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Anna Comnena - Alessiade (tomo primo) (1148)
Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1846)
Libro Terzo
Libro Secondo Libro Quarto

DI

ANNA COMNENA PORFIROGENITA

CESAREA ALESSIADE



LIBRO TERZO


ARGOMENTO.

ALESSIO dà sesto alle imperiali faccende. - Accorda pace ai Turchi.- Approntasi a guerreggiare Roberto.


SOMMARIO.

BOTANIATE veste l'abito monacale, e ne professa la regola. - Fiducia e motivo che indussero Maria, sua consorte, ad attendere nella reggia i Comneni. - Sospetti contro di essa. - Lodamento di suo figlio Costantino duca. - Irene acclamata imperatrice per opera di Giorgio Paleologo. - Istanze di Giovanni Cesare al patriarca Cosma per indurre Maria ad abbandonare la reggia. - Fattezze di Maria. - Digres- digressione per esporre come avvenissero le sue nozze con Botaniate, delle quali fu mediatore Giovanni Cesare. - Alessio incoronato dal patriarca Cosma. - Quando fosse incolto da morte Giovanni Xifilino predecessore di Cosma. - Gratitudine di Eustrazio Garida verso la madre de’ Comneni. - Irene, consorte di Alessio, incoronata dal patriarca Cosma. - Descrizione di Alessio. - Prosapia, età e forme d’Irene. - Descrizione d’Isaacio e suo bellico valore; creato da Alessio Sebastocratore. - Niceforo Melisseno dichiarato per convenzione Cesare. - Corona imperiale, ed in che distinta da quelle del Sebastocratore e dei Cesari. - Alessio inalza Taronite, consorte di sua germana, alle onoranze di Protosebasto, Protovestiario, e poscia di Panipersebasto. - Conferisce ai fratelli Adriano e Niceforo, all’uno la dignità di Protosebasto, all’altro quella di Drungario dell’armata di mare. - Perchè nuove dignità e nuove denominazioni venissero da Alessio introdotte. - Regno, arte delle arti. - Cosma rinuncia il patriarcato. - Succedegli l’eunuco Eustrazio Garida. - Costantino Duca ottiene novamente i purpurei calzari. - Maria esce della reggia. - Alessio, presente il patriarca ed il sinodo, si confessa umilmente colpevole di aver preso e dato il guasto alla città, ed in salutare penitenza sommettesi a un digiuno di quaranta giorni, ed a dormire altrettante notti per terra, eseguendo insieme co’ suoi il tutto. - Prepone la madre, inclinante ad un religioso ritiro, all’amministrazione delle faccende imperiali, come dall’aurea Bolla qui riportata. - Prudenza, religione, altre virtudi e costumatissima vita di lei. - In quale circostanza venisse ordinato dall’imperatore Isaacio Comneno l’inalzamento del tempio di S. Tecla. - Miserabile condizione dell’impero, da una banda minacciato da Roberto, dai Turchi dall’altra, coll’erario vuoto e l’esercito in pessimo stato. - Lettera di Alessio ai prefetti delle orientali provincie. - Spedizione di Giorgio Paleologo a Dirrachio per munirlo contro Roberto. - Lettere di Alessio ai prefetti delle città illiriche, al romano pontefice, all’arcivescovo di Capua, ai principi, ai duchi delle Gallie, e al duca longobardo, animandoli tutti con promesse e doni ad opporsi a Roberto. - Lettera imperiale, qui riprodotta, ad Enrico re di Alemagna. - Nicea, regia città di Solimano monarca de’ Turchi. - Alessio raffrena le costoro scorribande guastanti il paese al Bosporo, o Damali, ed espulsi dalle marittime città li costringe a domandare la pace, che vien loro accordata per tema di Roberto. - Richiama, inviatagli aurea Bolla in pegno di sicurezza, Monomacato, da Dirrachio fuggiasco nell’Illirico. - Roberto assale Dirrachio, non ostante lo scemamento di sue truppe in causa di orribile tempesta e naufragio. - Origine di questa città nomata in altri tempi Epidanno.

ALESSIADE TERZA.


Principio della sovranità di Alessio Comneno.


1. ICOMNENI occupata intrattanto la reggia mandano tosto Michele, consorte d’una loro nipote e creato poi logoteta degli Archivj, a Botaniate. Partitosi costui in compagnia del prefetto della città di nome Radeno, fa entrare l’imperatore in una lieve navicella, e seco il conduce al monastero di Peribletta, ove giunti, i due messi pongono ogni studio nel persuaderlo a vestire l’abito monacale. Se non che rifiutandovisi egli pel momento, ed e’ temendo in così malagevoli circostanze trame di nuovi scombugli dalla non ancora vinta fazione di que’ servi, e dai comateni1, pur essi tuttavia fedeli a Botaniate, insistettero con vie più di calore nel persuadergliene, e pervennero da ultimo a piegarlo di maniera, che nello stesso giorno egli ebbe rasa la chioma e le angeliche vesti indosso. Quanto mai la fortuna si fa scherno de’ mortali, innalzandoli tal fiata dalla polvere per ornarli, quasi propizio Nume, di purpurei calzari e di corona, e quindi, loro travolgendo l’occhio, ricoprirli di bruna e cenciosa veste, come fu il caso di Botaniate, il quale rispondea a tale de’ suoi famigliari, fattosi a


domandargli di qual animo comportasse il grave suo cambiamento, dicendo: recargli molestia il disuso delle carni e poco disagio le rimanenti osservanze.

II. Maria Augusta, portandomi il discorso a lei, col figlio Costantino, avuto da Michele Duca predecessore di Botaniate, continuava sua dimora nella reggia tutta affannosa, il dirò colle parole del poeta2, per Menelao dal biondo crine, fidando pienamente, ben lontana da calunnia comunque, nella parentela co’ due Comneni, suocera dell’uno e madre per adozione dell’altro, come abbiamo prima d’ora narrato. Mi è noto impertanto che ebbevi oziosi, invidi e maldicenti spiriti, i quali, non contenti di offenderla col pensiero, divolgarono voci poco degne di lei, quasi desiderasse, confidando nel fior dell’età e nell’avvenenza sua, fare esperimento della presenza dei giovani vittoriosi, di natura non alteri o difficili ad accostare e placare. Cose a mio giudizio non vere, nè simiglianti al vero, ferma nel ritenere unico motivo della sua protratta dimora nel palazzo, nata in estero paese e lontana da tutti i suoi parenti e fidi amici, essere stato il procacciarsi qualche mezzo di guarentigia presso ai vincitori, ed il non partirsi di là in fretta, imprudentemente e con gravissimo pericolo di Costantino, senza riportare in prima dai Comneni idonea mallevaria della propria salvezza, e dell’orrevole condizione del figlio, contro tutte le contingenze solite compagne di si gravi sconvolgimenti. Materno zelo per verità ben giusto verso un fanciullo di sorprendente avvenentezza e giocondità (mi si condoni, cadendovi il discorso, qualche lode a pro de’ miei), di anni sette, e così tanto aggraziato vuoi nel parlare, vuoi ne’ leggiadri movimenti delle sue membra, quando attendeva ai varj giuochi proprj dell’età, che non aveavi, a giudizio degli spettatori, chi lo pareggiasse. Bionda erane la chioma, candida qual latte la pelle e cospersa bellamente di vivace rosseggiante colore, simile invero a rosa nel primo spuntar dalla boccia. Occhi non bianchi, ma da sparviere, scintillanti, ciò è, di sotto alle ciglia, e come da piccolo aureo castone tramandanti fulgore di gemme. Fattezze alsì celestiali, superiori ad ogni terrena concrezione, ed al mirarle inspiranti amore.

III. L’affetto di Maria verso questo fanciullo fu il vero motivo del suo intrattenimento nel palazzo, checchè ne dicano i vogliosi di maldicenza, del cui vizio non mi è lecito farmi seguace, nè di approvarne il discorso, fornita, in confermagione della verità, de’ più accertati documenti dall’augusta medesima, che dal primo viver mio fino agli anni otto ed oltre nel suo grembo mi crebbe, e da quel tempo, amandomi passionatamente, non teneami occulta veruna delle bisogne sue. Mi ricorda pertanto di avere le molte volte dalla stessa udito il suo gravissimo timore, per la salvezza in ispecie del fanciullo, in vedendo Botaniate abbandonare il trono. Il che, a mio giudizio, e di quanti amano, come spero, la verità, è assai più verisimile di tutte le dicerie, messe in campo da taluni giusta l’inclinazione loro ad esserle o benevoli, o contrarj; qui di Maria basti.

IV. Il nuovo imperatore Alessio mio padre, fattosi entro la reggia lasciò nell’inferior palazzo, nome derivatogli dalla postura, la trilustre consorte ed i consanguinei di lei, genitrice, sorelle e Cesare avo paterno. Egli poi unitamente ai germani, alla madre, ed ai congiunti si recò nel palazzo superiore, appellato Bucoleon3 e vo a dirne il perchè. Non lunge dalle sue mura è sito il porto, marmoreo edifizio e sontuoso in altri tempi, ove un leone di pietra abbranca un toro vivo, così appresentato dalla scultura, e renitente; ma più forte il leone afferratolo per uno de’ corni, e premendone con morso la cervice, gli figge i denti fin entro la gola. Da tale scultura tutto quel luogo e ben anche gli edifizj all’intorno sul continente, compresovi lo stesso porto, ebbero nome Bucoleon. Ora dalla riferita permanenza di Maria Augusta nel palazzo nacque in molti il sospetto, divulgatosi quindi con segreti cicalamenti, che il nuovo monarca le si fosse per unire in matrimonio. I Duca nutrendo pensieri affatto diversi dal volgo, per nulla vi prestavan fede, soltanto non poco turbati a cagione dell’antico ed ognora manifesto odio loro portato dalla madre de’ Comneni, come rammentomi di avere più e più fiate da essi stessi udito. Allorquando pertanto Giorgio Paleologo, condotta al forte l’armata di mare, proclamava, con grida altissime di tutto l’esercito, Alessio ed Irene Augusti, il codazzo de’ Comneni dalle finestre proibiva di nominare Irene. Al che Giorgio animosamente rispondea: Non già in grazia vostra ho io intrapreso e condotto a termine così ardua gesta: ma di colei, dir voglio Irene, il cui nome ora indarno voi m’impedite di profferire; comandò in pari tempo che addoppiati gli applausi e con maggiore elevazione di voce si acclamassero Irene ed Alessio. Ora queste sementi di gelosie producevano ricca messe di travagli nella casa dei Duca, e fornivano al popolo argomenti e parlari sul conto di Maria.

