< Alla scoperta dei letterati
Questo testo è stato riletto e controllato.
Gabriele d’Annunzio
Domenico Oliva






















Francavilla al mare, gennaio del ’95.


Ero giunto così alla fine del mio pellegrinaggio il quale, a simiglianza dei romeaggi cristiani, doveva terminare con la visita al tempio della mia fede.

Partii da Roma nella sera di una delle rare giornate serene di questo inverno opprimente. Da Roma a Pescara occorrono per la sonnolenza delle nostre ferrovie più che dodici ore; sotto Popoli al diffondersi dell’alba cominciammo a seguire il fiume Pescara tra i monti tutti bianchi di neve e rosei di luce. Lì, come dopo in tutto il paesaggio marino fino a Francavilla, io più che le sensazioni visive godevo i ricordi delle novelle e dei romanzi dannunziani che a distanza mi avevano rappresentato primamente quei luoghi.

Da Pescara a Francavilla la strada corsa dalla vettura segue sempre la spiaggia nuda che appare alla sinistra. A destra invece le colline e, più lontani, i monti della Majella dominano; e su le colline, per quanto la povertà invernale le faccia nude e incolori, si indovinano i vigneti e si vedono gli oliveti ricchissimi. A mezza strada mi mostrò il d’Annunzio una breve pineta della principessa di Pescara, dove i fusti per quanto vecchi restano prodigiosamente esili e diritti sorgendo su da un magro pascolo rotto da molti e folti cespugli di mirto. Quella è l'unica bella reliquia d’una pineta immensa che giù giù fino al Sangro e al Trigno si stendeva cupa in vista del mare per miglia e miglia.

E sul mare ai piedi del colle dove salgono le case di Francavilla, è la villetta del poeta, bianca e quietissima adesso che le altre case d’intorno sono vuote e chiuse. Lo studio di lui è grande e ha tre finestre ampie; ma finestre, porte e pareti hanno cortinaggi altissimi di damasco rosso così che a notte, quando quei cortinaggi sono tesi, sembra che in nessun punto le mura lascino adito all’esterno. E quella camera è ricca di stoffe rare, di armi antiche e di nitidi libri preziosi, e presso un grande tavolo libero di gingilli stanno lunghi scaffali di lessici italiani, greci e latini. Dal braciere fuma a tratti l'incenso. I villani hanno fatto su quella camera rossa, chiusa, odorosa una leggenda e dicono che in quella casa il poeta ha fatto una chiesa.



Nelle ventiquattro ore che passai là, tra l’ospitalità affettuosa e il nobile conversare, di molte e disparate cose ci intrattenemmo piacevolmente senza mai restare, tanto che adesso mi è difficile e in un certo modo anche doloroso costringere in dati argomenti e dentro poche pagine tutto quel fecondo flusso di pensiero, scegliere tra tanti e belli insegnamenti quelli che alla natura del mio libro si addicono meglio. Ho di quel giorno una memoria così viva e così luminosa che quando sono stanco da un lungo lavoro o dal lavoro sono distratto per via delle piccole necessarie cure mondane, rappresentandomi quel colloquio e quelli ammonimenti, mi riconforto e riprendo il pensiero e la penna con più baldo animo.

In quella camera ampia, o sul greto di faccia alla livida marina invernale; nella sua piccola stanza da letto dove presso l'inginocchiatojo è un leggìo che sopporta gli scritti di Leonardo nella nitida edizione del Richter, o su per le viuzze di Francavilla tra i saluti rispettosi dei paesani che lo chiamano per antonomasia il Poeta; nella camera da pranzo che per una larga vetrata guarda il mare aperto, o nel convento di Santa Maria Maggiore dove lavora Francesco Paolo Michetti e dove Gabriele ha scritto Il Piacere e L’Innocente e una parte del Trionfo: io ricordo sempre la piccola elegante figura dell’ospite mio, ancora biondo e fresco e vigoroso e speranzoso come ai venti anni, e riodo la sua voce acuta, precisa, lenta che si compiace d’accompagnare le care parole lettera per lettera fino all’ultima vocale, come chi ne intende, compiacendosene, tutta l’onnipotenza intellettiva e sonora.



