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V.
Nella penombra della stanzetta, di cui erano quasi chiuse le imposte, chinandosi sul lettuccio del piccolo ammalato, parlando sottovoce, con un soffio di voce solamente, la mamma gli diceva una storia di fate. Il piccolino infermo ascoltava con gli occhioni spalancati e ardenti di febbre, con le vivide labbra secche, un po’ tumefatte, socchiuse, da cui faticosamente fischiava il respiro; da cinque giorni la difterite gli stringeva la gola infiammata, cosparsa di bianche pustole maligne. Due volte al giorno e talvolta anche tre il dottor Caracciolo veniva a visitare il bambino, gli dava il valerianato di chinino per abbassare il grado acuto della febbre e procedeva alla causticazione, asportando le pellicole bianche, strappando delle grida dolorose al piccolo paziente. Pallida, muta, rigida, la madre assisteva all’operazione, e mordevasi le labbra per non gridare. Ogni tanto solamente, diceva, con un pietà immensa nella voce:
— Figlio mio, figlio mio, figlio mio!...
Ma un’ora dopo l’operazione, passato alquanto il bruciore della causticazione, il bimbo respirava più liberamente, la febbre discendeva di calore, egli sonnecchiava senza quel fischio del respiro, che straziava l’anima della madre; chiedeva da bere, chiedeva da mangiare con ansietà e gli davano dei forti brodi con uova battute, gli davano dei bicchieri di marsala, poichè la nuova terapia diceva che nelle alte infezioni del sangue, bisogna sostenere vivaci le forze del corpo. La madre si consolava, vedendolo mangiare con voracità, vedendolo bere con una sete divorante; e come si assopiva dopo, ella appoggiava il capo sull’origliere bianco dove dormiva anche il suo piccolino. Egli dormiva per un’ora abbastanza tranquillo, con la madre che contava i minuti di quel sonno riparatore, beandosi che durasse a lungo, parendole quasi che un quarto d’ora, una mezz’ora di più fosse l’indizio di una guarigione. A un tratto, placidamente il bimbo riapriva gli occhi e la manina cosparsa di sudore, cercava il volto della madre:
— Eccomi, figlio, eccomi. Come ti senti?
— Bene — rispondeva quello invariabilmente, sorridendo un poco.
Poi tacevano. La madre asciugava con un fazzolettino di battista la fronte madida del bimbo, gli asciugava, le manine, carezzandole, baciandole lievemente. La piccola mano restava nella mano della madre, a lungo, e un silenzio profondo era nella stanza.
— Raccontami una storia, mamma, — diceva il bimbo, fiocamente.
E pian piano, chinandosi sul lettuccio, la mamma gli raccontava una fiaba, cambiando sempre, inventandone talvolta nella sua accesa fantasia di madre inquieta, trovando delle bizzarre combinazioni di reucci e di vecchie fate, di reginelle e di fate, che gli facevano spalancare gli occhi, al piccolo ammalato, e lo divertivano immensamente. Talvolta, mentre la madre raccontava la fiaba al suo figliuolo, arrivava il padre. Entrava chetamente e si veniva ad appoggiare alla spalliera del letto, cercando di abituarsi alla oscurità; il suo figliuolo gli sorrideva tacitamente nella penombra, lasciando che la madre terminasse il racconto. Anche il padre ascoltava quella meravigliosa storia che non osava interrompere e assuefatto oramai all’oscurità guardava negli occhi il suo piccolino ammalato. Col trionfo della bellezza e della virtù, con la punizione della bruttezza e della perversità, la fiaba finiva e il bimbo crollava la testa soddisfatto, contento.
— Come sta? — diceva il capitano Gigli a sua moglie.
— Bene — rispondeva il fanciulletto, prima ancora che sua madre rispondesse.
— Dice sempre così, poverino — mormorava la madre, carezzandogli i capellucci madidi — lo dice per farci coraggio.
— Ma non sta bene? — chiedeva il padre, ansiosamente, più turbato nell’anima di quel che paresse.