V. In Alessio poi non erasi tampoco destato un primo pensiero sopra tale argomento, conciossiachè pigliato di subito il governo della romana repubblica e tutto dedicatosi, uomo desto e pronto, a condurre la grande impresa, ben poco tempo rimaneagli da escogitar mezzo di smentire le addotte cagioni di simili conghietture. Di verità esordiendo egli dal centro, per così esprimermi, degli affari, non appena messo piede nella reggia allo spuntare del sole, innanzi scuotere la polvere di cotanto aringo e prender ristoro, diedesi ad un grave pensiero, assistito dai consigli del maggior fratello Isaacio, da lui tenuto in luogo di padre, e della genitrice, i cui sommi talenti sapea idonei a reggere, anzi più regni insieme che sol uno; al pensiero intendomi di metter freno prontissimamente alle rapine delle truppe, che proseguivano a dilaniare le viscere della città. Venne consumato l’intiero giorno e la notte seguente nel deliberare e far tentativi in proposito, cimento di assai malagevole esecuzione, dovendosi provvedere alla sicurezza de’ cittadini ed al riordinamento dell’esercito sparpagliatosi al sommo, e quindi in molto pericolo. Appresentavasi, dico, ed era molto ardua impresa, considerato il gran numero, la varietà e cupidigia degli individui ond’esso componevasi, avendovi tema non il soldato, feroce ed insolente, vedendosi con severità represso macchinasse un che di peggio contro il nuovo Augusto. Cesare Giovanni Duca in cambio voglioso di levare al più presto dalla reggia Maria per togliere la cagione de’ sospetti, risolvè appigliarsi a doppio mezzo, vie più stringendo principalmente gli antichi legami di amicizia col patriarca, ed esortandolo a non lasciarsi trarre in contraria sentenza dalla madre de’ Comneni. Ito quindi a visitare Maria, ed in virtù di quella autorità acquistata fin dall’epoca in cui, espulso dal trono il consorte Michele Duca, la fece divenire sposa di Botaniate, fortemente seco lei adoperossi mostrandole con persuasivi e salutari avvertimenti che se provveder volesse alle proprie faccende, ottenuto il salvocondotto per sè stessa ed il figlio, erale uopo di abbandonare il palazzo. Nè fu di poco momento l’antedetta mediazione di Giovanni per condurre a buon fine quelle nozze, poichè Botaniate v’inclinava un vero nulla, sapendo la donna straniera, e manchevole d’ogni fortuna dal lato dei consanguinei; e per siffatta cagione appunto non disdegnandola Giovanni, bramoso di soccorrere all’isolamento di lei, eravisi posto con tutta l’anima di mezzo, e vi riuscì celebrandone magnificamente e di spesso la prosapia e la beltade all’Augusto.

VI. Elevatissimi pregi in realtà nella sua persona racchiudeva Maria, fornita di alta taglia e piena di maestà, simigliante a cipresso, e d’un candore di pelle senza esagerazione simile a neve. Il suo volto non perfettamente ritondo, ma alquanto bislungo risplendea per acconcia mescolanza di gigli con rose. Chi poi col discorso giugnerà ad esprimere il balenar di quegli occhi attorniati da curvo e rosseggiante sopracciglio, e tutti dolcezza e grazia in rimirando altrui? Le mani de’ pittori per verità coll’arte unita alle tinte ritraggono fiori d’ogni specie proprj alle differenti stagioni, ma non havvi Apelli non Fidii atti a formarsi un’idea o a rappresentare il brillante fiore della bellezza e delle grazie di tutto il portamento di Maria, e d’ogni suo gesto e guardo. Vengono commendati i sublimi lavori degli statuarj, e pur chi di essi giunse ad eseguire forme d’uman corpo a queste simiglianti? È fama che il capo della Gorgone avesse virtù di convertire in sasso gli individui postisi a rimirarlo; non altrimenti al comparir di costei sopraffatto di colpo chiunque le volgea sue luci si rimanea tosto privo di moto, ad aperta bocca e senza articolar parola, quasi venutagli meno anima e sensi, cotanta era la proporzione di quelle membra vuoi tu di tutte infra loro, vuoi di singulo a singulo, vuoi infine di ognuno alla spartita preso, quanta sì bene acconcia, per giusta misura e disegno, giammai nessuno fin qui veduto avea in umano corpo. Simulacro animato e fatto per conciliarsi l’amore di chiunque sa pregiare il bello o, vie meglio, lo stesso Amore sotto corporea sembianza dal cielo infra di noi calato. Prerogative così eminenti fornirono Giovanni Cesare di valido mezzo onde ammansare e disporre l’animo di Botaniate a favor di Maria, non ostante il brigar di molti perchè le venisse anteposta Eudocia. Difatti correva in allora voce che bramando costei di assaporare novamente l’impero, al primo udire Botaniate in possesso di Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/163 Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/164 Damali procacciasse con lettera di guadagnarlo (sebbene altri sostengano ch’ella tal operasse non già per disio di regno, ma per benivolenza a Zoe Porfirogenita4, cui bramava provvedimento), ed avrebbene riportato vittoria se l’eunuco Leone, altro de’ suoi domestici, non fosse riuscito a distornela con molte rammemorazioni, che non mi è permesso di qui più distintamente riferire, abborrendo l’animo mio per natura e per educazione dal biasimo e dalla maldicenza. Siffatte notizie poi verranno più abbondantemente e più che a sazietà propalate da chi prende a raccogliere e divulgare le popolari voci. Giovanni Cesare del resto avendo preoccupato lungamente ed in varie guise tentato l’animo dell’Augusto, da ultimo lo indusse a dar la mano di sposo a Maria, procacciandosi di questa guisa presso lei grande favore, nel quale ponendo sue speranze, come diceva, principiò a consigliarla di ritirarsi dalla reggia. Ora dall’andare a rilente la discussione, durata molti giorni, e dal non volere i Comneni, memori de’ benefizj ricevuti dall’Augusta in trono, e della doppia affinità che stringevali secolei, sottoporla ad un trattamento di soverchio austero, o poco umano, originarono i prefati sospetti e le volgari ciarle, differenti giusta le varie propensioni degli oziosi, costumati a portar giudizio degli avvenimenti, anzi dalle tendenze degli animi loro che dal merito e dalla ragione.

VII. In tanta perplessità di cose mio padre viene coronato dalle mani del patriarca Cosma. Poichè nell’anno quarto dell’impero di Michele Duca e del figlio Costantino morto essendo il santissimo patriarca Giovanni Xifilino, correndo il secondo giorno del mese di Agosto e l’indizione5 decimaterza, fugli surrogato Cosma degnissimo di questo ministero e di santi costumi. I Duca poi molto si adontarono e forte crucciaronsi vedendo non coronata Irene ad uno con Alessio, ed ognor più insistevano perchè si riparasse prontamente alla mancanza. In que’ dì vivea un monaco nomato Eustrazio, di cognome Garida e dimorante in vicinanza della grande chiesa di Dio con molta fama di virtù; or questi da lunga pezza solea visitare la madre de’ Comneni, ed aveale di più fatto qualche predizione relativa all’impero; ella d’altronde assai favorevole agli individui professanti monastica disciplina, e di vantaggio inescata dalle costui parole, di giorno in giorno appalesavagli maggior fiducia e benevolenza. Mercè di che era già pervenuta a formar pensiero d’inalzarlo al patriarcato della regale città; or dunque a conseguire il suo intento valevasi di fedeli persone, e loro esponendo la semplicità e l’inettitudine di Cosma nel maneggio degli affari esortavali a visitarlo, dichiarandogli quasi in segno di amicizia, che nulla avrebbevi di tanto suo vantaggio, quanto il rinunciare di per sè stesso al patriarcato. Ma non valse lo scaltrimento ad ingannare il sant’uomo, che porto orecchio alcun poco agli imbecherati amici, giurando in suo nome, rispose loro: Per Cosma, questa patriarcale sede verrà da me abbandonata sol quando abbia di mia mano coronato Irene Augusta. Con tali parole i messi tornarono alla dominante (così fin d’allora tutti appellavano la genitrice de’ Comneni per volere in ispecie dell’imperatore amantissimo di lei) facendole manifesto l’esito dell’operato loro. Nel settimo giorno pertanto, a contare dall’incoronazione d’Alessio, eziandio Irene ricevette, mediante il patriarcale ministero di Cosma, la solenne imposizione del diadema. Per siffatta guisa la maestà e il decoro di ambedue i regnanti, Alessio ed Irene, mostravansi fulgentissimi sopra ogni imitazione d’arte comunque sublime. Imperciocchè non havvi così valente pittore, il quale rimirando quel fiore di archetipa bellezza giugner possa, per quanto si adoperi, a ritrarlo; nè tampoco egregio statuario, appuntati del suo meglio i ferri e tutta la sua vita consunta nel contemplare i sublimi lavori di Policleto colla brama d’imitarli, non perverrà giammai ad abbozzare sopra inanimata materia, scolpire e tale condurre l’opera del suo scalpello da rappresentare la sorprendente naturale bellezza di questi animati simulacri, gli Augusti dir voglio appena cinti del diadema la fronte.

