsità. Il vituperoso trattamento di cui fingonsi vittime i legati dell’imperatore Enrico non è che una menzogna dei Greci scismatici pieni d’odio contro il primato del pontefice romano ed il celibato della chiesa latina. V. Davide Eschelio nelle sue note sopra questo luogo. Si aggiunge inoltre che nè il Brennone, nè il Venerico da Vercelli o Valtramo di Naumburgo, nemicissimi di questo pontefice (i quali certamente non sarebbonsi rattenuti dal metterlo in diffamazione col propalare l’orrendo misfatto) se ne mostrano del tutto ignari. Il qui detto valga eziandio per altre consimili fandonie inserite nella presente istoria contro il papa ed il re.
- ↑ Ecco il Canone ventottesimo del citato Sinodo - Urbem, quæ et imperio et senatu honorata sit, et æqualibus cum antiquissima regina Roma privilegiis fruatur, etiam in rebus ecclesiasticis æque ac illam extolli ac magni fieri, secundam post illam existentem etc. Ed a questo Canone i romani legati si opposero dicendo pregiudicarsi con esso il patriarca Alessandrino, consideratosi ognora il primo dopo il romano pontefice. È mestieri dunque supporre che Anna Comnena non lo abbia letto, e che di pessima fede sieno stati coloro da cui vennele riferito in cotanto opposta guisa.
- ↑ Regno di Napoli, nel principato ulteriore.
- ↑ Vera petulanza scismatica, poichè Gregorio VII per la santità del sacerdozio, l’onorata sua vita ed il candore de’ suoi costumi fu da tutti reputato degno sommamente di venerazione.
- ↑ È falso che da Gregorio VII venissero eccitati i Sassoni a guerreggiare Enrico.
- ↑ Dell’orientale impero.
- ↑ Tratto di paese nella Palestina in Soria.
- ↑ Ora Puglia, provincia del regno di Napoli.
- ↑ Otranto, città nel regno di Napoli alle spiagge del mare Adriatico.
- ↑ Popoli e città nella Palestina in Soria.
- ↑ Sajo, veste militare de’ romani di lana grossa e pelosa, corta sino alle natiche. Stola, abito lungo infino a terra proprio delle donne romane.
- ↑ Ora Brindisi, regno di Napoli, città in terra d’Otranto.
- ↑ Terra d’Otranto, e quella parte di Capitanata dov'è il monte Gargano.
- ↑ Turchia, città dell’Armenia minore.
- ↑ Ora Lepanto, città in Acaia.
- ↑ Officiali, o capi, o principali nell’uno o nell’altro foro, il patriarca costantinopolitano avendo anch’egli il proprio esarca, il quale eseguiva le funzioni di suo delegato, riscuoteva le decime e gli altri introiti di quella chiesa, e negli atti de’ concilj apponeva il suo nome dopo il patriarca e prima del metropolitano. Avea parimente sotto di sè tre altri esarchi, ed erano: l’efesino per tutta l’Asia minore, il cappadoce per tutto il Ponto e l’eracleo per tutta la Tracia. L’esarca della provincia era il metropolitano o l’arcivescovo. Nel foro secolare poi l’esarca dell’Italia era il vicario imperiale. Esarca eziandio nomavasi il governatore d’una sesta parte dell’impero, come tetrarca quello d’una quarta parte di esso.