— Così, così — dicea la mamma, accomodandogli i cuscini.
E rimaneva taciturna, malinconica. Il marito, angosciato, indovinava una parte delle sue angosce.
— Vorresti portarlo via, nevvero? — le chiedea, per trarla da quel silenzio, in cui ella appariva più abbattuta, più accasciata del bimbo infermo.
— Sì — rispondeva ella.
— Il medico dice che non si può — soggiungeva timidamente il marito.
— Non si può, non si può — ribatteva ella, aprendo le braccia, disperatamente.
— Io sto bene, qui, mamma — diceva il povero figliuolino.
— Poverino, poverino — diceva il padre. E sottovoce, andando accanto al marito, Cecilia gli diceva:
— Promettimi, promettimi...
— Ti prometto tutto, Cecilia mia...
— Promettimi che appena sta meglio, che appena lo possiamo trasportare, mi lasci andare con lui a Napoli. Promettimi.
— Sì, cara, sì — diceva il marito, accarezzandola come accarezzava il bimbo.
— Prometti?
— Sì, sì.
Poichè egli intendeva che in questa fiera malattia del fanciullo, l’invincibile orrore per la galera le era rinato in cuore. La sera, infatti, come tutti gli infermi di malattie acute o di malattie lente, il bimbo peggiorava. La gola gli si stringeva, il respiro diventava affannoso, egli aveva un caldo, un’irrequietezza, un’agitazione continua. Di nuovo, sulla rossa mucosa della gola, ricomparivano le macchie bianche, formantisi lentamente, dopo la causticazione della sera. Appena aveva un momento di requie e la madre respirava, la voce delle sentinelle che vegliavano, che si chiamavano e che si rispondevano, faceva trasalire il piccolo corpo arso dalla febbre. E lei aveva l’incubo, di nuovo, di queste voci, che, immancabilmente, turbavano il silenzio della notte, turbavano il riposo delle persone stanche, turbavano il lieve riposo degli ammalati; e arrivava, quando presentiva l’all’erta, sentinella, arrivava fino a mettere le mani alle orecchie del piccolino, per non fargli udire.
— Non importa, non importa — egli diceva, voltandosi, rivoltandosi, non avendo requie.
— Oh questa galera, questa galera! — diceva ella, come fra sè.
— Non importa — insisteva il bimbo, sventolando le lenzuola intorno al suo corpicciuolo ardente.
Ma le notti erano così cattive e così lunghe! Cecilia non voleva abbandonare di una linea il lettuccio del suo figliuolo.
Malgrado che il marito la pregasse, la supplicasse di lasciarlo vegliare lui, malgrado che Grazietta si offrisse ripetutamente di vegliar lei: niente, Cecilia non si lasciava smuovere: tutta la sua vita era concentrata in quel lettuccio di bimbo malato. Pallida, muta, con la vestaglia scura attaccata alla cintura da un cordone monacale, in pianelle per non far rumore, ella restava seduta presso quel letto, senza rispondere alle preghiera del marito e di Grazietta.
— Dormo qui — rispondeva soltanto, nell’indicare l’origliere bianco del ragazzo.
Bisognava lasciarla. Se ne andavano crollando il capo, il marito sconvolto nel suo cuore paterno, la serva con quella istintiva materna pietà femminile. Ma quali notti! La febbre cresceva; e ogni tanto il bimbo soffocando chiedeva d’essere alzato. La madre lo avvolgeva nelle coperte e nei lenzuoli, lo levava su ritto, nelle braccia e lui respirava meglio, appoggiando la testa sulla spalla di sua madre. Ella lo portava su e giù, così, canticchiando, poveretta, come canticchiano le madri desolate che cercano invano di far quietare un bimbo ammalato; talvolta il bimbo, sempre tenuto in braccio, si assopiva leggermente.
