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III.
Lentamente, parlando sottovoce fra loro, il capitano Gigli, direttore del R. Bagno penale di Nisida e il regio ispettore carcerario Colonna, se ne andavano per le vie dell’isola, in quel pomeriggio di novembre. L’ispettore stava da tre o quattro giorni a Nisida, alloggiato nella medesima casa del direttore: era un piemontese di una cinquantina d’anni, assai metodico, assai scrupoloso e che compiva quell’ufficio un po’ burocraticamente, con molta minuzia, informandosi di tutto, volendo ragionare di tutto, analizzando le più piccole cose. Tranquillo, paziente, ossequioso a una volontà che egli rispettava profondamente, il capitano Gigli non abbandonava mai l’ispettore, dandogli tutte le notizie, tutte le spiegazioni desiderate, fornendogli registri e conti, perchè la relazione su Nisida potesse essere un lavoro completo.
— In generale, mi pare che siate soddisfatto — osservò l’ispettore con quel suo accento gutturale, che ha anche la sua simpatia.
— Abbastanza, commendatore. Tutto sembra meno difficile, quando si fa con devozione.
— Restate qui volentieri, dunque?
— Finchè mi ci lasciano — mormorò lui, un po’ vagamente.
— Credo che la vostra signora non ci stia egualmente bene — osservò il Colonna.
— È vero, poverina — rispose Gigli, con una tenerezza di voce — è un po’ gracile di salute, un po’ fantastica e l’ambiente, capite, sul principio, le era insopportabile.
— Adesso si è abituata?
— Un poco, mi pare. Certo mi è impossibile modificare un carattere naturalmente malinconico; ora mi sembra più triste, ma si è rassegnata, poveretta. È un cuore pieno di bontà.
— Bisognerebbe forse mandarla a Napoli — soggiunse l’ispettore, senza rispondere a quelle parole che rivelavano una emozione.
— I miei mezzi non lo permettono — disse brevemente il capitano Gigli. Tacquero. Erano giunti a una piazzetta dove stava sorgendo un nuovo edificio, fabbricato dai galeotti stessi. Essi andavano, venivano portando secchi di calce, curvandosi sotto le pietre, salendo vivamente le scale.
— Lavorano volontieri? — disse il Colonna.
— Non tutti. Ne ho una cinquantina, i più indomiti, i più pericolosi, a cui mi è stato impossibile di far lavorare.
— Avete adoperato i mezzi coercitivi?
— Li ho adoperati: li hanno inaspriti, ma non domati.
— Quali saranno le cause? Le potete immaginare?
— Sono quei condannati che hanno sempre fatto una vita da vagabondi, vivendo di furti, di rapine. Per loro il lavoro è una cosa insopportabile. Ne chiamerò uno.
E volgendosi a un galeotto, seduto sopra un sasso, che sbocconcellava un tozzo di pane, lo chiamò.
— Calamà?
Quello non si voltò neppure; neppure alla seconda chiamata. Gigli represse un piccolo moto d’impazienza:
— Ingannalamorte?
Allora il galeotto si levò. Era piccolo e grosso, con un ventre prominente e le gambe ignobilmente corte: aveva una grossa testa dal naso camuso, dai capelli simili a una criniera di spazzola, piantati diritti sulla fronte, e gli occhi biancastri. Teneva il berretto sul capo e continuava a mangiare, per nulla intimidito dalla presenza di Gigli e di Colonna.
— Come vi chiamate! — domandò severamente l’ispettore.
— Ingannalamorte — disse con voce rauca, il galeotto.
— Non avete un altro nome?
— Quello non conta — fece l’altro con disprezzo.
— Perchè non volete lavorare?
— Ingannalamorte non ha mai lavorato.
— Però la legge vi ha condannato ai lavori forzati.
— La legge può farmi stare qua dentro, non ci è che fare... Ma deve finire, Cristo?
— Non bestemmiate. Avete l’obbligo di lavorare.