— Che pensi tu della letteratura contemporanea in Italia?

— Penso che sia vano parlare di letteratura contemporanea in Italia perchè noi non potremo avere una letteratura se non quando gli scrittori, essendosi alfine persuasi che tutta l’arte letteraria dipende dalle virtù intime dell’elemento materiale di cui ella si serve, si adopreranno a conoscere e a studiare tali virtù per trarre dalle loro combinazioni e dalle loro convergenze il maggior possibile effetto estetico. In più chiare parole: una letteratura non può esser fatta se non da letterati; e io non conosco ancora, in Italia, un libro moderno il quale appaia l'opera di un letterato, cioè di un artefice che abbia l’assoluta padronanza del suo strumento d’arte: la padronanza della Lingua Italiana.

Questo mio giudizio non è nuovo. Ho avuto più volte l’occasione di ripeterlo. Le altre ragioni, che si dànno da altri per giustificare la presente miseria, mi sembrano inconsistenti. Non v’è se non una ragione, capitalissima: la mancanza di scrittori che sappiano scrivere.

Parlo dei giovani, s’intende; parlo di quei giovani che hanno aperto il loro spirito ai soffii della modernità. Lasciamo stare quei soliti dieci o dodici letterati regnicoli che da troppi anni ammanniscono sempre lo stesso intellettual pasto ai candidi lettori. E dalli e dalli e dalli e dalli e dalli...., con quel che segue. Ma i lettori sono così candidi, così ignoranti e così incuranti che non pensano di modulare l’esalazione del loro disgusto su quella coppia di endecasillabi immortali. Lasciano passare quelle prose e quei versi come le polke e le romanze degli organetti esercitati per le vie pubbliche dagli orbi. Omai gli italiani di buona volontà conoscono a memoria i divertissements domenicali e quindicinali come conoscono le arie della Cavalleria rusticana. E questo non è poi un gran male.

Ricordi? Qualche anno fa, appena un commerciante di generi letterarii tendeva la mano e gittava un piccolo richiamo con l'atto medesimo del viaggiatore sentimentale verso i colombi di San Marco, l'esiguo stuolo domestico veniva a svolazzargli intorno e a beccargli nella palma; ed egli chiamava ciascuno per nome, e ciascuno gli faceva la sua cantatina di grazia e n’aveva per mercede un chicco. E questo non era poi un gran male.

Ma penso che oramai sarebbe tempo di tentar l’educazione di bipedi meno famigliari.

Avanti i giovani, dunque! Tanto per la poesia quanto per la prosa di romanzi, il campo oggi è lasciato interamente libero ai giovani che vogliano corrervi.

Alcuni giovani, in fatti, cercano oggi di manifestarsi nella forma del romanzo; che è, anche per me, la forma d’arte destinata a sopravvincere ogni altra nel futuro come quella che meglio d’ogni altra è capace di contenere una vasta coordinazione estetica di elementi vitali diversi. Le tendenze palesi in questi tentativi sono varie, ma tutte determinate da influssi di artefici e di filosofi stranieri; per modo che questa recentissima produzione giovanile non ha un’impronta particolare né alcuno dei caratteri che distinguono la tradizione novellistica paesana troppo remota e troppo discordante dallo stato presente di nostra vita.

Non accenno a questa mancanza per biasimo.