Malgrado che lo vedesse assopito, non osava ancora posarlo sul letto e continuava a passeggiare lentamente, su e giù, mentre il bimbo le si appesantiva sulla spalla. Poi, temendo che farlo dormire così, ritto, in una posizione disagiata, gli facesse male, pian piano si accostava al letto, si inclinava per deporlo, ma al primo movimento, nel sonno lieve, il bimbo faceva udire un lamentio.
— No, no — diceva lei, rialzandolo, ricominciando la passeggiata.
Qualche volta arrivava a posarlo, con una grande delicatezza, sul letto, e il bimbo lasciava andare la testa sul cuscino, sempre con gli occhi chiusi, con tale abbandono che la madre ne rabbrividiva di terrore quasi a una terribile immagine. Se continuava a dormire, ella abbassava anche più la lampada, e tornava al lettuccio, appoggiando la testa sul cuscino, estenuata. Non dormiva, no: era un sonnecchiamento affannoso, che il grido delle sentinelle interrompeva, sonnecchiamento ripreso a sbalzi. Frattanto il bimbo, inquieto, si svegliava; ma vedendo che la madre dormiva, non diceva nulla, rimaneva taciturno, con gli occhi sbarrati, guardando le ombre del soffitto. Solo quando la soffocazione si faceva sempre più forte, egli cominciava a lamentarsi, a sollevarsi sul letto come per bere l’aria che gli sfuggiva. Subito, ella si svegliava, angosciata, credendo di aver dormito troppo, quasi chiedendo scusa a suo figlio.
— Figlio mio, figlio mio...
Non sapeva dire altro, per consolarlo, per sollevarlo. Quanto erano lunghe quelle notti! Ella desiderava l’alba con tutte le sue forze, perchè finisse quel lungo tormento di suo figlio e il suo tormento, perchè finissero quelle voci lugubri dei custodi di quel carcere. L’aria si raffreddava, verso le cinque del mattino, qualche spiraglio di luce cominciava a delinearsi, dietro le imposte, e il bambino cadeva in un profondo torpore. Ella stava a guardarlo, fiso, quasi magnetizzandolo, perchè dormisse calmo, perchè dormisse più a lungo, e a questa fissità la sua volontà e le sue pupille materne si stancavano, ella piegava il capo: si riscuoteva ancora, due o tre volte, trasalendo, come se avesse inteso piangere il suo bambino; ma fra veglia e sonno lo vedeva ancora riposare profondamente e lei stessa cadeva in un sonno profondo, nero, intenso, di chi ha eccezionalmente consumate le sue forze fisiche e morali. Quando, alle otto, veniva il dottor Caracciolo, per la visita del mattino, trovava che la madre e il figlio dormivano, vicini, pallidi entrambi.
— Come ha passato la notte? — chiedeva il dottore mentre faceva i suoi preparativi per la causticazione.
— Male — diceva la madre.
— Dormiva, ora.
— Sì, ma è stato male sino alle cinque.
Il dottore piegava un po’ il capo, preparando il pennellino.
— È questa galera, — diceva la madre desolata.
— Ma no, ma no — le andava ripetendo il medico — anche a Napoli vi è la difterite.
Che le importava? Ella dava la colpa di tutte le sue angosce alla galera: tanto che, dal primo giorno della malattia di Mario, aveva proibito a Grazietta di fare entrare nessun galeotto in casa, proibito con tale impeto di collera e di dolore che Grazietta se ne era sgomentata e per dare un po’ di pranzo a suo marito, il galeotto, gli aveva detto di non venire alle ferriate della cucina, come al solito, ma di aspettarla, a un certo punto dell’isola, dove ella gli andava a portare da mangiare in un piatto coperto.
— Nè suo marito, nè Gennaro Campanile, nè Rocco Traetta, nessuno, nessuno — aveva gridato Cecilia, come se temesse il mal occhio.
Pure, Rocco Traetta, dal giorno in cui era cominciata la malattia del ragazzo, gironzava continuamente intorno alla casa. Aveva tentato di entrare, il primo giorno, ma recisamente e duramente Grazietta gli aveva detto:
— La signora non vuole galeotti per casa.
Egli restava sulla soglia, colpito.