— Stare qui, bè, non vi è da fare; portare la catena anche, questo è l’orologio che ci regala Vittorio. Ma faticare, perdio, no, mai!
Queste parole erano dette con un tetra energia.
— Potrebbe essere un buon titolo, per voi, il lavorare — disse l’ispettore Colonna.
— Che titolo! Sempre venti anni ho da fare. Ma chi sa se li faccio... — soggiunse, in aria di sfida.
— Come?
— Oh, tante cose possono succedere. Posso morire; e posso pure scappare...
— Da Nisida non si scappa — gli disse assai dolcemente, ma con fermezza, il capitano Gigli.
— Si scappa, si scappa — disse trionfalmente il galeotto — o si muore. Ma uno, vedete, eccellenza, è scappato.
L’ispettore interrogò con lo sguardo il direttore: costui disse di sì con gli occhi.
— Uno solo, è vero — continuò il fiero galeotto — ma dove uno è passato, passa l’altro. Tutto sta a non essere una carogna, come sono tutti qua dentro, a fare il gran salto. E poi.. e poi... ci deve star sempre questa legge, ci deve star sempre questo governo?
— Basta — gli disse l’ispettore severamente.
— Prenderò nota della vostra insubordinazione.
Quello si strinse nelle spalle e si allontanò.
— Indomabile, indomabile disse Gigli. — Ne ho cinquanta, almeno, così.
— Non si sono mai rivoltati?
— Una volta.
— Una soltanto?
— Si credono tutti grandi uomini, sprezzatori della legge e della condanna: e fra loro ognuno vuole avere il primato, tanto che si mettono difficilmente di accordo. Ciò mi dà un’arma contro di essi.
— Pure si sono rivoltati?
— Sì.
— Fu subito domata la ribellione?
— Non subito.
— Si ebbero delle conseguenze?
— Fui ferito da un colpo di pietra, alla testa.
— Scendeste fra i rivoltosi!
— Sì — disse semplicemente il capitano.
— Come cedettero?
— Parlai loro, li lasciai parlare. Volevano vedere le loro famiglie più spesso, una volta al mese, invece di ogni due mesi. Era una domanda giusta, l’accordai.
— Faceste bene. E vengono spesso, queste famiglie?
— Poche e rare. Ci sono colpevoli appartenenti alle provincie lontane che non ricevono mai una visita: altri di Napoli, vedono i loro ogni sei mesi. Altri... sono stati micidiali proprio in famiglia, e nessuno viene, capite. Vi è qui Rocco Traetta, detto Sciurillo, che ha ucciso suo padre; un galeotto tranquillo, giovine, che scrive continuamente a sua madre supplicandola di venirlo a trovare. Passano per le mie mani, le lettere. Sono talvolta strazianti.
— Ed è venuta, la madre?
— No, mai. Non ha neanche risposto alle lettere del parricida.
— Era naturale, — disse il rigido piemontese.
— Chissà, — disse Gigli, pensando. — Le madri sono così bizzarre e talvolta mostruose, nel loro amor materno. Ho creduto anche io, un poco, che sarebbe venuta. Suo figlio lo crede ancora: suppone che le sue lettere si siano smarrite, o che la madre abbia da lavorare e non possa venire; o che non abbia denari da venire a Nisida: o che sia lì lì per venire.
— Le dice a voi, queste cose, il Traetta?
— Al mio bimbo, — rispose Gigli, sorridendo.
— Al bimbo?
— Si. Traetta gli è sempre attorno, con la fedeltà e l’amore che hanno per i bimbi i grossi cani.
— E lo lasciate con lui?
— Sì. Credo che valga sempre meglio trattarli da uomini e da cristiani. Chi può far male ad una creaturina innocente? Anche il bimbo diventa più umano. È una maniera di dargli coraggio.
— Avete delle idee strane — osservò l’ispettore con un sorriso d’incredulità.