Fino a qualche anno fa, romanzieri e novellieri praticavano le anguste teorie zoliane rappresentando con molta cura delle particolarità esteriori certi aspetti della vita borghese o contadina studiati nelle singole regioni natali; e particolarizzavano quella rappresentazione così che taluni giunsero perfino a mettere in bocca dei loro personaggi il dialetto puro o italianizzato, seguendo in questo un esempio non raro nella nostra letteratura narrativa dei buoni secoli. Ma lo studio era superficiale e grossolano; gli elementi della composizione erano così semplici e noti che a tutti fu facile comporre secondo una ricetta divulgata; e non mai prosa apparve più povera, più scialba, più ibrida, più sprovvista di vera e schietta italianità ad onta dei paesaggi descritti con precisione di linee geografiche e ad onta dei nomignoli dialettali fastidiosamente ripetuti e dei dialoghi avvivati da bestemmie e da proverbii paesani. Nondimeno su questo flutto impuro e versicolore alcune vive opere d’arte emersero, specialmente d’artisti del Mezzogiorno; nelle quali vedemmo rappresentati con vigore e con sobrietà alcuni tragici idillii piscatorii e campestri dove le persone dai detti e dai gesti veementi si movevano all’urto di una passione semplice e brutale.

Ma, poiché il cerchio era angusto e inferiore, gli spiriti più complessi e più inquieti sentirono il bisogno di uscirne; e, per questo bisogno, si protesero con avidità verso le correnti spirituali che di continuo attraversano la vita europea e la conturbano, fecondandola. E fu bene.

È stato notato, di recente, come i caratteri nazionali vadano indebolendosi e scomparendo nelle alte opere d’arte veramente moderne, e come a poco a poco si vada formando una specie di letteratura europea. È stato notato come le idee non sieno il patrimonio di una nazione ma si spandano fluttuando a traverso il mondo e si trasformino e si rinnovellino di continuo nella diversità degli spiriti ch’esse invadono.

Circa tre anni fa, io dimostrava come nell’artista moderno non debba ripercuotersi la vita della nazione soltanto, ma quella del mondo, e come l’arte moderna debba avere un carattere di universalità, debba abbracciare e armonizzare in un vasto e lucido cerchio le più diffuse aspirazioni dell’anima umana.

Fu bene adunque che quei giovani esponessero il loro spirito a quelle correnti e si lasciassero penetrare da quei nuovi flutti di sentimento e di pensiero. Quel contatto e quella comunione li arricchivano e li inalzavano, ma non potevano né distruggere né menomare in loro la nativa essenza latina dell’intelletto nutrito di sani alimenti, educato a concepire e ad esprimere secondo il genio della grande lingua italiana.

Per sfortuna, a quegli scrittori mancavano e mancano appunto quella nutrizione e quella educazione; per sfortuna, a quegli scrittori mancava e manca a punto lo strumento primo dell’arte letteraria: la padronanza della lingua. E per ciò le loro opere anche quando portano l’impronta di un ingegno non volgare, hanno una vitalità efimera e non possono entrare nel dominio assoluto dell’arte e non possono essere considerati se non come tentativi più o meno spontanei di forze creatrici a cui difettano i mezzi di espressione.

Nessun artista è degno di questo nome se non possiede uno stile. (E che cosa intenda per stile ho già manifestato troppe volte). Ora in Italia, tra i nuovi scrittori, nessuno è giunto a formarsi uno stile e per conseguenza nessuno è giunto a produrre un’opera vitale. La vita dell’opera d’arte dipende essenzialmente dallo stile, come la vita dell’animale dall’organo della circolazione.

In questo senso noi possiamo stabilire il seguente assioma: «Ogni coordinazione di parole — nella quale l’artista scrittore, secondando il genio della lingua e obbedendo alle leggi fisiologiche del respiro, sia riuscito a rappresentare con la lettera e col suono l’apparenza, l’essenza e la movenza dell’oggetto — ha di per sè il valore d’un organismo vitale. L’aggregato d’una moltitudine di questi organismi — omogenei, o differenti e complementari con una mutua affinità — forma un organismo d’ordine superiore, egualmente vitale.»

Secondo questo assioma, l’artista scrittore è colui che possiede la facoltà di creare la vita. Una tale facoltà non gli è data se non dallo stile. Lo stile è dunque inviolabile come la vita.



