< Alla scoperta dei letterati
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Giosuè Carducci
Prolegomeni Enrico Panzacchi























Bologna, agosto del ’94.



Fin dal bel principio purghiamo dalle ortiche il campo dove la grande rovere si innalza. Letterati e pubblico di tutta Italia, ancora memori d’altri tempi, credono che Bologna sia l’Atene italiana, il centro illuminante, l’essenza quinta del profumo poetico nostro.

Otto e anche dieci anni fa ogni più bel tropo sarebbe stato giustificato. Le pubblicazioni letterarie di Nicola Zanichelli furono iniziate nel 1874 coi Funeralia del Panzacchi; e, verso quel tempo, lo stesso Panzacchi, in una sala dell’Archiginnasio, per una conferenza presentò al pubblico bolognese tra molto plauso Enotrio Romano, quasi annunciando habemus ponteficem. Infatti nel 1876 lo Zanichelli pubblicò le Nuove poesie del Carducci. Poi nel 1877 i Postuma dello Stecchetti (e fu il primo elzevir di quell’editore) mossero tanto romore di fama intorno all’autore, allo Zanichelli ed a Bologna intellettuale che la così detta chiesuola apparve formata.

Da allora intorno ai tre, Giosuè Carducci, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, e imitatori e ammiratori, e amici e nemici vicini e lontani convergettero; e l’ultima raccolta fu quella che intorno al Carducci riunì i migliori e più giovani discepoli suoi. Guido Mazzoni, Severino Ferrari, Giovanni Pascoli, Giovanni Marradi, Corrado Ricci e qualche altro. Il Carducci o per via o in campagna o in casa d’amici o dallo Zanichelli o al caffé ammaestrava, leggeva, criticava, addestrava tutti quelli ottimi con amore di padre e di maestro.

Poi man mano essi, dispersi dalle necessità del vivere insegnando nelle scuole, lasciarono Bologna, né altri li sostituirono. E adesso col Carducci e col Panzacchi vivono a Bologna altri due o tre letterati più o meno noti e laboriosi; ma essi non si incontrano mai così che i profani potrebbero crederli in guerra, essi non formano chiesa sotto il grande poeta, e tanto meno vogliono costringere i loro intelletti in una società di mutua ammirazione. Panzacchi entra nella retrobottega degli Zanichelli due volte all’anno; e pure è lì che il Carducci — come dicono — pontifica, lì e mai altrove quasi egli fosse a somiglianza dell’altro pontefice prigioniero in una ben geniale prigione. Enrico Panzacchi e Corrado Ricci stamane a colazione mi assicuravano di non essersi visti da mesi.

Ora perchè una città possa a favor di giustizia chiamarsi intellettuale, occorre il numero degli intelligenti, e più la varietà nel numero, che un deserto sabbioso dove tre o quattro laghi brillino al sole non si può dire un mare.

Se avessi spazio, ripeterei punto, per punto, su la vita intellettuale bolognese quello che Alfredo Oriani in un suo noto capitolo ha detto già di quella vita mondana.

Un noto professore mi diceva che per sua personale esperienza la media intellettuale degli alunni nelle scuole elementari e ginnasiali bolognesi è inferiore a quella degli alunni nelle stesse scuole di Calabria o di Sicilia.

E adesso guardiamo soltanto alla vecchia rovere che su questi sterpi si eleva.



