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VI.
Fu bussato lievemente alla porta. Il capitano Gigli che sedeva presso il tavolino, solo, col volto fra le mani, levò la faccia lagrimoso e disse:
— Avanti.
Entrò Grazietta e silenziosamente consegnò al padrone un foglio bianco. Egli lo aprì e vi lesse scritto a lapis, da una calligrafia convulsa:
«Ricordati la promessa».
Era la moglie che scriveva, senz’altro. E nella mente confusa del capitano Gigli non ritornava questo ricordo. Guardò Grazietta, trasognato, come se le volesse domandare. Ella aprì le braccia, con atto d’ignoranza.
«Ricordati la promessa».
Così aveva scritto la madre dal letto di morte del figlio. Che poteva desiderare, chiedere la madre disperata? A un tratto, fra la faraggine dei cupi pensieri, nella mente del padre balenò il ricordo. E non potendo resistere, disse a Grazietta — Dille che vengo, vengo da lei.
Difatti dopo pochi momenti egli attraversò il piccolo appartamento, dalle porte spalancate, ma silenzioso. Arrivò alla porta della stanzetta dove era il bimbo: ne usciva un debole odore di erba e di fiori, ne usciva un fioco chiarore di cerei. E il soldato dell’indipendenza, quello che aveva visto la morte sui campi di battaglia e negli ospedali senza tremare, non osò entrare nella stanzetta del fanciullo. Aspettò un poco, poi chiamò:
— Cecilia?
Lentamente, nel suo vestito nero di lana, con le mani abbandonate lungo la persona, la madre comparve. Un pallor livido le copriva le guance e aveva gli occhi erranti di chi cerca invano di fermare il suo pensiero. Stette immobile, sulla soglia, voltandosi ogni tanto, come se la chiamassero.
— Anima cara... — fece lui, mettendole una mano sul capo.
Ma non potè resistere più oltre e grosse lagrime rigarono le guance brune.
— Non piangere, non piangere — disse lei, con voce monotona, dove non entrava più espressione. — Io non piango. Vuoi mantenere la promessa?
— Adesso?
— Adesso — fece lei ostinatamente.
Egli la guardò, non osando interrogarla.
— Voglio portare via il bambino — disse lei duramente — Portarlo via? Così?
— Così — disse lei duramente. — È nato in galera ed è morto in galera. Voglio portarlo a Napoli, non ci sono galeotti...
— A Napoli!
— Al cimitero di Napoli, dove non ci sono galeotti fra i morti buoni e onesti.
Egli la guardò e le prese la mano.
— ...vi saranno delle difficoltà — disse.
— Dovessi portarlo in braccio, lo porto via, il bambino — disse lei, ostinatamente, duramente.
— Hai ragione — disse lui, vinto, convinto.
— Tutto da Napoli, Luigi, tutto da Napoli, hai capito? — disse lei supplichevolmente. — Per carità di lui, niente di qui, hai capito, niente.
— Niente, anima cara, niente.
Ella se ne tornò a vegliare il fanciullino morto con gli stessi occhi vaganti che non arrivavano più, dopo lo sforzo fatto, a fissare il proprio pensiero. E al dolore profondo del padre fu data una occupazione: tutte le immense difficoltà di un trasporto, da Nisida a Napoli, i permessi, le autorizzazioni. Ma per tutta la giornata fu uno scambio di telegrammi fra Pozzuoli, Napoli e Nisida, fu un partire e un giungere di messi, una febbrile attività, in cui il dolore del padre trovava un pascolo, uno sfogo. Quelli che andavano e venivano, avevano l’aria triste di chi fa a malincuore, solo per affetto o per dovere, una triste bisogna e dicean solo quanto serviva, parlando sottovoce, come se temessero di turbare il riposo di qualcuno. Il padre ascoltava, un po’ distratto, un po’ confuso e ringraziava, con uno sguardo: se una nuova difficoltà sorgeva, si metteva subito, di nuovo, a dare ordini, a scrivere, a telegrafare. Ma tutto questo nel suo ufficio. Nella casa dalle porte aperte vi era un profondo silenzio: e solo Grazietta vi andava e veniva, in punta di piedi, asciugandosi ogni tanto gli occhi col grembiale di cotonina azzurra. Preparava frettolosamente qualche cosa. Dalla piazza si vedeva nella stanzetta del bimbo il pallido chiarore dei ceri. E in ufficio era una sfilata di gente, uomini e donne, che chiedevano sottovoce, al padre, se era possibile vedere il bimbo. Questo era il costume meridionale. Quando vi è un morto, si aprono tutte le porte e la folla entra: quando poi è un morticino vengono tutti, anche per raccomandarsi, poichè piamente credono che il bimbo possa portare tutte le preghiere a Dio. Ma il padre rispondeva a tutti:
— Più tardi, più tardi.