Erano giunti a una porta del grande edificio del Bagno. Dovevano visitare l’infermeria che era all’ultimo piano. Mentre salivano, incontrarono ancora dei galeotti, tenendo dei bicchieri e dei piatti.
— Li adibisco al servizio degl’infermi del piccolo ospedale.
— Credete che sia bene?
— Fra loro s’intendono meglio. La presenza dei carcerieri, continua, esaspera i più tranquilli. Agli ammalati, la evito.
— Spesso avrete dei falsi ammalati.
— Spesso. Ma è un inganno facile a sventare.
L’ospedale dei galeotti era formato da un solo stanzone grande, con quattro finestroni aperti sul mare; il pavimento era di terra battuta nera nera; le mura erano imbiancate semplicemente alla calce: ma i letti erano migliori di quelli dove dormivano i sani: non era il solito sacco a righe azzurre e bianche, gonfio di crocchianti foglie di granoturco, ma un materasso sottile di lana e delle lenzuola meno grossolane. Otto o nove galeotti erano ammalati, immobili e silenziosi nei loro letto, pallidi, guardanti il mare che si vedeva da tutte le finestre con certi occhi sognanti. Uno di essi, scarno, giallastro, chiamò il direttore con voce fioca.
— Direttore, direttore, perchè non mi fate fare la carità di un pezzo di carne? Non ne mangio da tanto da tanto tempo!
— L’avrai se il medico l’ha prescritta.
— Fatemi un’altra carità, fatemi piazzare di contro al mare, perchè io possa vederlo; qui gli volto le spalle e mi sento un’oppressione, un’oppressione!
Si lamentava con una piccola voce sottile, gemendo, sospirando, ripetendo le preghiere, ripetendo le parole, dimenando la testa smagrita. Gli altri ammalati che tacevano, lo guardavano con certi occhi meravigliati e infastiditi. L’ispettore, taciturno, girava intorno ai letti, guardando tutto, mentre ancora il galeotto piagnucoloso cercava qualche cosa, con insistenza.
— Ah, non poter neppure fumare la pipa, per digerire quelle quattro fave che ci danno, neppure fare una pipata, con questa bell’aria di mare!
— Non hai tabacco? — gli domandò, con grande pazienza, il capitano Gigli.
— E chi me lo dà? chi me lo vuoi dare, a me poveretto? Se avessi anche la buon’anìma di mia moglie, quella ci penserebbe a mandarmi qualche soldo...
— Se ti porti bene, se non ti lamenti sempre come fai, dalla mattina alla sera, quando stai bene e quando stai male, io ti pagherò del tabacco.
— E non ho ragione di lamentarmi, eh, direttore? — continuò a gemere il galeotto — voi siete buono, non c’è che dire, ma vi pare vita da cristiano questa? e questa catena che non ci possiamo mai levare, mai, anche quando il Signore ci castiga, facendoci stare ammalati: oh questa catena, questa catena, venisse un angelo e me la levasse!
Gemeva sempre: ma come ebbe nominata la catena, un profondo sospiro uscì da tutti quei petti, che avevano sulle loro carni il freddo contatto di quel ferro.
— È fastidiosissimo — disse il capitano Gigli, — ma è sempre ammalato, gli fo qualche concessione per questo.
— Gli è morta la moglie mentre era qui? — domandò l’ispettore, mentre scendevano le scale per andarsene.
— L’ha uccisa lui. Era un venditore di neve, di Caserta; lo chiamavano Ciccio il nevaiuolo. Costoro, per spezzare il masso di neve, adoperano una larga e tagliente ascia, con cui battono a colpi ripetuti. Con quell’ascia ha quasi tagliato il capo a sua moglie.
— Per gelosia?
— Sì, di un caporale. Lo arrestarono subito, seppe dopo che era morta, piangeva come un bambino. Anche qui piange talvolta, e grida che avrebbe fatto meglio a perdonarle, che le perdona, che la vorrebbe risuscitare e stare sempre insieme.