VIII. Alessio fu per vero di non molto elevata taglia, informato sì, ma non di soverchio, il perchè tenendosi ritto la sua maestà colpiva meno gli sguardi altrui di quando seduto sul regio trono e vibrante di contro sue fulgide luci. In allora a fe del Nume gli occhi de’ presenti venivano abbagliati del pari che allo squarciarsi delle nubi il chiaror della folgore costringe gli stessi audacissimi a chiudere le palpebre, cotanto era il maestoso risplendimento, attraentesi di forza venerazione, che irradiava quel volto non solo, ma ben anche il corpo e l’universale conformazione delle membra. Dall’una parte e dall’altra un nero e bellamente curvo sopracciglio tramandava piacevoli ad uno e terribili guardature, di maniera che da queste, dalla nobiltà del volto e dall’avvenenza delle gote, in adatta foggia cosperse di vermiglio, partivano raggi di maestà e clemenza, i quali a un otta producevano fiducia e timore. L’ampiezza inoltre degli omeri, la forte muscolatura, il rialto del petto, simili onninamente alle forme eroiche, promoveano ammirazione e diletto negli spettatori. Conciossiachè lo stesso membro era in lui modello di misura, grazia, robustezza e di tal quale inarrivabile gravità. Al disserrar poi la bocca e dar moto alla lingua avresti creduto dischiudersi le labbra del primo infra greci oratori6; eloquenza simile ad igneo torrente, che rendeva le orecchie e gli animi attoniti col trabocchevole fiume, dir vorrei, di sue forti e brevi argomentazioni. Non havvi loquela atta ad esprimere idoneamente la potenza della sua facondia, nè, vittoriosa, havvi un che da potersi agguagliare all’impeto di quella perorante lingua, salvo i forti colpi e gli inevitabili tiri della guerreggiante sua destra: superiore a qual tu vuoi nell’un riscontro e nell’altro; se non che il parlare di lui recava diletto, ed il braccio grave travaglio ai vinti. IX. Irene Augusta, mia genitrice, fanciulletta a quei dì, non avendo ancora oltrepassato il terzo lustro, era prole di Andronico primogenito di Giovanni Cesare, illustre prosapia certamente, la cui genealogia annestavasi agli Andronici e Costantini cognominati Duca. La sua taglia fiorente ergevasi a mo’ di eccelso arbore con perfettissime proporzioni, ora dilatandosi ov’era mestieri, ed ora strignendosi con tanta squisita corrispondenza di tutte le membra da renderne così amabile l’aspetto e la favella, che non aveavi nè più soave spettacolo, nè fonte di maggior dolcezza, per sembiante e voce, a cui dirizzare gli sguardi e l’udito. E tale essendo tramandava il suo volto non per intiero sferico, alla foggia di assiria pulzella, nè di soverchio bislungo, come vergine scitica, ma un cotal pocolino prolungato oltre la circonferenza d’un perfetto circolo, tramandava, ripeto, tutto il chiaror della luna. Dalle sue gote poi, ov’ella volgevale, diffondevasi la vaghezza e l’aura d’un verdeggiante prato, e veniva a colpir gli occhi pur anche de’ lontani spettatori un colore, simile a vivace porpora, di fiorente rosaio, permanendo intrattanto la presenza di lei sorgente non meno di piacere che di timore, per modo che la sua venustà a cui s’avveniva attraevane gli sguardi, e l’occhio maestoso ed il grave contegno forzavanlo ad abbassare le ciglia, mettendolo così in forse a quale degli incitamenti si convenisse dare la preferenza, impotente non meno di rattenersi dal mirarla che di reggere agli effetti di quelle luci ver lui rivolte. Non so in vero se abbia giammai esistito la Pallade cotanto celebrata dai pittori e dai poeti, e ritenuta da molti favolosa; ma se narrò taluno che altre volte fatto abbia intra noi dimora un essere di forme simiglianti alla nostra Augusta, e vuoi per la destata ammirazione di sè, vuoi per lo splendore degli occhi ed i penetranti raggi d’una incantatrice bellezza dato pruova di celestiale origine, a fe ch’egli non allontanossi dal vero, od almeno dal simigliante al vero. Ma più mirabile e singolarissimo pregio di costei era il reprimere ed abbattere, unicamente al presentarsi, gli orgogliosi ed audaci, e il destare conforto e fiducia negli umili e tementi. Le sue labbra disseravansi a quando a quando pur elle non più che in sembianza di tramandare voci, ed in allora tutto appariva l’animato sostegno della vaghezza ed il vivente simulacro della beltà. La sua mano con sommo garbo ed avvenentemente ignuda fino alla unione del braccio, e pressochè norma della sua favella, era maraviglia de’ riguardanti, sembrando loro candidissimo avolio da valente artefice convertito in dita, in palma e nelle residue parti di lei. L’iride all’intorno delle sue pupille simigliava tranquillo mare in cerulea serenità, effetto d’una profonda calma delle onde; nè loro cedeva in pregio il candore da cui venivano circondate; una mescolanza in fine di tutti questi naturali doni ornavala d’incomparabili grazie, colmando a un tempo gli spettatori d’incredibile diletto. In cosiffatta, o presso che simigliante guisa facean bella mostra di sè Irene ed Alessio.

X. Isaacio mio zio, per venire a lui, avea statura eguale al fratello, nè molto differivagli nel resto, se non che maggior pallidore e non folta barba coprivane il volto, di maniera che il pelo delle sue gote non pareggiava quello del germano quantunque di età minore. Vedevi poi in entrambi, quando non impediti dagli affari, l’egual trasporto per la caccia, ma giunta l’occasione l’uno e l’altro volgevansi di miglior grado alle armi, ed Isaacio nel battagliare, stato frequentemente condottiero di eserciti, non la cedeva a chi che fosse. Ove più grave il pericolo, ed ove si potea vie meglio tenzonare col nemico, ivi si tenea, e non appena osservatolo in ordinanza, lanciavasi, a foggia di fulmine, con cieco impeto entro quelle file, apportatore di funestissima strage e spesso fugatore di tutta la falange. Onde ben due fiate avvennegli, pugnando in Asia contro agli Agareni, di cadere nelle mani loro; chè se difetto aveavi in lui era appunto il non saper moderare negli scontri guerreschi la sua grandissima foga. Siccome poi, giusta le convenzioni, accordavasi a Niceforo Melisseno l’appellazione di Cesare, e faceva altronde mestieri di vie più estollere l’anzinato fratello Isaacio, nè avendovene altra maggiore, l’Augusto pensò di creare un nuovo titolo coll’unione del Sebasto all’Autocratore, formando così il nome di Sebastocratore, e decoratolo della studiata onoranza lo rendè al solo Augusto secondo, accordando al postutto nelle acclamazioni il terzo luogo a Melisseno Cesare. Volle inoltre che nelle solennità il Sebastocratore ed il Cesare cingessero lor fronti non di egualmente adorne corone, ma sì bene diverse a norma del grado; ambedue non di meno così per ricchezza, come per magnificenza erano al disotto dell’augustale diadema, portato dallo stesso imperatore. Poichè questo, foggiato onninamente a guisa d’emisfero concavo e chiuso, circondava per intiero il capo, e risplendea bellamente di margherite e d’ogni altra maniera di gemme, parte delle quali eranvi incastonate e parte ciondoloni, cosicchè di qua e di là dalle tempia discendeangli pendaglie, composte pur esse di margherite e gemme, da cui venivano le gote dolcemente percosse; tale vedevi il più sublime ornamento proprio dell’imperiale monarca. Le corone per contrario del Sebastocratore e de’ Cesari aveano la sola circonferenza ad intervalli guernita di margherite, nè globo comunque appariva sulla prominente convessità loro. In pari tempo Taronita, consorte d’una sorella d’Alessio, fu dichiarato Protosebasto7 e Protovestiario, nè guari dopo inalzato all’onoranza di Panipersebasto8, e pronunziato meritevole di entrare nel novero de’ Cesari; il suo primo titolo poi di Protosebasto se l’ebbe il fratello di lui Adriano, aggiuntavi l’appellazione d’Illustrissimo. In fine il terzo e minore fratello Niceforo fu nominato gran Drungario9 dell’armata di mare ed ascritto infra Sebasti.

XI. Primo si fu mio padre a porre in campo le prefate onoranze e ad applicar loro i nomi, componendole parte colle disgiunte per lo innanzi, giusta il narrato, ed altre già note volgendo a più recenti usi. Imperciocchè il panipersebasto ed il sebastocratore sono composizioni, ed il significato del nome sebasto venne da lui cangiato, essendo in epoche più remote questo il nome del solo monarca; egli pertanto col trasferirlo a nuova dignità lo fece a molti comune accostandoli vie maggiormente al trono. L’unico forse dell’uman genere, il quale sia riuscito colla elevatezza della sua mente e del suo consiglio ad ordinare sopra fermi principj la scienza del regno, arte affè delle arti e dottrina delle dottrine; parte di essa, vo’ dire l’innovazione de’ titoli ed il trovato d’illustri cariche tendenti ad un variato scompartimento di onoranze con senno dispensate, giovava non poco al buon governo di tutte le pubbliche faccende. Nè già, come far sogliono i maestri d’ogni altra disciplina, questo spirito intelligentissimo della scienza del regno imponeva nomi alle cose o agli strumenti loro per indicarle, ma iva fabbricando siffatte voci ed onoranze per isbramare in varie guise l’ambizione de’ cupidissimi, tenerne le speranze nella incertezza, ed insiememente colla mostra d’un solo premio, quantunque di moltiplice aspetto, la mercè della varianza de’ suoi nomi ed ornamenti, aescarli ad eseguire con integrità le proprie funzioni.

XII. Alquanti giorni dopo la coronazione d’Irene, e ricorrendo la commemorativa festa del pontefice Giovanni soprannomato il Teologo, Cosma, celebrato il sacrificio nel tempio del santo apostolo, eretto presso l’Ebdomo, spontaneamente rinunziò la dignità patriarcale, tenutala anni cinque e mesi nove, e si ritrasse nel monistero di Callia, venendogli surrogato l’antedetto eunuco Eustrazio Garida. In oltre Costantino Porfirogenito, prole di Maria Augusta, al ritirarsi dal trono il suo genitore Michele duca si era dato spontaneamente a vivere in privata condizione spogliando i rossi coturni per calzarne di neri e comunali; ma Botaniate, successore di Michele, reputandolo per ischiatta e personali doti meritevole di qualche riguardo, aveagli bensì comandato di proseguire nell’uso dei neri calzari, non indulgente come si volea per accordargli al tutto i rossi, ma per solo favore concedeagli lo intesservi, a mo’ di vari fioretti, purpurei nodi (quasi ad indicare una fortuna di mezzo infra la privata e la regale coll’artificiato collegamento dell’uno e dell’altro colore); se non che giunto ad ascendere il trono l’imperatore Alessio, Maria Augusta, valendosi del consiglio di Giovanni Cesare, volle guarentigia e confermagione, mediante rosse lettere ed aureo suggello, della propria salvezza e di quella del figlio, come pure che questi ricuperasse la pristina sua condizione, addivenendo altra fiata partecipe dell’impero, tale essendo stato durante la paterna signoria; ed imperciò ei vestisse da quinci innanzi rossi coturni, ornasse la fronte di augustale corona, ed il suo nome acclamato fosse unitamente a quello dei mio genitore. Le fatte inchieste non a pena conseguite e confermate con diploma scritto e munito d’aureo suggello furono mandate ad effetto, e Costantino, spogliati i coturni di variato colore, tornò a calzare i compiutamente rossi, e nelle donazioni, nelle auree Bolle ed in simiglianti carte sottoscrivevasi con rosso inchiostro unitamente all’imperatore, cui nelle pompe e processioni era affatto secondo. Altri poi asserivano che Maria Augusta riportato avesse in virtù di convenzione le antedette guarentigie dai Comneni prima del ribellamento loro. Che che ne sia Maria Augusta, terminate queste faccende, con numeroso codazzo, e primo in esso il sebastocratore Isaacio, abbandonò la reggia per entrare nel monistero nomato comunemente Mangana, ed eretto dall’imperatore Costantino Monomaco vicino a quello del gran martire Giorgio.