Poichè due volte, quando aveva chiamata Cecilia per dirle questo, essa aveva risposto di no, ostinatamente.
— Non voglio — aveva detto cupamente.
— Oh Cecilia, lascia, lascia che preghino per lui...
— ...il bimbo è lassù, non gli servono preghiere.
E la seconda volta, un po’ scossa dalle istanze del marito, aveva detto:
— Non adesso, non adesso... dopo.
Tutti se ne andavano, persuasi di ritornare più tardi. Solo Rocco Traetta restava in un angolo dell’ufficio seduto sopra un banco di legno dell’anticamera, tenendo il berretto fra le mani, col capo abbassato. Dalla ferriata della cucina, al mattino, aveva chiamata Grazietta per sapere notizie del peccerillo, e quella scoppiando in pianto, nascondendosi la testa nel grembiale, aveva detto:
— Il peccerillo è andato in paradiso.
Traetta era rimasto come istupidito.
— Il peccerillo, il peccerillo — diceva.
E da quell’ora era entrato nell’anticamera dell’ufficio, senza domandare nulla, rincantucciato in un angolo. Due o tre volte, passando, il capitano Gigli lo aveva visto, ma non si era fermato, imbarazzato dalla presenza di Traetta. Solo, la terza o quarta volta, Traetta si era levato e gli aveva detto:
— Vostra Eccellenza, questa carità di farmi vedere il peccerillo...
— Più tardi, più tardi — aveva detto il padre, in fretta.
— Ditelo alla signora, diteglielo che non sono mai entrato quando era malato, perchè non mi ci voleva: diteglielo che questa carità, adesso, me la deve fare.
— Glielo dirò.
Si allontanò: ma dopo un’ora egli era a capo nell’anticamera dell’ufficio, aspettando, con la pazienza invincibile dei cuori affranti. Infine, verso la sera, stanco, il capitano Gigli uscendo di ufficio, risalendo alla sua casa, gli disse:
— Domani mattina, prima della partenza.
Il galeotto lo guardò, meravigliato: poi crollò il capo:
— Grazie, Eccellenza.
Sopra, il capitano Gigli fece chiamare sua moglie nel corridoio. Sempre la medesima, sempre con quell’improvviso voltarsi indietro, come se la chiamassero.
— Tutto è fatto — disse il capitano, penosamente.
— Per quando!
— Domani, a mezzogiorno.
E solo quando quell’ora fu pronunziata, solo quando quella parola definitiva, ultima, la chiusura, la fine, fu detta dal padre, a bassa voce, solo allora quella donna dal cuore diventato di pietra, vacillò; un orribile singulto parve le lacerasse il petto e cadde nelle braccia di suo marito, gridando, piangendo, in preda a una convulsione di dolore, sconquassata, nome un albero che tremi dalle radici, con tale un furore doloroso che l’uomo, il soldato ebbe paura, e la tenne nelle braccia silenzioso, sgomento, esterrefatto, pensando che ella sarebbe morta, in quell’ora, e che non si poteva far nulla per salvarla.