— Ma come sta, come sta, questo peccerillo? — aveva domandato con un pianto nella voce.
— Male. Preghiamo Dio che lo faccia sanare.
— Preghiamo Dio — rispose umilmente Rocco Traetta.
E dalla mattina alla sera, sfuggiva sempre al lavoro che gli assegnavano, si aggirava intorno alla casa del bimbo, aspettando che ne uscisse qualcuno, per domandare. Gli piovevano sul capo punizioni sopra punizioni, egli non se ne curava, dimentico del mangiare e del dormire, pur di poter guardare quel balcone dalle imposte socchiuse, il giorno, donde la sera filtrava un raggio di luce.
— Come sta, come sta? — diceva a Grazietta, ogni volta che la poteva incontrare.
— Ora sta meglio, ora sta peggio, non si può capire; speriamo nella Madonna.
— Speriamo nella Madonna.
Un giorno affrontò anche il medico Caracciolo. Non era mai stato ammalato, Rocco Traetta, e il medico dell’ergastolo non aveva avuto occasione di curarlo. E di botto, Rocco gli si piantò davanti, e a bassa voce:
— Come sta quel peccerillo, come sta?
— E a voi che ve ne importa? — disse il dottore che era un po’ burbero e che era abituato a trattar ruvidamente i galeotti.
— Io ero il servitore, signor professore, ero il servitore di quel peccerillo.
E, veramente, nel dirlo, era così umile e appassionato, che il medico lo squadrò, poco avvezzo a scorgere questi sentimenti nei galeotti.
— Sta così e così — disse poi, borbottando.
— Ma si sana? Voi lo dovete far sanare, signor professore.
— Così speriamo — disse il medico passando avanti.
Ma il gran cruccio di Rocco Traetta era di non poter entrare in casa. Ogni volta che la signora Cecilia appariva dietro i cristalli del balcone, egli appariva all’angolo della piazza, si avanzava, cavandosi il berretto rosso, salutandola due o tre volte, rivolgendole un tale sguardo supplichevole che avrebbe commosso qualunque persona indifferente. Ma ella non lo vedeva, o non voleva vederlo, perchè voltava il capo dall’altra parte, si ritirava subito, come chiamata dall’interno. Egli si allontanava lentamente, come se facesse la guardia intorno alla casa. Un giorno, il terzo o il quarto, non potendone più, egli era entrato nell’ufficio di direzione, dove il capitano Gigli scriveva. Era pallido, il capitano Gigli, e scriveva nervosamente. Rocco Traetta, col berretto fra le mani, attese che il capitano finisse di scrivere: e quello continuò, per qualche tempo, mettendo da parte le lettere che scriveva, senza levare gli occhi. Alla fine, il capitano Gigli, avvertendo che qualcuno era nella stanza, smise di scrivere.
— Siete voi, Rocco Traetta? Che volete?
— Volevo sapere, Vostra Eccellenza — mormorò il galeotto — volevo sapere... del peccerillo.
— Poverino piccolino — disse il padre, commosso — ha una malattia crudele. Soffre assai.
— Oh Madonna, oh Madonna! — esclamò dolorosamente Rocco Traetta.
— Poverino, è tanto paziente — disse il padre, a voce più bassa, come se parlasse fra sè — e la madre, sempre vicino a lui.
— Ma si sana presto? Quando si sana?
— Ci vorrà qualche giorno, qualche giorno ancora.
Il galeotto restava muto, confuso, si vedeva che voleva dire qualche cosa e non osava. Poi, giacchè era venuto là per quello, disse:
— ... e non può veder nessuno?
Il capitano Gigli levò gli occhi su quella faccia di colpevole e la vide impressa di un grande desiderio, di una grande ansietà:
— ... per ora, no — rispose, dopo aver pensato, il capitano Gigli. — È nervoso, povero piccino, e la presenza delle persone lo infastidisce.
— ... una volta, quando stava con me, si divertiva.
— È vero, ma bisogna aspettare per vederlo, lo ha detto anche il medico.