— Deve essere noiosissimo — osservò l’ispettore, riprendendo la via per tornare agli uffici di direzione.
Tacevano, camminando piano. Una gran dolcezza crepuscolare era intorno e il giorno bigiastro di novembre si attenuava nella sua ultima ora.
— Quanti finestroni sul mare! — disse come fra sè l’ispettore Colonna — e tutta l’isola istessa pare così facile all’arrivo e così facile alla partenza. Com’è che questi galeotti non pensano alla fuga?
— Ci pensano tutti — disse sottovoce il capitano Gigli. — I più tranquilli, i più laboriosi, i più indifferenti, i più distratti, i più ipocriti, ci pensano continuamente. Capite, pare loro di essere liberi, poichè li faccio andare e venire, poichè circolano dappertutto. Ne trovate sempre di costoro che s’incantano a guardare il mare, e io indovino dal loro assorbimento, dalla concentrazione delle ciglia, che calcolano mentalmente la distanza, la profondità dell’acqua, quanto vi è da qui ai Bagnoli, quanto vi è da qui a Procida.
— Eppure sembra poco custodita l’isola.
— Sembra — rispose sorridendo il direttore — ma venite a guardare l’altezza.
E guidandolo, lo condusse, dopo aver attraversato due strade, sino al ciglione. L’altezza faceva venire le vertigini, il mare, sotto, pareva un abisso.
— Così intorno, intorno — disse — e a ogni cento passi di notte e di giorno, vi è una sentinella. Di notte, le sentinelle crescono. Ogni quarto d’ora fanno il richiamo. L’evasione sembra la cosa più facile a questi disgraziati, sino a che arrivano al ciglione, donde debbono buttarsi in mare. Hanno troppa paura del salto. Una volta ne hanno trovato uno svenuto fra l’erba.
— Pure sono state tentate delle evasioni.
— Certo. Otto o dieci, delle quali almeno la metà sorprese dalle sentinelle prima che giungessero a buttarsi giù; e le altre quattro, consumate fino all’ultimo, ne ebbero una sola di riescita.
— Non lo riprendeste?
— No, era un marinaio di Napoli, di Santa Lucia, di quelli che vanno da bimbi in fondo al mare, a raccogliere la monetina da un soldo. Sono palombari dall’infanzia, li chiamano sommozzatori. Non lo riprendemmo mai. Deve esser espatriato, su qualche nave mercantile, all’estero.
— E gli altri tre?
— Sono morti tutti tre. Mi diceva una sentinella che il grido udito, mentre uno di essi andava giù, fu così straziante, che intese subito esser morto colui che evadeva. Difatti li abbiamo sempre ritrovati, il giorno seguente, sugli scogli, morti.
— Ciò sarà stato di esempio salutare agli altri.
— Abbiamo riportato i corpi sfracellati: ciò ha fatto un gran terrore. Ma che importa, sognano sempre l’evasione! Quello con cui combattono è appunto la paura della morte. Hanno orrore di morir qui, tutti nella galera. Bisogna dire che il nostro cimitero fa spavento. Malgrado tutti i miei sforzi, non ho trovato nè un galeotto, nè un soldato che volesse assumersi la custodia del piccolo camposanto. È caduto in parte il muretto, non uno dei galeotti muratori ha voluto riattarlo. Li ho puniti: inutilmente Anche ai soldati fa ribrezzo. Già sono malinconici di questa vita di carcerieri che fanno qui: non voglio obbligarli a più tristi bisogne. Vorrei essere autorizzato, dai miei superiori, a far la spesa d’un custode, un qualunque cittadino. Ma non ho mai avuto risposta alle mie lettere, su tale rapporto. Vi assicuro, signor ispettore, che il solo vedere quest’orribile camposanto, fa passare, per poco, le velleità dell’evasione ai galeotti. Voi dovreste interessarvene, nella relazione.
— Vedrò, vedrò — rispose il Colonna vagamente.