XIII. Alessio rettamente cresciuto nella sua fanciullezza, e per le ammonizioni ricevute dalla religiosissima genitrice serbando profondamente impresso nell’animo il vero timore del Nume, veniva cruciato da vivo rimordimento al rimembrare la strage, da per tutto innanzi a’ suoi sguardi, cui soggiacque la città, ed il colmo dei mali e delle sciagure sofferte per ogni dove dagli abitatori di essa nell’entrata de’ Comneni. Talvolta l’ottimo, l’innocenza scevera da colpa, ne’ suoi effetti traligna, facendo montare in superbia ed in soverchia fidanza di sè chi mai sempre tennesi in guardia dal recare offese. Costui nondimeno, purchè abbia copia di naturale prudenza e buoni ammaestramenti nel divin culto, stretto in un subito dalla tema del Nume si turberà e verrà preso da salutare spavento; e tanto più se datosi ad elevate imprese e giunto a conseguire sublimi e fuggevoli onoranze, comprenderà addivenirgli massime allora necessaria la propizia mano del sommo fattore. Ma se questi non vuol saperne e mostraglisi contrario, che mai potremo attenderci se non di mirare l’astioso a Dio, o per fallo, o per demenza, o per superbia cadendo in ogni scelleraggine, accrescere a suo danno la celeste ira, e provocata l’umana vendetta essere forzato a cedere il trono appena sedutovisi, e ridotto ad una miseria estrema. Tanto, ben lo sappiamo, ebbe a tollerare Saulle, pel cui reato soggiacque a divisione quel regno. Mio padre alla trista ricorrenza di tali pensieri addiveniva forte amareggiato nel cuor suo, trepidante e costernatissimo, come fosse per piombargli sul capo un severo gastigo dell’Onnipotente in punigione dell’enorme e così moltiplice delitto in cui era trascorso permettendo il saccheggio ed il disonore della città. Imperciocchè di tutte le turpezze e scelleraggini ideate ed eseguite da quella vile mescolanza di genti nell’entrarvi, abusando grandemente della vittoria, egli stesso chiamavasi reo, e come vero, unico autore ed attore del tutto affligevasene con tanta veemenza di pentimento, che nè l’impero, la porpora, il gemmato diadema, le intessute vestimenta d’oro e di margherite poteano in parte alcuna consolarlo. Poichè l’imagine funestissima, ognora presente al suo animo, dell’augusta città oppressa e vilipesa con ogni maniera d’oltraggi e scherni, e ridotta agli estremi della miseria pervertivane con amarissimo cordoglio tutto lo splendore. Non havvi affè di Dio umana mente capace di esprimere col discorso i gravissimi danni cui ella soggiacque, tutti e da per tutto abbandonati essendosi al saccheggio ed al sordido contaminamento vuoi de’ privati e pubblici luoghi, vuoi pur de’ sacri e veneratissimi, colpa di che intronavan le orecchie sì grandi e svariate lamentele da supporre quelle mura minacciate di sovversione per effetto di qualche terremoto. Nulla di ciò sottraevasi dal sentimento di Alessio, o seducevane la memoria, non avendovi altri più intelligente di lui, o più pronto a sentenziare col massimo rigore le sue criminose azioni, di maniera che sebbene, fattosi patrocinatore di sè medesimo, cercasse persuadersi che i soli militi erano in colpa delle commesse ribalderie, rispondeasi nessuno da sè infuori avervi dato occasione, licenza e principio col ribellare, del cui astio, quantunque fosse in poter suo il riversarlo sopra que’ servi insidiatori, volea anzi aggravare sè stesso e sanare la propria coscienza col dolore e pentimento, che imponendone altrui nota. Ritenne adunque fermamente ch’egli giammai riuscirebbe nè in pace, nè in guerra ad imprendere un bene augurato e felice reggimento della repubblica, se prima di volgervi la mano e l’animo non adoperasse con religiosa purgagione di mondarsi da ogni reato. Immutabile in questo proponimento eccolo visitare la genitrice e, fattale palese la commendevole sua perturbazione, addimandarle i mezzi di sedare i proprj rimordimenti. Ella con maternale affetto lo accoglie, loda, consola, e di buon grado assume di compierne i desiderj. Laonde mandano di consentimento reciproco chiamando il patriarca Cosma (non avendo questi per anche rinunziato la sua dignità) e ad uno i ragguardevolissimi personaggi del sacro sinodo e dell’ordine monastico.

XIV. Ragunatosi il concistoro vi comparve Alessio in portamento e contegno non solo di colpevole, ma di reo già condannato, non essendone le vestimenta, gli occhi, il volto che quelli del più abietto plebeo alla presenza de’ giudici prossimi con voto nero a sentenziarlo di morte. Quivi il tutto egli confessa non ommettendo nè il consenso prestato al primo concepimento, nè l’esecuzione dell’opera, nè il fine e lo scopo propostosi in essa, mostrando nella esposizione timor sommo del Nume e viva fede. Supplicavali al postutto che intesa la malattia vi applicassero giusta la sufficienza e potestà loro il rimedio, nè gli usassero cortesia di pene e supplizj, dichiarandovisi di buon volere sommesso. E queglino danno sentenza che soggiacer debbano coll’Augusto ad eguale espiazione quanti altri seco lui congiunti con legami di sangue e di amicizia ebbero in guisa comunque partecipato la sedizione e datovi aiuto, prescrivendo loro il digiuno, il dormire in terra e il di più che sogliono recar seco queste pratiche dei penitenti a fine di ricuperare la grazia divina. Tutti di buon grado accolsero e mandarono ad esecuzione la condanna, e fin le stesse lor donne vollero essere a parte di così grave lutto e squallore; poichè quantunque ben lontane dall’aver cooperato, la mercè del sesso, alla ribellione, opinavano dovere imposto dai vincoli conjugali ed officio di carità il desiderare la partecipazione stessa de’ patimenti cui soggiaceano i proprj consorti. Ciascheduna adunque volontariamente si unisce al marito per tollerare con iscambievole rassegnazione il severo gastigo. Laonde nel decorso di tutto quel tempo fu la reggia in ogni sua parte magione di pianto e lutto. Lutto non vile e dispregevole, nè indicante fralezza d’animo abbattuto, ma onesto, commendabile o tendente all’acquisto d’un gaudio sempre duraturo, eminente prerogativa pari alle altre tutte di cui era possessore l’Augusto, non avendovi un che per lui di più elevato pregio della religione. Egli adunque sotto alla porpora durante i giorni e le notti quaranta dell’espiazione vestì la nuda pelle di cilicio, nè ebbe altro letto a riposo delle sue membra dalla terra o dal pavimento infuori, apponendovi a sostegno del capo, a mo’ d’origliere, una pietra.

XV. Soddisfatto di questo modo ai doveri impostigli dalla chiesa diè di piglio con pure mani alle redini dello stato. Se non che bramando ardentemente di alleviarsi dalle cure amministrative divisò affidarne il peso alla prudenza della genitrice, serbando tuttavia da principio entro sè stesso tale determinazione per tema non ella fattane sapevole e sbigottita dal grave incarco avacciasse di compiere il proposito, da lunga pezza costante nell’animo suo, di professare, abbandonata la reggia, un tenor di vita più sublime del consueto. Or bene l’imperatore, voglioso di ritrarla a poco a poco da tale pensiero, la frequentava come suo consiglio, nè dava passo a faccenda, avvegnachè piccola e lieve, prima di avernela consultata; rendendola in questo modo pratica dell’amministrazione e vie meglio di sè stesso benivogliente col mezzo d’ognor più stretti e indissolubili vincoli; giunse da ultimo a persuadere e lei e gli altri che nella sola materna prudenza riponeva sua fiducia del prospero imperiale reggimento, sembrandogli che l’operato senza il costei assenso riuscir non potesse ad avventurato fine. Ella pertanto, sebbene amantissima del ritiro, e nulla ravvolgesse così volentieri nell’animo e ardentemente desiderasse come un monistero, ove compiere sua vita in quiete, non di meno dall’amore del figlio, non avendovi donna che in ciò l’agguagliasse, veniva sospinta ad essergli aiutatrice nella grande intentata impresa, ed a porsi al governo d’una nave nè forte, nè a bastanza munita contro il furor del mare e del firmamento, ed in assai perigliosa condizione. Vie meglio poi sentivane lo stimolo sapendolo inesperto ed assaporante per la prima volta di tali venti e flutti, come dire, non ancora quanto era uopo ammaestrato dall’esperienza nel maneggio degli affari, e dalla memoria delle trascorse vicende nell’intrigata e così varia soprintendenza delle pubbliche bisogne d’un vasto impero, agitato in ogni sua parte ed assalito da cotanti nemici. Riportò dunque vittoria il prefato amore, disponendola a dar mano al figlio nel reggere le redini dello stato, e nel voler ella da sola a quando a quando, ma sempre con retto e prospero corso, a guisa d’auriga, condurre il cocchio della repubblica, prudentissima in verità e nata pel governo de’ regni.

XVI. Annunziatosi di poi, correndo il mese di agosto e durante la stessa indizione, l’assalimento ed il tragitto di Roberto, l’imperatore si vide costretto di farglisi incontro coll’esercito, ed opinando giunta l’ora opportuna di manifestare il divisamento infin qui celato nell’animo suo, di mettere intendomi alla testa del governo la madre, promulgò un’aurea Bolla conferendole in assoluta guisa l’intera amministrazione di tutte le imperiali faccende. E poichè s’appartiene all’uffizio dello storico non solo d’indicare sommariamente le deliberazioni e le geste de’ personaggi illustri, ma di usare eziandio più accurata diligenza per esporle con maggior precisione e chiarezza, noi pure non contenti di avere accennato come che sia il pio affetto di Alessio verso la madre, passiamo a corredare quest’opera degli eterni monumenti di si grande evento, acciocchè abbiane la posterità più compita e distinta notizia, riportando fedelmente qui trascritta la stessa aurea Bolla, toltovi il solo e superfluo ornato dello scrittore.

Aurea Bolla dell’imperatore Alessio Comneno, mediante la quale egli conferisce alla propria genitrice la potestà di governare l’impero.