— E quali sarebbero dunque i caratteri essenziali della ideal prosa narrativa moderna?

— In un proemio che accompagna il mio ultimo libro ho cercato di determinare i caratteri essenziali della grande prosa moderna e ho anche indicato ai volonterosi qualche ricca fonte nascosta di lingua pura. Noi non abbiamo nella nostra letteratura compiuti esemplari di prosa che un retore possa proporre all’educazione dello scrittore nuovo. Noi non abbiamo se non vaste miniere di vocaboli aperte ad ogni più profonda esplorazione. È necessario, sopratutto, acquistare la maggior possibile ricchezza di lingua genuina e porre ogni studio nello scoprire i più nascosti pregi dell’acquistata ricchezza. Una parola non concede intera la sua forza se non a colui il quale ne conosca le origini prime.

Divenuto padrone dell’elemento materiale, lo scrittore dovrà formarsi lo stile; e in questa formazione non avrà per norma se non l’assioma che ho dianzi enunciato. Le forme dello stile sono innumerevoli come le forme della vita. Non vi è limite alla varietà degli organismi verbali. La misura, la coerenza, il movimento di ciascuna frase scritta devono variare secondo la qualità della cosa rappresentata. Un periodo può esprimere il guizzo rapidissimo di un baleno e la lenta abondanza di un fiume che per meandri innumerevoli avvolga una pianura infinita. Può rendere la grazia di un’apparenza fuggevole e raccogliere una lunga serie d’immagini svolgentisi in ordine continuo a comporre la visione intera di un’epoca o di una civiltà. Può essere, insomma, breve o smisurato: infinitamente vario. In un libro vivo tutti i periodi sono tra loro dissimili come gli aspetti degli uomini e delle cose, i moti dei corpi e delle anime nel mondo.



— Ma, a parer tuo l’epoca è favorevole a un risorgimento dell’arte? Per quali forze potrebbe questo rinascimento prodursi?

— In verità, mai forse epoca fu, come questa, tenuta pubblicamente a vile dagli artisti e dai filosofi in essa generati. Non v’è in Italia conferenziere girovago che non inframmetta ne’ suoi vaniloquii una qualche deplorazione su la trista fine del secolo e su la decadenza irreparabile della nostra razza. Non v’è poeta che non si rammarichi d’esser nato troppo tardi o troppo presto. Non v’è romanzatore che non lamenti la povertà della materia da elaborare e l’imperfezione del proprio istrumento d’arte.

Sembra, a detta dei più, che la fine del secolo debba trar seco il naufragio di tutte le cose belle e di tutte le idealità soprane. Non soltanto è condannata la poesia ma tutta quanta l’arte nelle sue forme diverse. — La scienza positiva limita l’officio dello spirito a risolvere i fenomeni complessi nei fenomeni più semplici che li costituiscono e a ridurre le unità apparenti ai rapporti di quei fatti elementari. La scienza sostituisce all’arte l’industria, alla mano dell’artefice la macchina. Il mondo sensibile non è se non un complesso di apparenze sotto le quali sta il silenzio astratto e geometrico dei movimenti ondulatorii che si propagano nello spazio. La poesia è morta; tutta l’arte è morta. Spargete dunque con le vostre deboli mani gli ultimi fiori avvizziti su questi sepolcri chiusi omai per sempre!

— Tale è l’annunzio funebre.

Tu hai certo nella memoria quel passo della Vita nuova, in cui Dante imagina «alcuno amico» che gli venga a dire:

— Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo. — Dobbiamo anche noi, come il poeta padre, incominciare a piangere molto pietosamente? Dobbiamo anche noi gemere tra le lacrime:

— Vero è che morta giace la nostra donna — ?