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Sulla terrazzina della casa, donde, fra due edificii dirimpetto, si vedeva un angolo di mare, avevano distesa una provvida tenda di tela, per ripararla dal sole e dalla umidità. Quando il piccolo Mario era preso da quella grande indolenza che veniva dalla sua debolezza, nelle ore in cui rifiutava tutto e non voleva nè giuocare, nè passeggiare, nè dormire, nè andare in carrozzetta, e s’incantava nella contemplazione malinconica, taciturna, di cose che neanche la madre indovinava, allora lo portavano, con la poltroncina, coi giocattoli, coi libri delle immagini, sulla terrazzina dove fiorivano, nei vasi, i garofani screziati, le viole del pensiero, i geranii rossi fiammanti, la maggiorana odorosa e l’odoroso basilico. Potevano anche lasciarlo solo, il bimbo, sulla terrazzina, per ore intiere, egli non chiamava nessuno. Restava tranquillo, sfogliando ogni tanto, con le mani candide, quasi trasparenti, il suo libro d’immagini, guardando il mare, muto, immobile. La pallida madre, allora, fissava con gli inquieti occhi il mesto bambino e talvolta, presa da una strana paura, si veniva a inginocchiare innanzi alla sua poltroncina, lo circondava con le sue amorose braccia materne, lo interrogava ansiosamente:
— Che hai?
— Niente, mamma.
— Ti senti male?
— No, mamma.
— Proprio, non ti senti male?
— No, mamma — rispondeva il piccolo figlio, sorridendo con una pazienza angelica, rassomigliando a un ragazzo grande, saggio e affettuoso.
— Sei contento, Mario?
— Contento.
— Vorresti andare a Napoli, nevvero?
— Sì, mamma.
— Oh figlio mio, figlio mio — diceva ella baciandolo desolata.
— Ma anche qui è bello, anche qui è bello — ripeteva il bimbo abbracciando sua madre, poggiandole la guancia sulla spalla.
— Povero figlio, povero figlio — mormorava ella, come se una immensa pietà di quel bimbo le struggesse l’anima.
— È bello, è bello, qui — diceva lui macchinalmente come un buon piccolo fanciullo ragionevole, che non vuol dare dispiacere a nessuno.
Ma la madre non si convinceva, no. Ogni volta che vedeva suo figlio pallido, silenzioso, un dolore acuto la invadeva e pensava sempre:
— È questa galera, è questa galera!
Ah niente, niente poteva difenderla contro quest’orribile pensiero. Per sempre la sua gioventù, la sua gaiezza, le sue illusioni oramai sfiorate, disperse: non avrebbe mai goduto più un’ora d’inebbriante felicità, l’ora semplice e grande che è concessa ai più umili destini, l’ora della giovinezza vibrante. Ma di sè, oramai che le importava? Il suo strazio era per quel piccolo figlio, fiore delicato, nato nell’ambiente di una galera, cresciuto fra quella immane perpetua tragedia di centinaia d’uomini incatenati, povero fiore per sempre turpato dalla immonda compagnia. Certo, il bimbo indovinava, sapeva di trovarsi fra i ladri e gli omicidi; e la sua malinconia, così triste in un bimbo, lo sfiorimento della sua salute avevano questa causa.
È la galera, è la galera — pensava fra sè la madre.
Pure, poichè suo marito lo voleva, poichè il bimbo stesso, in quel momento, ci si divertiva, essa lasciava che Rocco Traetta spingesse la carrozzella, che tenesse compagnia al bimbo sulla terrazzina, che cercasse di accomodargli i giocattoli spezzati. Silenzioso, umile, Rocco Traetta scivolava per la casa, tenendo stretta la catena alla gamba per non farla stridere, facendosi piccolo, evitando la presenza di Cecilia di cui sentiva il ribrezzo, andando sempre dietro al piccolino, come un’ombra, guardandolo negli occhi così fissamente e teneramente, che pareva, il suo, lo sguardo di una donna, di una madre. Ogni giorno, venendo alla casa del direttore, si fermava sulla porta, senza entrare, senza bussare, aspettando, come un cane a cui si deve buttare un osso e che non osa cercarlo e fida sulla memore pietà degli uomini. Talvolta passava Grazietta e gli diceva:
— Entrate.