Nulla è comparabile ad una buona madre, che ritiene come sue le prosperità e le sciagure della prole: non havvi di essa più forte soccorso o amuleto vuoi al prevedere un imminente pericolo, vuoi al paventare un che di tristo e maninconioso, poichè se nell’antivedimento d’un sinistro ella ti sia larga di consiglio lo troverai sicuro ed efficace; se per rimovere un male superiore alle umane forze indirizzi al Nume prieghi e voti, questi per certo addiverranno tanti invincibili satelliti intorno a’ fianchi e veglianti alla difesa di chi hanno in custodia contro ogni maniera d’insidie. E tal sia per lunga esperienza ci vien confermato dai provvedimenti della santa e venerabile nostra genitrice e signora, mediante i quali dalla più tenera età sino al corrente giorno fummo da lei cresciuti. Ella ci nutricò, ella c’instruì, ella sola fu il tutto onninnamente per noi. Dimessi pertanto ed emancipati dal suo grembo per introdurci nel senato e nel maneggio della repubblica non potemmo dimenticare il suo grande amore fin qui portatoci ed il rispetto ognora dovutole; anzi fu esso di poi corrisposto da pari filiale dilezione affermatale con tutte le pruove di fedeltà e riverenza. Fu mai sempre intra noi un sentimento unico, una sincera concordia, sola un’anima in due corpi. E cotanta affezione, la Dio mercè, si è così integramente serbata infino a questo punto che giammai ebbe a patire offuscamento o la più lieve offesa, neppur dal sono giunto alle orecchie di quelle frigide parole il mio, il tuo. Dal che riportammo, unitamente ad altri molti profitti, quello principalissimo d’aver ella fatto voti e porto di continuo ferventissime preghiere al Cielo, in virtù delle quali, tanto piamente crediamo, il Nume c’inalzò all’apice di questo impero. Nè di poi unqua desistette, quasi per colmare con nuovi meriti la prima sua benivolenza, dal sommettersi spontaneamente a partecipare le nostre fatiche, ora, compassionandoci, per alleviarne le cure e gli affanni, ed ora, dandoci consigli di comune vantaggio, per mitigarle e diminuire. Noi dunque pronti ad intraprendere una necessaria spedizione, pieni di fiducia sia questa per avere propizio il Nume, contro nemici di Romagna, e forte occupati nel far leva di truppe e nell’ordinare tutta la bellica disciplina; aggravati a simile dagli affari politici e giudiciali, non meno laboriosi che di nostra spettanza, ci troviamo appena sufficienti ad attendere con rettitudine alle molte e così variate incumbenze; quindi opiniamo non avervi di meglio che il fidarne l’amministrazione alla sapienza della venerabile e santa nostra genitrice. Decretiamo pertanto e ordiniamo col presente diploma guernito di aureo suggello, che la prefata venerabile nostra madre, in virtù della sua grande sperienza nelle umane e secolari bisogne, avvegnachè sempre da lei con religioso animo dispregiate, possegga da quinci innanzi assoluta facoltà di governare giusta il suo volere ed arbitrio, così a voce come per iscritto, ogni cosa, o abbiane referto dal presidente dell’universale giudicatura o da altro de’ secondarj ministri cui spetta la compilazione vuoi de’ sommarj, vuoi de’ libelli o delle sentenze; e quanto ella sarà per rispondere a ciascuno di essi, ovvero per istabilire intorno a qualsivoglia ramo della politica, a mo’ d’esempio ai proventi dell’imperiale tesoro ed alla condonazione de’ pubblici debiti a sollievo degl’indigenti, comandiamo che infallibilmente venga posto in opera ed a noi attribuito, riportando così l’egual fermezza e valore d’un mandamento scritto o vocale della stessa maestà nostra presente. Ogni risposta, dico, e soluzione degli insorti dubbj da lei avute, tutte i suoi ordinamenti, scritti o non iscritti, con o senza motivo, soltanto improntati del suo suggello, rappresentante le immagini della Trasfigurazione e della morte, vogliamo sieno accolti ed osservati quali risoluzioni o decreti fatti, per diritto del comando supremo, dalla stessa imperiale nostra persona. Così pure correndo il mese di colui che temporalmente amministra la giustizia non solo in materia promozioni e successioni de’ giudici, e degli officiali del foro e del consistorio10, ma eziandio nel conferimento delle militari prefetture e delle altre dignità e cariche, non escluse le donazioni degli immobili riservate all’autorità regale, ingiugniamo che la stessa venerabile nostra genitrice abbia piena facoltà di stabilire quanto le attalenterà, e tutti quelli così della milizia come del consistorio, i quali verranno dalla stessa inalzati ad onoranze, o per voler di lei ed in forza d’un suo comando le avrranno conseguite, o vero in altra guisa vi saranno pervenuti, e del pari gli elevati da lei alle somme, medie o infime dignità, intendiamo che abbianle a possedere, esercitare e costantemente godere franchi da pericolo comunque di perderle. Oltre di che ella avrà pieno diritto, rimosso ogni dubbio, d’istituire, costituire e decretare a suo buon grado l’aumento degli stipendj e del caposoldo11, le caritatevoli remissioni di que’ tributi nominati consuetudini, come pure la sospensione e l’aumento loro. In fine, riepilogando il tutto, nulla dello statuito da lei, o per iscritto o senza, dovrà estimarsi vano o malfondato. Poichè le sue parole ed i suoi comandi si reputeranno derivanti dalla stessa nostra maestà, e neppure un che di essi potrà annullarsi e rimanere privo di effetto; dureranno per lo contrario in qualsivoglia tempo fermi, invariabili e giammai sottoposti da persona al mondo a disamina, inquisizione o ritrattamento, nè bisognevoli di approvanza e confermagione onde sieno di pieno effetto e valore. Chiunque di pari conformità le avrà porto assistenza o fattine i comandamenti, compresovi lo stesso temporale logoteta de’ segreti12, siano come si vogliano in apparenza bene o male consigliati o decretati, non potrà unquemai essere da chicchessia costretto a comparire sotto questo titolo in giudizio a difendere e giustificare l’operato. Imperciocchè dichiariamo e decretiamo in forza della presente aurea Bolla, fatta di moto proprio, che quanto sarà per essere deliberato e posto in esecuzione dalla nostra genitrice debbasi riferire all’autorità nostra, e rimanere fermo, rato e stabile in ogni tempo. Fin qui la bolla. XVII. Ora chiunque prenderà in considerazione questa imperiale patente non potrà a meno di ammirare e commendare il filiale affetto di mio padre Alessio Augusto, il quale un vero nulla si ritenne avendo renduto partecipe la madre di tutti i diritti e gli onori della potestà suprema, e per fino sembrando, quasi direi, che discendesse dallo stesso trono imperiale per metterla in sua vece al reggimento della repubblica, serbandosi non più che il carico, siccome proprio del suo ministero, di comparire e far delle corse ne’ ditorni, ed il solo nome d’imperatore; tanto egli opera di già pervenuto dal fior di sua vita all’età virile, età in cui la brama del comando suol farsi vie meglio sentire negli individui così nati, cresciuti e posti in tale condizione. Nè certamente fe’ velo col pretesto dell’onoranza materna ad una sterile infingardaggine, o si procacciò, simulando scaltrita riverenza, tranquillità sicura. Imperciocchè volle di sua ragione i pericoli e le fatiche della guerra contro a’ barbari; le altre bisogne, poi, tali che l’amministrazione degli affari, le nomine de’ magistrati, l’ordinamento de’ tributi e delle pubbliche spese, affidò alla madre. Ed abbiavi pur chi lo dica di soverchio liberale e generoso trasferendo la reggia nel gineceo, e giudichi affatto immeritevole di approvazione l’aver commesso a donna l’universale governo di così vasto impero. Ma s’egli porrà mente, avendone contezza, alle costei doti grandissime di prudenza, di virtù e d’un ingegno fornito di ben rata penetrazione, riavutosi dal biasimo passerà tosto ad ammirare e lodare l’imperiale consiglio. Per verità era sì maravigliosa l’attitudine di questa mia avola nel maneggio e nel condurre a buon termine gli affari e sì grande il potere e la perspicacia del vastissimo suo intelletto nell’ordinare e disporre le brighe civili, che detta l’avresti non pur idonea a reggere ottimamente negli estesissimi suoi limiti il romano impero, ma bensì tutti i regni insieme riuniti ed irradiati dal sole. Conciossiachè dotata per lunga esperienza di molta pratica nelle vicende umane e d’un ingegno mirabilmente destro nel vedere con somma chiarezza la natura e l’importanza degli affari, punto non indugiava a comprendere donde fosse uopo cominciare in ognuno di essi, in che modo e fin dove proseguirlo, e quali fossero gli idonei mezzi a dar loro appoggio; di colpo antiveggendo gli ostacoli che andrebbonsi ad incontrarvi, e mai sempre ferma e costante nel mandare con prudenza a compimento il miglior partito cui appigliarsi. Nè fra le molte sue prerogative d’ingegno e discrezione mancava di quella facondia propria della rettorica, sortita avendola innata seco, e ben simile all’acquisita; per liberalità della natura, non per beneficio dell’arte, fatta eloquentissima e versatissima nel persuadere, non già fornita di quella verbosa facondia o interminabile garrulità, nè tampoco interrotta nel dire e soffermantesi nel mezzo di esso quasi per diffalta repentina di fiato. Solea in cambio a luogo e tempo esordire e condurre a perfetto compimento il discorso, ed a riuscirvi non le fu di poco vantaggio l’essere stata assunta al governo dell’impero in età provetta, quando la prudenza ottenuta e resa stabile dalla pratica è nel suo massimo vigore, e quando l’arte di trattare saggiamente gli affari e la multiplice scienza regolatrice ed amministratrice delle umane cose giunte sono al più sublime grado. Nè tale età va unicamente adorna del pregio attribuitole dalla tragedia pronunziandola consueta a parlare con maggior prudenza de’ giovani, ma sì bene di più utili consigli e più verace sapere. Al postutto quanta dovizia di senno racchiudessero i molti anni suoi, fattone cumulo nel trascorrimento loro, di leggieri lo testimonia quell’universale consenso che facevala infin dalla sua gioventù nominare un miracolo di senno, manifestando anche allora la maturità della canizie, e colla sua presenza e compostezza del volto e degli atteggiamenti dando a prima giunta a chi rimiravala non dubbio saggio di naturale virtù e maestoso contegno.

XVIII. Mio padre dunque non appena venuto in possesso dell’impero collocò sopra il trono regale questa sua madre, come narrava, volendola spettatrice e giudice de’ suoi certami e sudori, appellandola e stimandola sua signora non tanto per vaghezza di nome, quanto per ossequiosa obbedienza, professandole amore e rispetto molto al di là della comunal guisa, per non dire con umiltà servile. Sottoposto interamente ai consigli di lei rendeva la sua destra serva della materna lingua, e le sue orecchie solo intente ad accoglierne le voci ed i precetti. Di più ogni suo cenno di approvazione o riprovazione originava dagli anticipati materni divisamenti, accostumatosi lei presente o lontana a non appalesarsi giammai di contraria sentenza; non altrimenti andava la bisogna. Alessio apparentemente, Maria in realtà occupava il regno; ella sentenziava, dava leggi, governava, disponeva l’occorrente. Il figlio quindi confermava gli scritti decreti apponendovi il proprio nome, e convalidava le deliberazioni vocalmente fatte col suffragio a simile della sua voce; di modo che, vaglia il dirlo, mio padre non era l’imperatore, ma il materno strumento dell’impero, sì tanto addivenivagli accetto e meritevole d’encomio il costei operato; nè solo obbedientissimamente secondavala come genitrice, ma eziandio prestavale attento e docile orecchio quale maestra intelligentissima dell’arte di regnare, avendola più che sperimentata di squisito acume d’ingegno nel corre l’ottimo partito cui attendere in qualunque affare e nel seguirlo colla massima rettitudine; superiore, nè poco, a tutti coloro che godevano rinomanza di prudenti ed esperti amministratori. Tali furono i principj del regno di Alessio, indicanti aver egli quasi a tedio il mirarsi autocrate, vo’ dire elevato ad una assoluta generale dominazione, essendo questo il volgar nome del supremo dominio, col trasferire nella propria madre una volta per sempre la facoltà di reggere come più le attagliasse l’impero.