Intanto io noto un fenomeno volgare. L’Europa è inondata di quella letteratura che si suol chiamare amena. In Italia, per esempio, le biblioteche economiche a una lira il volume hanno avuto in poco tempo una filiazione innumerevole di biblioteche minime, lillipuziane, diamantine, gialle, azzurre, verdi, a venticinque centesimi, a quindici centesimi, a dieci centesimi e perfino a un soldo. E la concorrenza tra i piccoli editori diventa ogni giorno più attiva. Essi fanno a gara nell'offrire al lettore italiano la maggior possibile quantità di carta stampata per il minor possibile prezzo. Qualcuno aveva profetato: — Il giornale ucciderà il libro. — Ed ecco che il libro si difende, con incredibili prodigi. Migliaia e migliaia di volumi si propagano per tutta la penisola leggeri e multicolori come le foglie d’una foresta battuta da un vento d’autunno.

Il fatto è innegabile. Queste speculazioni librarie hanno una fortuna insperata. Il commercio della prosa narrativa non era mai giunto a un tal grado d’attività. L’appetito sentimentale della moltitudine non era mai giunto a un così rapido consumo di alimenti letterarii. Gli stessi giornali politici quotidiani, i quali appunto si rivolgono alla grande maggioranza, debbono quasi sempre l’aumento o la diminuzione della loro fortuna alle qualità dei romanzi pubblicati nelle loro appendici che di giorno in giorno divengono più larghe e più numerose; mentre i librai si affannano a saccheggiare quanti libri di novelle romantiche e naturalistiche sono comparsi in Francia negli ultimi anni, a ristampare quanti bozzetti trovano nelle ingiallite collezioni di quegli innumerevoli giornalucoli che sostenevano le logomachie tra i veristi e gli idealisti del tempo remoto, a rinfrescar perfino qualche fungo disseccato dell’antica fungaja sommarughiana.

Tutte le varietà e tutti i miscugli sono offerti al gusto dei compratori in questa gran fiera di ideali a buon mercato: — selvaggina un po’ frolla, da cui la corruzione incipiente estrae l’intenso sapore essenziale, e pallide fette filaccicose di carne bollita in acqua senza aromi; umili gelatine diafane e fricassée dense di spezie che bruciano il palato; pasticci dotti, in cui si accordano tutte le delicatezze sinfonialmente, e brodi lunghi ove nuotano inconoscibili rimasugli di cucina.

Ma tra il romanzo sottile appassionato e perverso, che la dama assapora con lentezza voluttuosa nella malinconia del suo salotto aspettando, e il romanzo di avventure sanguinarie, che la plebea divora seduta al banco della sua bottega, c’è soltanto una differenza di valore. Ambedue i volumi servono ad appagare un medesimo bisogno, un medesimo appetito: il bisogno del sogno, l’appetito sentimentale. Ambedue in diverso modo ingannano un’inquieta aspirazione ad escir fuori dalla realità mediocre, un desiderio vago di trascendere l’angustia della vita comune, una smania quasi inconsciente di vivere una vita più fervida e più complessa.

Avendo notato il fenomeno volgare, ne traggo per conseguenza che la letteratura contro ogni profezia funebre è destinata nel prossimo avvenire a uno straordinario sviluppo. Come predire l’esaurimento e la fine alla nostra arte in un’epoca in cui si scopre qualche ritornello tenero di antica romanza in fondo all’anima della più bassa fra le veneri pandemie e qualche ricordo d’idillio arcadico in fondo al cuore del più feroce tra gli assassini di vecchie e tra i violatori di fanciulli?