Talvolta, nessuno passava ed egli stava un’ora là, fermo, come una statua. Ben felice se Cecilia, affacciandosi al balcone, vedendolo lì, sapendo che ci stava da un pezzo, come in orazione, gli diceva, superando il naturale disgusto:
— Salite pure.
La commoveva l’implorante sguardo di quel giovanotto forte, che chiedeva mutamente, come una grazia, di vedere il piccolo figlio, di potergli stare vicino. Quando aveva sentito quella parola, il galeotto arrossiva di gioia, saliva prestamente senza rumore, le passava accanto col berretto in mano, chinando gli occhi, trovava subito il bimbo, lo levava su, in aria, mentre quello ridacchiava.
Passavano le ore fuori quella terrazza. Il galeotto sedeva per terra, la catena giaceva accanto a lui: e una bizzarra conversazione si stabiliva fra Mario e Rocco Traetta, interpolata da lunghi silenzii:
— Chi te lo ha fatto questo vestito, Sciurillo?
— Il governo.
— E pure questa coppola? (berretto).
— Sissignore.
— È buono il governo — diceva il ragazzo.
Il galeotto lo guardava, tacendo. Se il ragazzo avesse detto, in un’ora del meriggio, che era notte, egli avrebbe mormorato: sì, è scuro. Poi dopo un intervallo, il bambino incominciava:
— Che ti hanno dato da mangiare, Sciurillo?
— Fave nel brodo, signorì.
— E per secondo piatto?
— Pure fave nel brodo.
— E per frutta?
— Le fave — diceva ridendo il galeotto.
Ora ridevano ambedue. Il ragazzo a un tratto divenne pensoso:
— Io ho mangiato i maccheroni, Sciurillo — diceva riflettendo.
— Salute a voi! — dicea ridendo Sciurillo — Ti piacciono a te, i maccheroni?
— Sissignore.
— Un’altra volta ne mangerò meno, te ne conserverò un piattino.
— Non importa, signorì — diceva il galeotto intenerito.
— Sì, sì, tu li mangerai — gridava il ragazzo un po’ arrabbiato.
— Sissignore, sissignore, non vi prendete collera — rispondeva subito Rocco Traetta, spaventato.
Il bambino, annoiato, sfogliava il suo libro d’immagini.
— Leggi qua sotto — diceva a Sciurillo, indicandogli una leggenda sotto una figurella.
— Non sai leggere? Oh quanto sei scemo!
— Se sapessi leggere, non starei qua — disse, dopo aver pensato, malinconicamente, Rocco Traetta.
— Tu stai qua, perchè sei un birbante, — disse ridendo il bimbo.
— Sissignore — mormorò il galeotto — ma chi sa leggere, non va in galera.
— Tu sei un birbante e ti hanno messo in galera — insistette, arrabbiato, il ragazzo.
— Sissignore, sissignore, — mormorò umilmente Sciurillo.
Tacevano. Il fanciullo guardava i garofani screziati che fiorivano ancora, malgrado il novembre, tanto era soleggiato il terrazzino. Uno strato di polvere copriva tutte le piante.
— Debbo innaffiare? — domandò il galeotto indovinando il pensiero del ragazzo e levandosi su.
— Sì: ma non buttare molt’acqua, Sciurillo.
Il galeotto, sempre con quel suo fare silenzioso, scivolò nell’appartamento e andò in cucina a riempire l’innaffiatoio.
— Ci sono le casseruole di rame da strofinare — disse Grazietta che volentieri si scaricava della fatica sul galeotto.
— A un altro poco: ora il signorino vuole che innaffi le piante — disse pazientemente Sciurillo.