— ...già... aspettare... domani o dopodomani forse.
— Di più, di più. Ci vuole il riposo, — disse vagamente Gigli, di fronte alla ostinazione di Rocco Traetta.
Di nuovo, il silenzio. Rocco Traetta girava fra le mani il berretto rosso, non decidendosi ad andarsene, dovendo ancora dire qualche cosa. Il capitano Gigli, imbarazzato, non sapendo che rispondere a quelle premure, voleva licenziarlo, aveva piegato il capo e scriveva nuovamente.
— Eccellenza, voi che siete tanto buono da sopportarmi, volete farmi una carità’?
— Dite — fece Gigli un po’ infastidito.
— Me lo salutate, quel peccerillo: gli dite che Sciurillo lo saluta assai assai. Sciurillo, Eccellenza, non ve lo scordate.
— Va bene — disse il capitano. — Glielo dirò, certamente.
Il galeotto mormorò grazie a Vostra Eccellenza e se ne uscì lentamente seguito dallo sguardo del capitano Gigli. Nulla poteva meravigliarlo, da sei o sette anni che viveva in quel Bagno penale, nè la eccessiva ferocia, nè la eccessiva umiltà, nè il bene, nè il male; ma ogni tanto la natura umana gli si rivelava così bizzarramente, che egli trasaliva. Rocco Traetta aveva ucciso il padre, di un colpo solo, per quistioni d’interessi: era il parricidio più terribile nelle cause, pel tempo, per tutte le circostanze. Eppure quest’uomo, che per dieci minuti della sua vita era stato più micidiale di una belva, tremava di dolore, parlando di un piccolo fanciullo ammalato. Lo sapeva, il capitano Gigli, come sapeva tutto quello che accadeva nell’isola, che Rocco Traetta gironzava intorno alla casa, tentando di entrare; ma sapeva anche che quel fragile fiore che era l’anima di sua moglie, diventava implacabile, di fronte a quegli aspetti odiosi. Non voleva galeotti per casa. Lo aveva detto a Grazietta, anche davanti al capitano. E nessuno entrava, no, nessuno. Quando le si nominava Nisida, la galera, i galeotti, per combinazione, naturalmente, ella socchiudeva gli occhi come a celare un lampo di collera, per non dire quello che il cuore le diceva e si chinava sul lettuccio del suo bimbo, baciandone le guancie magre e calde, carezzandone i molli capelli, dicendo con quella infinita pietà che aveva nella voce:
— Figlio mio, figlio mio...
Così, neppure il capitano Gigli, intimidito, scosso, desolato internamente dalla malattia del fanciullo e dalla muta disperazione della moglie, neppure lui osò rammentarle che intorno alla casa vi era un’anima in pena. Silenzioso, cercando di non farsi udire, cercando di non farsi vedere, col fare di un vero malfattore, Rocco Traetta passava la sua giornata nei vicoletti intorno alla piazza, camminando come vedeva comparire qualcuno, sedendosi in terra quando restava solitaria, gironzando distrattamente, scappando dal cortile dove mangiavano, col suo tozzo di pane dove aveva messo sopra il companatico. Egli si ribellava, tacitamente, a qualunque ammonizione, a qualunque punizione dei carcerieri, non gridava, non litigava, ma scappava via sempre, appena che poteva, studiando tutte le malizie, subendo tutte le minacce e tutti i castighi, quando rientrava, muto, purchè lo lasciassero star fuori. Due notti scappò fin anche dal dormitorio, dove era così vigile la sorveglianza, e passò la notte sotto il balcone fiocamente illuminato. Rientrato all’alba, senz’aver dormito, fu incontrato proprio dal carceriere che lo cercava allarmato; e un rapporto fu fatto al capitano Gigli. Pareva quasi che tentasse l’evasione, Rocco Traetta — diceva il carceriere nel rapporto. Il Capitano Gigli gli rispose che non credeva a questi tentativi di evasione, e che lo trattassero con una certa dolcezza, Rocco Traetta. Il suo cuore era doppiamente impietosito, pel bimbo sofferente e anche un poco per quel miserabile tormentato che non aveva pace.