Quel che accade per la letteratura accade anche per le arti del disegno e per la musica. A giudicarne dalle innumerevoli opere illustrate edite in dispense e dalla moltiplicazione delle copertine ornate di figure e dal larghissimo commercio delle oleografie, — l'imagine grafica esercita ancora un vivace fascino su la moltitudine. A giudicarne dall’inaudito entusiasmo propagatosi in pochi mesi per tutta l’Europa, di recente, — la musica, o per lo meno lo strepito ritmico, ha ancora virtù di esaltare gli animi fino al delirio e all’estasi. La folla è dunque pur sempre atta a provare certe emozioni estetiche di grado inferiore: a fremere, a piangere, a gioire davanti alla rappresentazione convenzionale di certi sentimenti eccessivi e di certi aspetti della vita straordinarii. La folla conserva pur sempre, e conserverà fino alla fine dei secoli, la tendenza ad elevarsi, per mezzo della finzione, fuori del cerchio angusto in cui s’agita e soffre. L’arte dunque, che nelle sue forme supreme rimane godimento dei pochi, risponde in realtà a un bisogno diffuso. I profeti non hanno tenuto calcolo dei fatti, partendo da un principio falso: ciò è dalla inconciliabilità apparente dell’arte con la scienza. Lo stesso Renan, il poeta della divina preghiera su l’Acropoli, il quale portava dentro di sè il senso indefettibile della Bellezza, ha scritto «Il y aura un temps où le grand artiste sera une chose vieillie presque inutile; le savant, au contraire, vaudra toujours de plus en plus,» E prima di lui John Keats, il poeta di Endymion alla mensa del pittore Haydon, già aveva levato il bicchiere proponendo questo brindisi: «Maledetta sia la memoria del Newton!», in odio al sapiente che distrusse la poesia dell’arcobaleno riducendolo a un prisma.

Ma è un puerile errore il credere che le facoltà dell’artista e quelle dello scienziato sieno opposte e inconciliabili. L’ipotesi è opera spontanea della imaginazione. Lo scienziato, nel momento di fare una scoperta, ha in sè la luce d’una virtù poetica. «Soltanto un uomo dotato d’alte virtù poetiche, come Keplero» osserva il Liebig «ha potuto scoprire le tre belle leggi astronomiche distinte dal suo nome. Così, pur tenendo il debito conto delle differenze, Omero, Guglielmo Shakespeare, e lo Schiller, e il Goethe sono veramente gli eguali dei più alti esploratori della natura; perocchè la facoltà intellettuale che muove il poeta e l’artista sia la medesima da cui derivano le invenzioni e i progressi della scienza». E già il Leibnitz assai prima del Liebig aveva detto: «La scienza vuole una certa arte di divinazione senza la quale ella non potrebbe progredire».

E già oggi lo sforzo che alcuni artisti tentano, per rendere la vita interiore nella sua ricchezza e nella sua diversità, ha un valore che oltrepassa quello della pura rappresentazione estetica. L’arte, esprimendo con più forza e con più lucidità quel che la natura esprime oscuramente, rappresentando con la maggior possibile esattezza verbale i più complessi fenomeni interiori per rendere visibili i loro rapporti nascosti, decomponendo gli elementi per organare nuove forme e dando a queste tutta l’intensità del reale, infine scoprendo nelle rappresentazioni le analogie che le collegàno l’una all’altra, non soltanto può fornire alla scienza indizii preziosi ma può rendere manifesto ciò che ancora è dubbio.

Inoltre, ben fu osservato che manca per lo più agli scienziati moderni la vastità della comprensione sintetica. Per lo più, essi sono intensamente occupati in un piccolo campo speciale, limitando le facoltà di cui si servono, allo scopo di spingerne l’acutezza al massimo grado. Questa divisione del lavoro crea una specie di mostri intellettuali, di esseri deformati, di cui un solo organo si sviluppa esageratamente e gli altri rimangono inerti e sono presi da atrofia. E così avviene che nei diversi studiosi le diverse facoltà si oppongano e che tutte queste potenze, invece di armonizzarsi in un solo spirito, non si armonizzino se non nell’organismo sociale. Spetta ora agli artisti — i quali, nutriti di scienza possono abbracciare e fondere i termini che sembrano escludersi: analisi e sintesi, sentimento e pensiero, imitazione e invenzione — spetta ora agli artisti la ricomposizione dell’unità. Essi soltanto possono essere uomini rappresentativi per adoperare la parola dell’Emerson, nelle società moderne; essi soltanto possono essere gli esemplari, gli interpreti e i messaggeri di questo tempo, poiché la scienza non è per loro una formula, ma la stessa vita. L’habitude du génie est de substituer en toute chose la vie à la formule diceva un alto pensatore sconosciuto. E tutto qui il segreto della meraviglia che l’artista di genio suscita ne’ suoi contemporanei. Quelli che lo vedon passare credevano — senza averne coscienza — che la legge fosse una formula; e s’accorgono, guardandolo, che ella è la vita e la luce. Cosicché i piccoli scienziati e i piccoli artisti sono gli uomini della formula; i grandi scienziati e i grandi artisti sono gli uomini della vita. Tra gli uni e gli altri la distanza è incalcolabile.