E fu in una mattinata di novembre che nella casa del capitano Gigli, dalle porte spalancate, cominciò sfilata di coloro che venivano a salutare il bimbo morto. Da Napoli erano venuti i grossi cerei che ardevano simbolo dell’anima cristiana che si consuma nella fede, da Napoli il fascio di fiori freschi, di cui il suo lettuccio la sua stanza, la casa, financo le scale erano cosparse; da Napoli il vestitino bianco e le scarpette con cui il piccino faceva l’ultimo suo viaggio; da Napoli, infine, l’ultimo suo letto, la cassa foderata di raso. Il primo a entrare nella stanzetta del piccolino fu Rocco Traetta, pian piano, quasi scivolando sul pavimento. La madre era seduta, un po’ staccata dal letto, tenendosi le ginocchia con le mani, nerovestita, coi capelli un po’ sciolti sul collo; guardò il galeotto, come se non lo vedesse, coi suoi occhi che non avevano più nessuna espressione. Rocco Traetta, pian piano, s’inginocchiò accanto al lettuccio, appoggiando la fronte sulla sponda del letto: e stette lì, così, per tanto tempo, senza piangere, senza parlare. Cautamente prese una manina cerea del piccolo, la baciò e vi mise qualche cosa, dentro. La madre stava immobile; a un certo punto, guardò il galeotto, gelidamente, come se lo cacciasse via. Egli si levò e uscì dalla stanza, ma restò nel corridoio, ritto, nella penombra, vedendo passare innanzi a sè una quantità di gente, donne, bimbi, soldati, ufficiali, tutti coloro che per sentimento di pietà, per senso malinconico curioso della morte, entravano e uscivano dalla odorosa stanza, dove il piccolo morto giaceva. Nessuno chiedeva che fosse quella carta che il bimbo aveva fra le dita, chiusa e suggellata come una lettera. Quando un fanciulletto muore, nelle provincie meridionali, coloro che vanno a visitarlo o i parenti stessi gli mettono fra le mani, nella cintura, nelle pieghe del vestito, qualche letterina: è quasi sempre una preghiera rivolta al Signore o alla Vergine, per chiedere una grazia che il bambino porta con sè, nella tomba e in paradiso. Così Rocco Traetta aveva messa fra le dita del peccerillo una lettera diretta alla Madonna Addolorata, chiedendole che gli facesse la grazia. Vedeva passare la gente, Rocco Traetta; entravano, s’inginocchiavano, pregavano, senz’aver coraggio di dire nulla a quella tetra figura femminile di madre irrigidita. Nè lei tremò, quando il capitano Gigli, chiamatala fuori, tremando tutto, le disse:
— Dobbiamo andare.
— Andiamo, — diss’ella, risolutamente, macchinalmente avviandosi alla sua stanza, per prendere un mantello e un cappello.
Avrebbero accompagnato a Napoli il bimbo morto: e certo lo strappo era meno straziante che se avessero dovuto vederlo portar via, restando in casa. Uscivano, andavano insieme: questo lugubre viaggio avrebbe mitigato lo strazio. Il marito cercò di trattenere la moglie nella sua stanza, per non farle sentire il rumore della cassa che si chiudeva; erano i soldati che facevano questa operazione, delicatamente, senza far rumore. Ella non vide e non udì nulla. Rocco Traetta e Grazietta, erano presenti: la serva piangeva, silenziosamente, vedendo il piccolo cadavere acconciato nella cassa come in un lettuccio, la testina appoggiata sul raso del cuscino. Il galeotto, muto, non piangeva, ma aveva gli occhi rossi ardenti come se vi fosse corso un flusso di lagrime sanguigne. E nella bara, sopra la bara, fiori, dappertutto. Altri soldati, dietro, portavano altre corone. Fu portata giù, silenziosamente, e intorno alla bara, nella piazza, si misero quelli che volevano accompagnarla, almeno sino alla porta di ferro. Vi erano gli ufficiali, le loro mogli, gli impiegati, e coperta di fiori, portata sulle spalle dai soldati, la bara stava in mezzo a loro, come un gran fascio odoroso di fiori. La madre e il padre scesero poco dopo. Ella aveva un velo nero al cappello, ma la piena luce e la piccola folla la sgomentarono. Cercava con gli occhi la faccia del suo bimbo e trovò solo la bara.