La casa dove abita Giosuè Carducci è quasi fuori della città, su le mura tra Porta Mazzini e Porta Santo Stefano. Si passa attraverso a via della Fondazza, a via del Piombo, ad altre ignote viuzze dai portici bassi, dal selciato tormentoso, a notte profondamente oscure e anche temute, così che mai gli amici lasciano oltre la mezzanotte il Carducci rincasare da solo. Ma in fondo a quella via stretta ed eccentrica un largo tra due siepi di verdura si apre, dando sùbito imagine di campagna libera: lì è la casa del Poeta. Al primo piano si passano tre camere dalle pareti coperte di scaffali e si entra nell’immenso studio. È una camera rettangolare che, a sinistra di chi entra, ha due finestre grandi su la valle del Savena senza vista di case. Come la porta rompe la parete da un fianco, proprio accanto alla porta è la lunga tavola dove il Carducci scrive, e presso la tavola in alto pende un ritratto grande della regina con la cortese dedica autografa. Tutto in torno, le mura sono coperte di libri disposti bellamente in ordine cronologico. Opere rare ed edizioni principi abbondano: massima gemma è una copia della Comedia nella prima edizione Aldina, dono di un ammiratore; la raccolta delle edizioni di Dante e di Petrarca è veramente cosa meravigliosa. Ma il Carducci più si compiace della sua collezione di opuscoli del risorgimento italiano, che è certo la maggiore d’Italia. Su la parete opposta alle finestre è uno scaffale a mo’ di cassapanca, che contiene i dizionarii; nel mezzo di esso sorge il busto di Dante, e dai lati in belle cornici i ritratti di Mazzini, di Garibaldi, di Hugo, di Mario e — reliquia dolcissima — una lunga ciocca dei capelli di Goffredo Mameli avvinta da un nastro di seta.

Vidi il Carducci nel pomeriggio; egli partiva la sera stessa per Madesimo su le Alpi, e mi dette convegno per la sera al Pavaglione.

Così avvenne che io vedessi Daniele nella fossa dei leoni, dei ben mansueti leoni.



Mentre fuori del caffè del Pavaglione in piazza Galvani (di estate la libreria Zanichelli, luogo prediletto di convegno, è chiusa alla sera) attendevo, Vittorio Rugarli, il sapiente traduttor di Firdusi, mi veniva mostrando il crocchio che dentro si ragunava in attesa del Professore. C’era un vecchio sparuto dalla barba e dalla chioma incolta che lì chiamavano gaiamente il Troglodita (un De Gubernatis più alto), c’era un signore più elegante cui tutti dicevano marchese, c’era un giovanotto roseo e biondo con un fazzoletto attorno al collo; poi altri tre o quattro, professori o ammiratori. Domandai al Rugarli se quello fosse il cenacolo consueto ed egli assentì: in inverno c’era anche Antonio della Porta che ora è esule a Roma.

Giunsero le valigie del Carducci che doveva verso le due del mattino partire. Poi giunse egli stesso seguito da un giovane dalla aperta faccia bonaria: mi fu presentato e seppi che era il genero del Carducci, l’ingegner Gnaccarini. Qualcuno qua e là salutò alzandosi, il crocchio si mosse a incontrare il poeta tra un gran romore di sedie e un rispettoso salutare. E tutti sedemmo attorno a lui. Quel signore biondo e roseo che avevo visto prima, offrì al Carducci un lungo bastone che aveva per manico un corno di camoscio: un ricordo utile nella dimora su le Alpi.

Pian piano il Carducci cominciò a parlare. Tutti in giro ascoltavano protendendo i volti, sopra i bicchieri, tra le bottiglie. Quando egli parlava a lungo, dagli altri tavoli gli avventori tacevano e cercavano di intendere.

Prima egli ci descrisse Madesimo e la sua vita là su. Vi si alza di buona ora poichè le lunghe veglie bolognesi non gli ritardano il sonno, e, appena in piedi, prende un bagno nella più fredda acqua di Italia, un bagno dove mano a mano indugia fino a cinque minuti. Egli intendeva di coordinare là su, antichi e recenti studi su la repubblica di San Marino pel discorso che avrebbe dovuto pronunciare a San Marino in fine di settembre. La quiete ventura gli dava, mentre egli parlava così, un sorriso placido; e si sfregava le mani e le sovrapponeva al corno di camoscio in atto di soddisfazione. Egli appariva ancora giovine e sano, con la chioma grigia ricciuta ancor folta, con la barba appena brizzolata e continuamente nel discorso tormentata dalle mani bianche, delicate, nervose. Gli occhi sempre un po’ aggrottati avevano a volta lampi di ironia che la piacevole bonomia della parola male celava; ma il tratto saliente del volto erano le mascelle larghe, salde, valide pur sotto la barba.

Dopo aver parlato della villeggiatura prossima, il Carducci cortesemente mi spiegò quel che egli intenda fare con la promessa Storia del Risorgimento italiano.