Ma nel cuore di Cecilia Gigli, nel materno, profondo cuore di Cecilia, non viveva che una sola pietà, quella pel suo bambino. Ella nulla vedeva e sentiva di quello che le accadeva d’intorno, altro che il cruccio di quella gola ammalata, rossa d’infiammazione, bianca di pustolette che si riproducevano sempre implacabilmente.
Aveva scacciato il mondo fuori di quella stanzuccia e se ne rammentava: del mondo in cui viveva solo per odiarlo, solo per crederlo causa della malattia del bimbo; se ne rammentava nelle lunghe ore notturne, quando la voce delle sentinelle impediva il riposo di suo figlio e le ricordava che abitava una galera. Ma fuori di questo, la sua tenerezza, la sua bontà, tutti i più forti suoi sentimenti di donna e di madre erano riassunti nel figliuolo suo. Nulla le importava di chi si potea aggirare, inquieto sulla sorte del bimbo, nulla di chi chiedeva pietosamente di lui, nulla di chi potea struggersi dal desiderio di vederlo. Fra il suo mondo e il bimbo, vi era lei, la madre, misticamente dotata, la cui forza magnetica, il cui amore impetuoso, la cui volontà ardente solo avrebbe potuto salvarlo. La sua anima era immersa in una continua, disperata preghiera, ella era tutta una invocazione a Dio. Niente altro. Dio — e nessun altro.
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Il bambino aveva alternative di bene e di male da otto giorni. Talvolta l’infiammazione della gola si mitigava, il suo rossore si scoloriva, le bianche pustolette, portate via dalla pennellazione, non si riproducevano; e il grado della febbre che consumava il povero bambino, diminuiva, diminuiva, egli pareva sulla via della guarigione. Il cuore della madre si apriva subito a una grande speranza. Solo la faccia del medico Caracciolo restava sempre la stessa, non turbata, ma seria; e il metodo di cura continuava in tutta la sua durezza, con le causticazioni due o tre volte al giorno, con le forti dosi di chinino, con un nutrimento forte. Gli è che i peggioramenti venivano improvvisi. Ricominciava, come per una improvvisa fatalità, quell’apparizione nella gola di grandi pustole corrodenti e soffocatrici, la febbre si accendeva più dura, più ardente, e il bimbo smaniava, smaniava, portando le manine alla gola, volgendo gli occhi disperati nel pallido volto disfatto. La madre restava stordita, confusa dal subitaneo peggioramento, perdendo in un minuto tutto quel tesoro di speranze, essendo ripresa, improvvisamente, da un terrore nero: balbettava, chiamandolo a nome, ripetutamente, chiedendogli come si sentisse; tremava, sollevandolo nelle braccia, per cullarlo e per quietarlo; la voce soffocata non poteva più canticchiare la solita canzoncina. Così di giorno in giorno, di notte in notte, il suo cuore trabalzava dalla gioia al dolore, dalla speranza alla disperazione. Il marito, spesso, nella notte, corroso da una mortale inquietudine, non dormiva e passeggiava u e giù nella sua vedova stanza: ogni tanto, attraversava le due stanze; in punta di piedi, apriva chetamente la porta della cameretta e sogguardava. Ben felice, se potea sorprendere sua moglie e suo figlio in uno di quei brevi momenti di assopimento, se ne andava quietamente, un po’ racconsolato pensando che quel riposo era un conforto, per i due martiri. Ma spesso, nella cameretta, l’ombra stanca della madre andava su e giù, tenendosi nelle braccia il bimbo che si lamentava, affagottato nelle coperte, lasciando vedere un piccolo volto stanco ed emaciato.
— Sta male? — chiedeva lui sottovoce.
— Così, così — rispondeva lei, sullo stesso tono, continuando a passeggiare.
— Povero figlio — diceva il padre a bassa voce sempre.