— Luigi, Luigi, — disse, come pregando — sta là dentro, è vero?
— Sì.
— Ma lo vedrò ancora? A Napoli, me lo farai vedere?
— Sì, cara, a Napoli.
A piedi, lentamente, il corteo si mosse. Subito dopo la bara, venivano il padre e la madre fra gli ufficiali: ella camminava, appoggiata al braccio di suo marito, con gli occhi fissi sulla bara, che ondulava alla discesa. Anche Rocco Traetta, ultimo, andava dietro. Il paesaggio era diventato un po’ brullo, ma un sole tepido lo illuminava, nel pomeriggio. E la comitiva pareva che andasse via, abbandonando per sempre l’isola, senza voltarsi indietro. Alla grande porta di ferro vi fu il saluto. Tutti stringevano la mano al capitano Gigli dicendogli qualche parola di conforto. La porta di ferro si spalancò e si rinchiuse: di là continuarono la discesa i due soldati con la bara, il padre e la madre del morticello, due ufficiali, due impiegati civili: di qui, risalendo all’isola, tutta la piccola folla e Rocco Traetta. Ma egli, senza che nessuno lo notasse, restò fermo sullo spalto erboso, guardando il corteo che appariva e scompariva, fra le piante, discendendo sempre, guardando i vividi colori dei fiori che coprivano e cadevano giù dalla piccola cassa, guardando il peccerillo che se ne andava, per sempre.
A un tratto, un gomito della strada che scendeva alla piccola spiaggia, gli nascose il corteo e stette per qualche tempo senza vederlo. Ma pazientemente aspettò: forse lassù, nell’isola, cercavano dappertutto di lui, ma egli era dimentico di tutto, egli aguzzava gli occhi per vedere se il corteo ricompariva. Infatti, riapparve, sulla riva. La grande barca che lo stava aspettando non aveva nessun segno di lutto: anzi, aveva dei fiori nel fondo, buttati sulle panchine. I due marinai salutarono, levando i remi: in un momento la barca fu carica di corone e in mezzo fra i fiori sciolti e le corone fu posata la bara: e non si vedevano che fiori. A prua sedettero, la madre e il padre, pallide figure vestite di nero; accanto a loro quelli che li accompagnavano, formando un gruppo. Così la barca andò, carica di fiori, per l’azzurro del mare, lentamente, come se conducesse un felice corteo; così la vide andare Rocco Traetta, colorita, e odorosa, scivolando sulle chete onde, con un movimento indistinto. Sulla spiaggia deserta dei Bagnoli, in quella mattinata di novembre, apparivano solo i profili di due carrozze: nessuno si fermava a vedere la barca carica di fiori che si avanzava, lentissimamente, forse obbedendo a una parola della madre. Così se ne andava, per sempre, il fanciullo, tra i fiori, sopra l’azzurro; se ne andava dal carcere, se ne andava dalla galera, se ne andava alla libertà. Così lo vedeva partire Rocco Traetta, che non lo aveva potuto vedere, che non lo aveva potuto salutare, vivo, e che ora lo salutava, morto, lo salutava sottovoce, come se gli parlasse, come se il fanciullo potesse ancora udirlo, chiamandolo il peccerillo, il peccerillo bello e raccomandandogli la grazia che voleva dalla Madonna, raccomandandogli la lettera che gli aveva messo nelle mani e che avevano chiuso nella bara. Il fanciullo era lontano, sbarcava ora: lo mettevano nella carrozza, sempre fra i fiori, vi salivano il padre e la madre: e gli altri salivano nell’altra. Era lontanissimo, il fanciullo: le carrozze filavano, rapidamente, erano scomparse sulla via di Fuorigrotta. Tutto era finito. Il fanciullo era morto, sparito.