XVIII. Qui altri in mia vece potrà, volendo, con isfoggio di precetti rettorici in così degno argomento levare a cielo la schiatta della nostra eroina discendente dagli Adriani Dalasseni e Caroni, ed a tutta briglia condurre le bianche quadrighe dell’eloquenza in vastissimo campo di lodi. Imperciocchè è mio uffizio, compilatrice d’istoria, il renderla insigne non adducendone la prosapia o il sangue, o se dall’uno o dall’altro traesse la origine, ma bensì i costumi e le virtudi, e pur questo entro i limiti del convenevole e di quanto comporta il genere e lo scopo dell’intrapeso lavoro; proseguirò dunque ad esporre ciò ch’emmi vietato di passare con silenzio. Ella fu grande ornamento non solo del proprio contemporaneo sesso, ma degli uomini stessi, e niente meno che il comune decoro della natura umana. Pruova ne sia l’avere infin dal principio del suo reggimento ricondotto e forse levato a maggior perfezione la primitiva illibatezza di vita nel palazzo delle auguste, donde l’onore e la buona fama eransi sbandeggiate sin da quando le redini dell’impero giunsero nelle mani di Monomaco, addivenuto in allora quel venerabile sacrario camera di vanitade e turpi amori. E vaglia il vero fu sua opera lo stabilire là entro un tanto acconcio e commendevole ordine, che dirsi potea convertita la maggione dei re in asilo di religiosa famiglia. Eranvi in fatti ore determinate ad udire ed inalzare col canto inni al Nume, a sostentare col cibo il corpo, ed a trattare con misura gli urbani e politici affari. Ella, rendutasi tipo ed esempio di ogni lode, prodigio superiore all’umano intendimento ed a quanto suole ordinariamente avvenire nella natura, precedeva, traendo seco tutta la corte, ovunque tramandante raggi di onestà e pudicizia per modo, che messa al paragone colle decantatissime eroine modelli un tempo di probità, sembrerebbe, a non dubitarne, il sole comparato alle stelle. Qual lingua poi giugnerà ad esprimere in idonea guisa la costei misericordia verso de’ poveri, o la generosità di sua mano a pro degli indigenti? era la reggia comune asilo di tutti i meno doviziosi del parentado, e vi trovava conforto il bersagliato da comunque trista fortuna. Portò sempre di preferenza rispetto ai sacerdoti ed a’ monaci, avendo gli ultimi famigliarmente suoi commensali, e con frequenza tale che mai fu veduta assidersi al desco e non lo partecipare con essi. Di venerabile apparenza per gli angeli, di terribile pe’ demonj, se avvenivasi a lascivi e voluttuosi li affisava con sì rigido sguardo che rendeali nella impotenza di reggere alla severità di quell’aspetto, altrettanto propizio ed ilare co’ modesti. Imperciocchè benissimo conoscendo e possedendo la misura della tristezza e della giovialità non compariva in alcun tempo nè di soverchio austera ed intrattabile, nè colle gentili sue maniere piacevole oltre i limiti, onde schivare la nota, quasi diremmo di leggierezza. Così mediante non so che artificio ed incitamento a virtù moderando l’affabilità col rigore ella riuscì nelle giuste proporzioni amabile ad uno e degnissima di rispetto, quantunque sortita dalla natura tristo e silenzioso carattere. Del rimanente applicavasi di continuo a concepire nel suo animo e svolgere nuovi e nuovi pensieri, non perniciosi alla repubblica, giusta le dicerie delle cattive lingue, ma salutari di fermo e conducenti a ritornare, come possibil fosse, il già rovinato e quasi distrutto reame al pieno decoro della primitiva grandezza. Quantunque poi gravata dalla mole degli affari, non volea tutta via rimanerne per modo oppressa che venissele meno il tempo di attendere ai religiosi officj della monastica vita, quale appunto nella reggia medesima stabilito avea di professare. Consumava quindi la maggior parte della notte recitando per intiero gli inni divini a norma della ecclesiastica partigione in compito giornaliero per tutto l’anno; oltre di che sottraeva ore non poche al sonno per dedicarle particolarmente alla preghiera ed esercitare atti di religione, portando impressi nello squallore del fiaccato e consunto suo corpo segni manifestissimi della forzata veglia notturna. Quindi al dileguar delle tenebre, vicino all’aurora, e tal fiata dopo il secondo gallicinio, davasi tutta alle pubbliche cure decretando quanto era mestieri intorno ai comizj ed alla scelta dei magistrati, e rispondendo alle petizioni de’ supplichevoli o de’ necessitosi di consiglio, assistita in questo lavoro dal segretario Gregorio Genesio.

XIX. In verità se un retore imprendesse ad ornare col discorso e colle tinte dell’arte gli antedetti argomenti, come potrebbe a meno di non persuadere essersi costei non solo renduta superiore a quanti narransi ab antico, d’ambo i sessi, montati in altissimo pregio di virtù, ma di avere per anche ottenebrati i loro più splendenti raggi di gloria? Da senno che non avverrebbe altrimenti, ov’egli con vibrate ed acconce sentenze e con isquisito apparato di scelti concenti si accingesse a celebrare le azioni considerate in sè stesse della nostra eroina e ad istituirne colle altrui un parallelo, dando maggiore impulso alla sua facondia, come vogliono i precetti dell’arte, onde vie meglio far comprendere il grandissimo intervallo di preminenza che loro si conviene. Ma noi, professata la storica semplicità e quindi impedite di ricorrere all’arte oratoria, è giusto che riportiamo venia da quanti forse di veduta o pratica stati essendo testimonj della virtù, magnifica dignità, prontezza di sagacissimo ingegno in tutte le circostanze, e prestantissima sapienza di questa matrona, rimarranno sorpresi od anche monteranno in collera osservando qui trattato con freddura e grettezza così grave ed illustre suggetto. E’ si pare inoltre che il motivo stesso dell’intrapreso lavoro non mi consenta di proseguirlo molto diffusamente, la quale rimembranza sebbene di continuo ferisca le mie orecchie e distolgami dall’andare più innanzi, pure non so indurmi, una volta deviatane, a farvi sì presto ritorno. La stessa mia avola poi non solea dedicare l’intiero giorno all’imperiale reggimento, ma in determinate ore davasi agli uffici di religione, assisteva al sacrificio liturgico, giusta la canonica usanza, nel tempio della martire santa Tecla, fatto costruire dall’imperatore lsaacio Comneno per tal quale cagione, che passiamo ad esporre.

XX. I principali infra Daci annoiati della fatta lega in altri tempi co’ Romani, e divisando poterli guerreggiare, cominciato aveano i loro assalimenti; uditone i Sauromati, detti ab antico Misii ed abitatori di là dalla ripa dell’Istro, dove questo fiume col suo alveo segnava il termine della romana signoria, disdegnarono pur essi di rimanere più a lungo entro de’ proprj confini. Laonde travalicatili pervennero armata mano sulle nostre frontiere per vendicarsi cogli innocenti Romani, trasandati per impotenza i veri nemici, delle offese ricevute dai Geti, che d’altronde colle scorribande e co’ ladronecci erano addivenuti loro molesti. Per queste cagioni adunque saliti in furore ed avendo noi a vile, colta l’opportunità del congelamento dell’Istro, inoltrarono per quella superficie, non altrimenti che segnassero orme sopra terra ferma, ed a mo’ non di scorreria, ma di compiuto traslocamento l’intiera nazione si pose a stanza sulle nostre frontiere con grave danno del paese e delle città confinanti. A tale annunzio l’imperatore Isaacio estimò conveniente di occupare Triaditzam; tolta così agli orientali barbari la facoltà d’imprendere o di nuocere li obbligò, sebbene lor malgrado, a rimanere tranquilli; quindi non avendo più che temere di là, marcia con tutto l’esercito alla volta de’ Misii per mandarli fuori delle romane terre. Costoro impauritisi alla vista dell’esercito e del condottiero si divisero in contrarj pareri, inclinando parecchi alla pace. Se non che l’Augusto risoluto di non prestarvi orecchio muove ostilmente egli stesso colla schierata falange a combattere la più munita parte del campo loro, e coll’improvviso arrivo, facendo mostra così da vicino della propria persona e delle sue truppe, destovvi grave scompiglio. Sì tanto in vero ch’e’ non osavano rimirare l’armato duce vibrante lor contro terribili e fulminei sguardi; l’ordinanza inoltre della falange, e l’unione ed il collegamento degli scudi con artificio indissolubile insieme congiunti presentavano orribile spettacolo a quegli occhi avviliti. Si ritirarono pertanto e di maniera che nel medesimo giorno, abbandonate quivi le tende, ma colla minaccia di tornare, scomparvero; in fatto nel terzo dì eccoli novamente ad intimare battaglia. Se non che Isaacio addivenuto padrone del campo affardella e retrocede vincitore. Di là giunto alle radici del monte Lobitza è sorpreso da strabocchevole pioggia e da neve intempestiva, correndo il dì ventesimo quarto di settembre, dedicato a solennizzare la memoria della gran martire Tecla. Il perchè gonfiatisi immensamente i fiumi, ed inalzate lor acque grandissimo tratto sopra le sponde, all’istante inondarono la pianura, ov’erano l’imperial padiglione e le tende a riparo di tutto l’esercito, dandole l’aspetto d’un estemporaneo mare. La vittuaglia in un colle bagaglie furono per intiero ingojate e seco trascinate dalle acque. Gli uomini ed i giumenti agghiadavano dal freddo; l’aere muggiva con orrendi tuoni, e non balenava già ad intervalli dando a otta a otta tregua la celeste fiamma; sì bene ovunque ti facessi a mirarlo, somigliava a non interrotta ammosfera di orrido fuoco.

L’imperatore durò qualche tempo nel massimo cordoglio alla vista di cotanto grave sinistro; di poi al mitigarsi un poco l’impeto della burrasca die’ pur egli segno di respirare alquanto, e traendo con avidità profitto da questo allentamento, seguito da scelto numero de’ suoi militi campati dai vortici delle onde, che sommerso aveanne di molti, ebbe opportunità di riparare sotto un alto e grosso faggio. Se non che fattavi breve dimora sorpreso da fortissimo strepito proveniente dal mezzo delle fronde stesse del ramoso albero, ed osservata la rabbiosissima foga de’ venti, che da imo a sommo agitavano con gagliardia la pianta, si ritrasse tutto trepidante, e preferì anzi rimanere a cielo aperto, che sotto il mal sicuro asilo. Allontanatosene poco più di quanto e’ si parea necessario, perchè l’albero precipitando non piombassegli sopra, quivi tutto impaurito s’intratteneva: ed ecco, fosse quasi in aspettativa di ciò ch’era per avvenire, la travagliata quercia, con ispaventevole fracasso e grande scuotimento del suolo per lunga tratta, cadere schiantata fin dalle profonde sue radici. L’Augusto allora comprese immediatamente essere opera divina il beneficio della propria salvezza, e divulgatasi in questa la voce di qualche ribellione tramata dagli orientali retrocedette con prestezza somma in Costantinopoli pieno la mente del pensiero d’inalzare un elegantissimo tempio alla gran martire Tecla, impiegandovi largo danaro e decorandolo con ogni maniera di ornati assai pregevoli non meno per la materia che per la esecuzione. Quivi egli, tosto compita l’opera, venerando con rito cristiano il Nume gli rendè grazie dell’averlo così mirabilmente salvato, e di poi assiduo frequentollo per farvi le sue preghiere. Mercè di che eziandio l’imperatrice madre dell’Augusto scelto avea lo stesso tempio consacrato a Dio, come narrava, per assistere cotidianamente a’ pubblici doveri di religione. La qual donna ebbi pur io la fortuna per breve tempo di vedere ed ammirare, sebbene viva in me la fiducia che le sue accennate virtudi riportar debbano piena fede anzi invocando la pubblica universale contezza e la sincera confessione dei non invidi, che la oculata testimonianza della scrivente. Poichè, lo ripeto, se fossimi proposta di tessere un elogio invece d’una storia, molto più certamente mi sarei dilungata riferendo altre pie e commendevoli azioni di questa matrona, ma è ormai tempo di rannodare il filo, da lunga pezza interrotto, delle pubbliche bisogne.