E dopo aver contemplato un momento quel quadro doloroso se ne andava. Non poteva più riposare neppure lui pensando a quella desolata ombra materna che si agitava nella cameretta. Il dodicesimo giorno, specialmente, fu un po’ cattivo: neanche la causticazione della sera, fatta lungamente dal dottor Caracciolo, con un’attenzione scrutatrice, con una cura massima, alleviò molto il bimbo. Chiedeva sempre da bere; poi difficilmente poteva inghiottire e si lamentava, piangeva, sì, piangeva di dolore, squarciando il cuore di Cecilia. Gli dava dei pezzetti di ghiaccio che lo refrigeravano un minuto, ma l’ardore, il bruciore, ricominciava, la smania di quel gracile corpo era invincibile. Il dottore era andato via pensoso, come sempre, ma non turbato.
Nella serata, mentre Cecilia era seduta accanto al letto e il capitano appoggiato alla spalliera, il ragazzo cominciò a chetarsi un poco.
— Come ti senti? — domandò il padre.
— Meglio — disse il bimbo, con la sua piccola voce.
Dopo un silenzio, egli schiuse gli occhi e guardando il padre e la madre, domandò loro:
— Voi mi volete bene?
Ambedue ebbero una scossa, per questa domanda; e si guardarono in volto muti.
— Mi volete bene? Mi dovete voler bene, papà e mammà — disse lui, richiudendo gli occhi.
— Figlio mio, figlio mio — disse la madre frenando appena le lagrime.
— Tanto bene, tanto bene — mormorò il padre, che soffocava anche lui.
Ma il principio della notte fu migliore; il bimbo era pallido, accasciato, ma non smaniava, non si sentiva soffocare, come durante la giornata. Anzi, ogni tanto, si addormentava quetamente, con la testa abbandonata sul cuscino e le braccia distese lungo il corpo. Si risvegliava, ma senza inquietudini, guardava attorno tacitamente.
— Non sta tanto male, mi pare — disse il marito alla moglie sul tardi.
— Pare che riposi — mormorò ella; — va a dormire.
— Tornerò — disse lui.
Infatti, verso le due egli tornò, pian piano. Il sonno del fanciullo si era fatto più grave e il respiro fischiava nella gola: alle volte aveva un suono gutturale di rantolo. Ma, del resto, riposava. La madre, con la guancia appoggiata a una mano, vegliava.
— Dorme... — disse il padre, come un soffio.
— Dorme... — ripetette la madre.
Di nuovo, egli andò via. Cecilia piegava la testa al sonno, quando la risvegliò un soffio, la voce del bambino — Mamma, la lampada.
— È troppo forte, debbo abbassarla? — chiese piegandosi sul letto.
— No: non la vedo.
Ella non intese bene; intese che fosse poca la e andò a voltare la lampada in modo che la luce colpisse negli occhi.
— Sta bene così?
Egli sorrise lievemente, accennò di sì col capo e chiuse gli occhi come per riaddormentarsi. Ella un poco, sempre inquieta per quel rantolo così profondo: ma poi il sopore della stanchezza la vinse e piegò il capo a dormire. Verso le quattro il piccolo figlio riaprì gli occhi e si guardò attorno, come smarrito, quasi che fosse rimasto solo; ma con uno sforzo, levando un po’ il capo sul cuscino, si accorse che madre era sempre là, riposante. Egli guardò la madre, coi suoi bei occhioni larghi, allargati dalla febbre, poi ricadde con la testa sul guanciale, come estenuato dallo sforzo. La lampada illuminava in pieno il piccolo volto consumato da cui usciva con pena il respiro. Egli non chiamò, non disse parola: solo levò una manina e lievemente l’appoggiò sulla guancia della madre. Ella forse, ne sentì il tocco, e senza schiudere gli occhi, disse:
— Figlio mio...
Ancora egli fece un cenno col capo a questa materna parola e chiuse gli occhi. La manina rimase sulla guancia della madre come per carezza e come per riposo.
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Egli era lassù.