Fuori il terrazzino, con molta delicatezza egli faceva piovere l’acqua sulla terra un po’ bruciata dei vasi; il bimbo seguiva con molta attenzione l’operazione.
— Innaffia anche un poco le foglie, Sciurillo.
— Sissignore.
Era rimasta un po’ d’acqua nell’innaffiatoio. Sciurillo la buttò sulla terra del terrazzino in giro, per rinfrescarla.
— Dammi un garofano, Sciurillo.
Il galeotto spiccò delicatamente un garofano e lo diede a Mario.
— Questo lo voglio dare a mamma — disse pensando il ragazzo.
— Sissignore.
— Vaglielo a portare tu.
Il galeotto guardò il bimbo, con una cera spaurita.
— Va — comandò il ragazzo.
— Signorino... — disse lui, esitando — perchè non glielo date voi?...
— Perchè?
— Sarà meglio, sentite, signorino che glielo date voi, questo garofano. Da voi le fa piacere, signorino.
Gli tremava talmente la voce che anche il bimbo comprese la sua emozione. Mario lo guardava, fisamente.
— La madre vostra non ci può soffrire — disse il galeotto perchè siamo tanti birbanti. Ha ragione — soggiunse umilissimamente.
— Ha ragione — replicò il bimbo.
E levandosi su sulle gambucce un po’ deboli, tanto erano sottili, rientrò nella casa, gridando:
— Mamma, mamma!
Si udì come un grande schiocco di baci e come fra sè il galeotto sorrise. Ora levava le foglie secche alle piante, e pensava che Grazietta gli aveva detto di strofinare il rame, in cucina. Ma il bimbo riapparve sulla porta del terrazzino, venne di nuovo a buttarsi, con ciera stanca, sulla sua poltroncina, sfogliando il suo libro d’immagini, con mani lente, con gli occhi vagamente fissi di chi non vede. Poi, dalle ginocchia, il libro gli cadde per terra: il galeotto accorse a raccoglierlo.
— Non lo voglio — disse il bimbo, disgustato.
— Che volete, signorino?
— Niente, niente — fece il bimbo, crollando il capo.
— Volete che vi racconti una storia?
— No, sono brutte.
— Volete che vi canti una canzone?
— .... sì canta — fece il bimbo sorridendo.
E il galeotto cominciò allegramente:
Si iesco da ccà dinto carcerato
Voglio fa venì nu serra— serra,
Voglio fa nchiude tutto lu Mercato,
Voglio mette a revuoto mare e terra.
Cantava sottovoce, ma allegramente, la minacciosa canzone del carcerato, che vuol mettere a fuoco e fiamme, quando è uscito di carcere.
— Questa è troppo allegra. Cantane un’altra — disse languidamente il bambino.
E il galeotto, piano piano ricominciò a cantare una vecchia canzone triste, che sapeva fin da Napoli, dal carcere di San Francesco dove aveva aspettato due anni la sua condanna. Canzone triste, lunga, sopra un metro bizzarro, con rime fantastiche:
A San Francisco
Già ssona la sveglia,
Chi dorme e chi veglia,
Chi fa nfamità!
Sottovoce cantava, tenendosi i ginocchi con le mani, crollando il capo col berretto rosso. Il bimbo ascoltava, socchiudendo gli occhi.
E a San Francisco
Ce stanno e’ccancelle,
E’ninne chiù belle
Llà stanno a penà.
Ma vì che m’ha fatto
Stu rillicato e’Ppuorto
Me vo’ vedè muorto.
. . . . . . . . . . . .
Il bimbo aveva due o tre volte chinato il capo alla bizzarra lentissima cantilena. E il galeotto riprese la strofa, quella che invoca la liberazione:
Ma se mme passa
Sta scjorta de tossa
La coppola rossa
I’ voglio abbruscià.
Il bimbo dormiva. Il galeotto canticchiava ancora la triste canzone del carcere, per cullarne il sonno innocente.