Noi aspettiamo un Uomo della Vita.



— Tutto è dunque favorevole a un Rinascimento?

— Certo. Quando mai, nella storia delle razze umane, si è offerto alle elaborazioni dell’arte un materiale più denso, più vario e più prezioso? La vastità e la profondità dell’anima contemporanea sono inconcepibili. Essa non soltanto contiene l’immenso flutto delle idee, delle sensazioni e dei sentimenti definiti — accumulato dalle innumerevoli generazioni anteriori — ma anche un oscuro viluppo di germi nuovi, dei quali taluno già si va schiudendo con vigore subitaneo e sta per invadere le più lucide sfere della coscienza. E dal contrasto delle vecchie e delle nuove energie si producono ogni giorno forme di vita spirituale mirabili, non mai conosciute prima, o almeno non mai osservate e rivelate; nelle quali un’infinita diversità di elementi si palesa in una sola vibrazione. E sul fondo diffuso della sensibilità organica, già rischiarato dai cinque sensi normali, vanno a poco a poco apparendo strani sensi intermedii le cui percezioni sottilissime scoprono un mondo finora sconosciuto. E nuovi misteri, che non sono soprannaturali e che noi sentiamo non assolutamente inconoscibili, ci avvolgono della lor viva tenebra e paiono dare un significato profondo ai piccoli fatti di cui si compone l’esistenza comune.

Se per la scienza tutti i fenomeni si risolvono nel silenzio astratto dei movimenti ondulatorii che si propagano nello spazio, per la sensibilità umana — di giorno in giorno dilatata ed acuita — l’universo acquista l’espressione d’un volto vivente su cui la vivacità dei pensieri mette le sue luci e le sue ombre e su cui passano i più tenui riflessi della vita interiore. L’antropomorfismo non è scomparso, ma si è come spiritualizzato. Mai l’anima umana ha avuto con l’anima delle cose comunioni più profonde. Le cose non sono se non i simboli dei nostri sentimenti, e ci aiutano a scoprire il mistero che ciascuno di noi in sé chiude.

La malattia, inoltre, concorre ad allargare il campo della conoscenza. Lo studio dei degenerati, degli idioti, dei pazzi è per la psicologia contemporanea uno dei più efficaci mezzi di speculazione, perchè la malattia aiuta l’opera dell’analisi decomponendo lo spirito. Essendo un disordine patologico l’esagerazione d’un fenomeno naturale, la malattia fa l’officio di uno di quegli strumenti che servono ad isolare e ad ingrandire la parte osservata. In fatti, le conquiste più notevoli della psicologia contemporanea sono dovute a psichiatri.

Quali miniere d’incomparabile ricchezza per l’artefice! Mentre i critici ignoranti celebrano i funerali della poesia, taluno osserva che la scienza rende all’arte l’antico elemento che pareva dovesse per sempre mancarle: il Meraviglioso.

Come dunque in una così alta crisi dello spirito umano, si può parlare di agonia e di morte?

Consoliamoci. «Non è vero che morta giace la nostra donna.» Possiamo risvegliarci e ripetere alla bellezza indistruttibile le parole di Dante: — O Beatrice, benedetta sii tu!