XXI. Alessio vedendo l’impero agli estremi, devastandone i Turchi le orientali provincie, ed alle occidentali sovrastando Roberto, il quale movea ogni corda per mettere sul trono il falso Michele, o meglio ancora, valeasi furbescamente del pretesto d’un omiciatto onde far pago il desiderio da pezza natogli e fin qui rimaso nella sua mente di aprirsi la via all’imperio; cupidigia che, dal fumo e dalla cenere divampata in fiamme da per tutto minaccevoli, avea già principiato da occaso ad abbruciare col suo grande e veemente incendio le romane frontiere, essendosi ovunque per la terra ferma da lei raccolto numerosissimo esercito ed in molta copia apprestate nelle piagge di que’ mari triremi, e biremi da rimorchiare, e navi da carico di per sè veleggianti. Il valoroso giovine, ripeto, vedendo, e considerando ne’ principi del suo impero così gravi ostacoli forte agitavasi, non a bastanza certo da qual parte si dovesse rivolgere, di là traendolo i Turchi a combattere, di qua i Normanni. Principalmente poi lo contristava il meschino e deplorabile stato delle romane truppe ridotte a trecento comateni, e questi nè fermi, nè dall’esperienza ammaestrati. Gli ausiliari inoltre componevansi di ben pochi barbari spettanti alla classe di coloro, i quali sogliono portare pendenti dall’omero destro, a foggia di scari, spade a due tagli e fornite di manico. Nè l’esausto erario potea somministrar pecunia per fare leve di milizie, o chiamare gli aiuti de’ popoli confederati, essendosi dai reggitori dell’imperio nel corso di alcuni anni addietro in forma vuoi di comandamenti, vuoi di trascurataggine con tale scioperatezza ed imprudenza condotti gli affari che la buona fortuna del nome romano sembrava toccare gli estremi. E che sì; ricordami di avere udito dai loro vecchi e da coraggiosissimi guerrieri, i quali non avvilisconsi per poco, essere stata cotanta la miseria entro queste mura, vicino all’epoca in cui Alessio pervenne alla monarchia, rintronante allora nelle orecchie e negli animi dell’intiera cittadinanza la voce e lo spavento delle guerre turca e normanna, quanta a memoria d’uomini, quanta per lo innanzi non ebbene a patire altra popolazione.

XXII. Tali imbarazzi distraevano per verità la mente imperiale in varie cure, ma non distoglievano il suo animo, generoso e confidente nella pratica e scienza guerresca, dalla speranza di riuscir tuttavia, coll’aiuto divino, a condurre sana e salva la nave della repubblica in sicuro porto, risolvendo in ischiume, quali flutti urtati contro a scoglio, i nemici che osassero fargli opposizione. Pieno di questa speranza e fermo nel proposito mette mano all’impresa, ed innanzi tutto opina di chiamare presso di sè i comandanti delle città e fortezze lungo i confini orientali, onde prestassero alla repubblica braccio possente col respignere gli assalti de’ Turchi. Serive dunque tosto a Dabateno prefetto della pontica Eraclea e della Paflagonia, a Burtzen toparca13 della Cappadocia e della Comatena, ed agli altri in comando per que’ luoghi, significando loro di essere campato, per benefizio della misericordia divina dall’imminente pericolo delle tramategli insidie, ed asceso l’imperial trono. Commette loro inoltre che muniti d’idoneo presidio i luoghi ad essi fidati, lo raggiungano prestamente nella capitale col resto della soldatesca e con leve quanto mai possono copiosissime di nuovi soldati. Dopo di che volta la mente alle occidentali faccende escogitava i mezzi di resistere a Roberto e d’impedire a tutt’uomo che i duchi ed i conti non proseguissero ad unirglisi come aveano cominciato a fare. E di questo pensamento s’avea Monomacato, il quale, come già riferivamo, da mio padre, non per anche in possesso dell’imperio, richiesto di pecunia mandavagli sole parole, scusandosi coll’avere obbligato sua fede al regnante; era quindi giusto il timore non costui, udita la rinunzia di Botaniate, si desse a Roberto. Il perchè sollecito a preoccuparlo spedisce suo genero Giorgio Paleologo a Dirrachio (città illirica) coll’ordine di tentare ogni via, salvo la violenza, privo del necessario per riuscirvi armata mano, a fine d’indurlo a partire. Inculcavagli altresì di fortificare l’antedetta città contro gli apprestamenti di Roberto, risarcendo le mura e le macchine, e fabbricandone di nuove; si guardasse al postutto dall’apporre chiovi comunque al legname della merlatura, acciocchè il presidio potesse agevolmente rovesciarlo, giunta l’ora della scalata, sopra i latini assalitori. Scrisse del pari lungamente ai prefetti delle città marittime ed agli isolani, esortandoli a non perdersi di animo, nè ad annighittire, stessero in cambio cogli occhi intenti a Roberto per tema non questi, colpa e vergogna loro espugnate le città ed isole confinanti, prendesse in seguito a trambustare la repubblica e l’impero. Così di contro, ma ben anche altre mene gli tramò da tergo, adoperando, intendomi per via di lettere ad inimicargli Germano duca della Longobardia, il romano papa, ed Erbio arcivescovo di Capua. A simile con generosi doni all’atto, colla promessa di ben maggiori nell’avvenire, e colla speranza di onorevoli premj studiossi renderlo odioso a tutti i principi e duchi delle galliche regioni. Nè operò indarno; essendo che parecchi di essi allietati dalle offerte disdissero a Roberto lor amicizia, ed altri obbligaronsi, ricevendo più rilevanti largizioni, di fare lo stesso.

XXIII. Ma nella persuasione che vie meglio degli antedetti avrebbe potuto re Enrico trarre a mal partito il rivale si pose con particolar diligenza ad acquistarne la grazia e indurlo a strigner lega seco. Laonde tentatolo una e due volte con blandissime lettere e con assai larghe promesse, allorchè lo conobbe non lontano dall’aderire gli svelò per intiero il suo animo in questo terzo foglio speditogli col mezzo di Cherosfatte.

L’imperiale nostra maestà fa voti e si congratula teco, arcipotentissimo e cristianissimo fratello, che gli stati del fermissimo tuo dominio vadano tutto dì prosperando. Che mai, a fe di Dio, può avervi di più convenevole alla nostra religione, cui è provatissima la tua pietà verso il divin culto, dell’augurarti ogni benavventuranza, e del rivolgere al comun Signore prieghi affinchè le cose tue procedano sempre di bene in meglio? E di verità la propensione del tuo buon volere a nostro riguardo e le determinazioni prese onde trattare giusta i suoi meriti quello scellerato e fanatico nemico del Nume e de’ cristiani, chiaro appalesano il grande affinamento e la santità dell’animo tuo, e rendon testimonianza infallibile per sè stesse della tua fede e sincera affezione all’Onnipotente. Ora, per venire a noi, dirotti che gli affari di questo nostro impero in gran parte fioriscono ed egregiamente procedono, solo alcun che traballanti laddove Roberto li conturba. Ma, se dobbiamo por fede in Dio e ne’ suoi retti giudizj, una pronta morte andrà a colpire l’uomo inquietissimo; poichè il Nume non permetterà in conto veruno che la verga de’ peccatori graviti più a lungo sopra il suo patrimonio. Ferme poi le nostre convenzioni di mandare dall’imperiale nostra maestà alla potentissima tua signoria cenquarantatrè mila nummi e cento porpore, il tutto si è già spedito col messo di Costantino protoproedro e catepano delle dignità14, secondo il volere del tuo fedelissimo e nobilissimo conte Bulcardo. La qual somma di pecunia componesi di argento battuto e Romanato15 di antica stampa; ed appena la tua signoria avrà dato il giuramento e sarà di ritorno negli stati longobardi verrà incaricato Bagelardo, fedelissimo alla maestà tua, di recarti gli altri promessi dugento sedici mila nummi, e gli stipendj delle venti accordate onoranze. Quantunque poi non dubiti che la tua nobiltà abbia avuto prima d’ora contezza di quanto sia uopo giurare, non di meno ti verrà più chiaramente esposto dal protoproedro e catepano Costantino, cui furono commessi dalla nostra imperiale maestà tutti gli articoli che debbonsi addimandare ed essere da te sagramentati. Conciossiachè alloraquando si passò agli accordi infra la maestà mia ed i legati dalla tua signoria speditimi, ne furono prodotti alcuni rilevantissimi e necessarissimi, intorno a’ quali avendo esposto i rappresentanti della nobiltà tua di non avere mandato, la maestà mia prolungò loro il giuramento. Or dunque lo si compia dalla tua nobiltà, come il tuo leale e degno Alberto affermò alla maestà mia e come la maestà nostra addimanda, con un’aggiunta di somma urgenza. Cagione finalmente dell’indugio e della tardanza del tuo fedelissimo e nobilissimo conte Bulcardo si fu la brama della maestà mia che fossegli presentato il mio carissimo nipote figlio del felicissimo sebastocratore dilettissimo fratello della maestà nostra, onde annunziarti al suo ritorno la forza e l’acume dello spirito, in così tenera età, del fanciullo, da che è mio costume di fare minor conto dei pregi esterni e spettanti al corpo, sebbene egli anche di questi vada abbondantemente fornito, come udirai dal tuo legato, il quale dopo qualche dimora nella grande e regale nostra città lo vide e conversò a tutto bell’agio seco. E poichè l’amabilissimo figlio del mio germano io l’ho come da me generato, avendomi privo il Nume di prole maschile, nulla impedirà, col volere del Cielo, che l’amicizia di già tra noi esistente venga nel tratto successivo corroborata eziandio la mercè d’una strettissima parentela. E per cosiffatto pegno una eterna concordia ci legherà scambievolmente non solo come cristiani, ma ben anche per essere di nuziale affinità congiunti; di questo modo fortificatosi l’uno colla potenza dell’altro, addiverremo ambedue, piacendo al signore Iddio, terribili ai nostri avversarj. Mandiamo alla tua nobiltà in argomento di felice augurio i piccoli doni seguenti: Un’aurea croce ornata di grosse perle da portarsi ricadente, volendo, sopra il petto; un’aurea teca con entrovi reliquie di parecchi santi, i cui nomi sono indicati dallo scritto apposto ad ognuna di esse; un calice inoltre di pietra sardonica ed un bicchiere di cristallo; una piccola scure astriforme con aureo fermaglio, e balsamo. Prolunghi il Nume la tua vita, dilati i confini del tuo dominio, e renda conculcati ed infami tutti coloro che ti nimicano. Abbiavi pace e tranquillità presso i tuoi sudditi, ed un sereno sole risplenda sopra tutta la terra a te soggetta. Sieno i tuoi nemici in obbrobrio, e ti conceda la celeste potenza del Nume inespugnabile forza ed accertata vittoria, sì grandemente amando tu il vero nome di lui, ed armando il tuo braccio contro de’ suoi oppositori.