— Questo prossimo invocato Rinascimento avrà ne’ suoi caratteri qualche somiglianza con il Rinascimento anteriore?

— Il nuovo Rinascimento avrà comuni col Rinascimento anteriore i caratteri che questo medesimo ebbe comuni col periodo ellenico dell’arte, con la meravigliosa età di Fidia, d’Apelle, di Sofocle, di Platone. Ambedue le ideali primavere dello spirito umano derivano il loro straordinario rigoglio da una magnifica forza: dal sentimento dell’energia e della potenza elevato al sommo grado. Ambedue significano la più superba affermazione della Vita. E nell’uno e nell’altro periodo l’arte non è se non la trasfigurazione naturale delle persone e delle cose reintegrate nella pienezza del loro essere.

Oggi il concetto della vita, per virtù della scienza, è ristabilito sano ed intero. Oggi alfine, dopo innumerevoli turbamenti della coscienza umana, è da noi saputo con certezza inoppugnabile quel che dai greci era sentito e dagli italiani contemporanei di Leonardo era intuito. Corrispondendo all’intima persuasione degli uomini, il grande concetto emerso dalla scienza moderna non potrà più dileguarsi.

È omai riconosciuta e determinata l’idea verso di cui tendiamo con un continuo ascendere passando per le metamorfosi della specie: l’idea pura, l’armonia dell’uomo con l’universo interamente rivelato e compreso.

Lo splendore di una tale idea non raggia dall’arte dell’antica Grecia e del nostro Rinascimento? Quell’arte rappresenta vive le forme ideali della vita; e agli uomini che si sviluppano lottando essa le offre come segni ai quali devono mirare di continuo nello sforzo della lotta e nel giubilo della vittoria. Quell’arte esalta e glorifica sopra le cose la bellezza e la potenza dell’uomo pugnace e dominatore.

Il nuovo rinascimento dovrà dunque cominciare col ristabilire il culto dell’Uomo. E i nuovi artisti, come gli antichi, chiederanno alla scienza la facoltà di creare: ciò è di continuare la Natura, di aggiungere alla Natura più alte anime e più nobili forme, di manifestare per segni luminosi l’Ideale.

Nell’età di Leonardo e di Michelangelo la scienza non contrastava l’arte. Dietro i fogli occupati da disegni di anatomia il Vinci scriveva le laudi del corpo umano.

Il Buonarroti piantava una candela ardente nell’ombelico dei cadaveri per studiarli a notte. Ambedue sapevano qual prodigio sia Uomo.

Diretti eredi dell’antico spirito, i nuovi artisti vorranno l’arte indissolubilmente ricongiunta alla vita, scoprendo la verità, creando la bellezza e donando la gioja.

Fervidissimo adoratore della parola e credente nella sua assoluta superiorità su tutti gli altri mezzi di espressione, io son certo che la prima luce verrà da un libro. E Libro lux.



Queste idee egli mi palesava sotto il meriggio, mentre salivamo l’erta verso il convento di Santa Maria Maggiore, e anche mi diceva della potenza che all’arte oratoria — oggi decaduta così miseramente — potrebbe derivare da questo culto della parola.

Così giungemmo alle chiuse porte del chiostro. Su la muraglia bianca era incisa in caratteri misteriosi, la sentenza dell’antico poeta asiatico: — Hai tu perduto l’impero del mondo? Non ti accorare chè non è niente. Hai tu acquistato l’impero del mondo? Non ti rallegrare, chè non è niente. Dolore e felicità, tutto passa, passa nel tempo e non è niente. — E si vedevano oltre la muraglia le nere punte di certi cipressetti alti e diritti i quali parevan essere i fratelli di quelli che nell’orto abbandonato di Giorgio Aurispa «sorgevano immobili al cielo, con santità, come ceri votivi».

Entrammo nella sede dell’Arte Severa e del Silenzio.



Questa è la fine

del libro detto «Alla scoperta dei letterati»

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.