XXIV. Alessio augusto, dalla regale città date queste disposizioni per l’occaso, e rintracciando con accuratezza ogni mezzo onde contradiare gli ostili divisamenti appalesatisi e di già in atto verso la sua persona e la repubblica romana, s’apparecchiava al minaccevole e sovrastante periglio. Ordunque al mirare gli empissimi Turchi di piè fermo all’intorno della Propontide, come abbiamo di sopra accennato, Solima, governatore di tutto l’Oriente e di stanza in Nicea (dov’era il Sultaniccio, che noi diremmo la reggia), con giornaliere scorribande per largo e per lungo mandare a ferro e fuoco tutta la piaggia di prospetto a Tinia e Bitinia, infino allo stesso Bosporo, nomato ora Damali, e quando con truppe in sella, quando con fanti e tranquillissima sfrenatezza mettere ogni luogo a ruba, e pronto non solo a travalicare lo stretto colle navi, ma, che più monta, ad assalire la città; i Bizantini poi, quantunque aventi il nemico sotto degli occhi, proseguire imperterriti lor dimora nelle terricciuole site intorno ai lidi, e ne’ sagri templi, nessuno cercando intimorirlo e cacciarlo, pieni di spavento e costernazione eglino stessi per non sapere a qual partito appigliarsi. Il Comneno, ripeto, alla vista di così tremende sciagure e dopo essersi lungamente agitato in un mare di variati pensieri, si determinò infine per altro di essi, e tosto volle mandarlo ad effetto nel modo a un dipresso che prendo a narrare. Mette sopra navicelle i decurioni colle genti da loro comandate, scelte infra Romani e Comateni descritti ne’ ruoli per l’imminente pericolo, ed armati parte alla leggiera di solo arco e scudo, e parte di lorica, celata ed asta, ordinando ai condottieri di girare nelle ore notturne intorno a’ lidi, ed avvenendosi a qualche stazione di barbari superanti non di molto il numero loro, discesi alla coperta farebbonsi ad assalirli, quindi con pronta ritirata irebbe di nuovo ognuno al luogo di sua partenza. Avvertivali inoltre di eseguire cautamente l’impresa, estimandoli incapaci di tanto per sè stessi non essendo ancora esperti della tattica militare, d’ingiugnere ai nocchieri il dar ne’ remi col minore strepito possibile, e di tener eglino medesimi ben Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/205 d’occhio i barbari soliti ad ascondersi insidiosamente nelle fenditure delle rocce. Ripetuti da costoro per alcuni giorni siffatti scorgimenti ed assalti, piede innanzi piede i Turchi della marina riparavano nell’interno della regione. L’imperatore avutane contezza ordina a’ suoi di occupare le terricciuole e gli edifizj non guari prima in mano de’ barbari ed ora deserti e di pernottarvi, ond’essere pronti coi primi albori, quando bisogno di vittuaglia o d’altro metta il nemico fuori del campo, ad attaccarlo, e rimasi vincitori, contenti del primo riportato vantaggio, torneranno, sonato di colpo a ricolta, nelle proprie stanze, per tema non dandosi con qualche risico ad accrescere la conseguita vittoria, un piccolissimo tocco sinistro imbaldanzisca gli avversarj soliti ad essere prevalenti. Nè da lungo tempo e’ aggiravansi in tali pratiche quando i barbari vie più allontanatisi giunsero a piantare sopra terreno maggiormente sicuro il campo. Alessio allora fe’ comando a’ suoi militi finquì pedestri di montare in arcione, vibrare l’asta, importunare e molestare con iscambievoli scorribande il nemico, non più cimentandosi furtivamente nelle ore notturne, ma di pieno giorno e provocandolo con arditezza. Ad aumentare poi il coraggio loro pone sotto i decurioni cinquanta individui in luogo di dieci, a fine d’incutere maraviglia ne’ barbari al mirare quelli che testè in poco numero, pedoni e col favor della notte eran paghi di rubacchiare lievissimi avvantaggi, ora surto l’astro maggiore, e perfin giunto alla metà del suo corso diurno, cercassero animosi di venire a battaglia campale. Non altrimenti la turchesca potenza a poco a poco venendo meno, si parea che la dignità e libertà del romano impero, quasi da semispenta ed appena fumante scintilla tornate a prendere vita, risplendessero con nuova e molto più diffusa fiamma. Poichè il Comneno allontanando i barbari non solo dal Bosporo e dalla marittima regione, ma pur anche dai luoghi di contro alla Bitinia, alla Tinia e dalle frontiere di Nicomedia a tale ridusseli che il sultano loro tutto impaurito fu costretto a chiedere istantemente la pace. Alessio non vi si rifiutò, obbligato a consentirvi dal crescere universalmente la voce, fondata sopra infallibili autorità, della venuta di Roberto, il quale, con immenso numero di truppe e con impeto veementissimo inoltrando per guerreggiare l’impero, trovavasi non lontano dai lidi longobardi, e di là pronto a movere alla volta de’ Romani. Neppure un Ercole invero, come suol dirsi, avrebbe da solo intrapreso a combattere due nemici, rinvenuto avendo in ispecie il giovane imperatore negli stessi principi del suo reggimento la repubblica in compiuta rovina, la quale non più, come da lungo tempo, dechinava insensibilmente a morte, ma di carriera volgeva al suo sterminio, sembrando quasi agli estremi ed in assoluto conquasso per mancanza di truppe e danaro, il tutto divoratosi in addietro e prodigalmente consumato senza ombra di pubblica utilità. Questa eccessiva e generale diffalta sollecitò Alessio, quantunque mal suo grado e tosto che rispinto ebbe i Turchi ben lunge da Damali e dalle marittime piagge, di accettare i doni a que’ di estimati di competenza nell’accogliere i supplichevoli barbari, e conceder loro ad un tempo la pace sotto le condizioni seguenti: Il fiume Draconte segnerà il termine de’ possedimenti loro, nè da quinci in poi e’ lo valicheranno con genti in arme, o commetteranno violenze sopra i confini de’ Bitinj; così ebbe fine l’orientale guerra.

XXV. Paleologo non appena giunto in Dirrachio spedì un corriero ad Alessio partecipandogli per lettera che Monomacato all’udire la sua andata erasi di fretta rifuggito presso Bodino e Michele, temendo non l’Augusto spedissegli Giorgio apportatore di qualche grave gastigo, memore di averlo gravemente offeso. Poichè allorquando il Comneno, scosso il giogo e aspirando al trono di Botaniate, diretto aveagli lettera con inchiesta di pecunia, e’ rimandò indietro il messo a mani vuote. Ma in pena di tale azione l’Augusto unicamente lo rimosse con decreto dalla prefettura, e saputane la fuga accordògli, mediante aurea Bolla, piena sicurezza, e quegli ricevutala tornò alla reggia.

XXVI. Roberto di stanza in Idrunte, dopo avere commesso al figlio Rogerio la cura e tutto il reggimento dell’italica signoria, postosi alla vela afferrò a Brundusio. Avuta quivi notizia dell’arrivo di Paleologo a Dirrachio ordinò che venissero con prontezza costruite sopra i maggiori vascelli torri di legno ed accuratamente circondate e coperte di bovine pelli; indi fatto tradurre sulle navi con diligenza somma ogni articolo necessario alla espugnazione di fortificate mura, comandato ai catafratti in sella di ascendere co’ loro destrieri i veloci legni appellati dromoni, e di fretta apprestato e provveduto il bisognevole ed utile ad imprendere una guerra, Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/209 Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/210 Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/211 Pagina:Comnena - Alessiade, 1846, tomo primo (Rossi).djvu/212 Ove chi un dì n’ebbe il trono, Pirro l’Epirota, dichiaratosi favoreggiatore de’ Tarentini e fatta ostinatissima giornata nell’Apulia co’ Romani, soggiacque a grande strage de’ suoi, rimanendovi ad una spento l’intero popolo d’Epidanno, il perchè la città si ridusse in perfetta desolazione e rovina. Col trascorrere degli anni tuttavia (come narrano i Greci e rendonne testimonianza i monumenti a vetusti caratteri scolpiti in essa) fu ristaurata da Amfione e Zero nella presente forma, e cambiando colle sue triste vicende anche il nome venne Dirrachio appellata. Ma basti intorno alle origini di lei, e sia pur qui meta al terzo libro, serbandoci a continuare la serie delle cominciate geste in quello seguente.

  1. Corpo di milizia presso la corte costantinopolitana.
  2. Il. γ᾿, v. 434.
  3. Nome composto dalle greche voci βῦς (bue) καὶ (e) λέων (leone).
  4. Etim. figlia di re.
  5. Rivolgimento di quindici anni, terminato il quale tornasi novamente a cominciare dall’unità. Nelle Bolle pontificie ha principio dal mese di Gennaio, ma negli imperiali Diplomi e negli altri strumenti cominciava l’ottavo giorno avanti le Calende di Ottobre. Intorno alla derivazione di questo nome, all’epoca della sua introduzione negli atti pubblici e notarili, ed al fine cui essa tendea V. Du Cange in Gloss.
  6. Demostene.
  7. Προτος σέβαστος, principe augusto, od un che di simile. Tale onoranza veniva non radamente conferita ai figli dello stesso monarca.
  8. Παν υπερ σέβαστος letteralmente risponderebbe all’italiano-tutto sopra augusto-augustissimo, titoli creati unicamente per solleticare l’ambizione dei cortigiani.
  9. Praefectus classis; grande ammiraglio.
  10. Ragunamento di sagge persone scelte dal sovrano per valersi de’ loro consigli nel governo dello stato.
  11. È quello che si aggiunge al soldato benemerito sopra la paga.
  12. Cancelliere. Quegli che ha la cura di scrivere e registrare gli atti pubblici de’ magistrati; e quegli che scrive e detta lettere di principi, di signori, di signoria, e simili, e che in oggi particolarmente vien nomato segretario.
  13. Governatore, reggente.
  14. Πρωτοπροέδρος, primo presidente, officio della greca chiesa; Κατεπανος, soprastante alle dignità. In generale preposto ad ogni maniera di cose.
  15. Ρωμανατος. E’ si pare fosse certo danaro battuto per ordine e coll’imagine di Romano Diogene augusto.
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