— A noi manca una storia piana e facile del nostro risorgimento, una storia fatta con scienza ed arte, ma senza ostentare erudizione. Io volevo cominciare la narrazione dal 1789, perché tutti i rivolgimenti del secolo nostro di là derivano. Ma questa è opera troppo lunga, per ora. Invece io ho preparato tutto il materiale per la storia del nostro risorgimento dal quarantotto al sessanta. Saranno quattro volumi, dei quali due dedicati al quarantotto. È un’epoca che io ho vista o sentita; le mie ricerche sono vivificate dai ricordi miei personali. Vi ripeto: la storia deve essere facile e piana, e sopratutto, per quanto spirito umano possa, deve essere imparziale, fuori di ogni partito politico. Qualche cosa simile alla Storia dei girondini del Lamartine, ma con minore retorica. E comincerò subito, col primo dell’anno 1895. Ho già indugiato troppo; ho timore di non arrivare in tempo. Avrei voluto essere più giovane per compiere tutto il grande ciclo dal 1789 al ’70. Ma.... del resto.... è meglio così: all’età mia si è più sereni.

E insisteva: — Sùbito, sùbito, comincerò sùbito. Una storia pel popolo è necessaria; bisogna mostrare al popolo quel ch’è stata, anzi come è stata fatta la patria. Sarà un’opera buona e utile: ho fatto tante cose inutili! Qui l’erudizione non apparirà. Oh sarà una cosa utile! — e rivolgendosi al Rugarli che solo tra gli altri tacitamente consenzienti diceva , domandò:

— Credi che l’erudizione che facciamo noi sia utile? A che?

E allora seguitò a parlare sul nuovo argomento e gli altri tacevano sempre. A volta a volta egli si interrompeva: con voce buona e lieto umore motteggiava con questo o con quello, così che io rammentavo il Machiavelli a San Casciano fra i villici all’osteria, tra una pagina e l’altra dei Discorsi.

E l’argomento della conversazione mutò. Spesso egli taceva e guardava il tavolo o il bicchiere, distratto, non udendo gli altri che parlavano di piccole cose tra loro. Si parlò del Cristo alla festa di Purim e il Carducci rammentò il Giuda di Petruccelli della Gattina e definì il dramma del Bovio argutamente tra le compiacenti risa di tutti un Cristo in puré. Si parlò del Bonghi in Francia, e d’altre cose molte e diverse.

Verso l’una egli si levò, e mentre tutti, amici e camerieri, si affollavano attorno mormorando rispettosamente Buon viaggio, professore, uscì.

Il crocchio, senza parole, si separò lì presso la statua del Galvani, chi qua chi là, via sotto i portici.

Qualche nota.

Il Carducci è consigliere comunale e provinciale a Bologna, dove vive dal sessanta. Nell’89, essendo stato il maggior eletto, presiedette il Consiglio comunale sorto dal suffragio popolare allora novellamente allargato per la legge Crispi.

La sua vita quotidiana è assai metodica. Non si alza prestissimo, come rincasa tardi la notte; lavora tutta la mattina, alle 12 beve tre uova; puntualmente (sommo ed unico esempio in Italia) va il lunedi, il mercoledì e il venerdì alla sua lezione dalle due alle quattro pomeridiane; esce e passa dagli Zanichelli dove prende il Corriere della Sera; va a pranzo alle sei e mangia con appetito d’uomo valido e sano; poi esce per andare verso le nove dagli Zanichelli ancora, o a chiacchierare, o a fare una partita al briscolon, o a leggere (tre o quattro volte ogni inverno) del Dante o dell’Orazio: e la sua lettura allora è così viva e limpida che vale commento.

Egli è un ottimo amministratore del piccolo patrimonio che col suo grande lavoro ha raccolto; m’assicurano che quel patrimonio non superi le ottantamila lire! Ha maritato tutte e tre le sue figliuole: la Bice (quella della poesia Alle nozze di mia figlia) al signor Bevilacqua di Livorno, la Laura all’ingegner Gnaccarini, la Libertà (la Titì del San Guido) all’ingegner Masi.

Una ultima nota caratteristica. Da buon poeta egli non è grande intenditore di musica. Dice di amar Wagner intensamente; ma in fondo si commove solamente e sinceramente quando ascolta O signor che dal tetto natìo!


E adesso vi confesso che anche a me è doluto di veder spento l’antico miraggio della intellettualità dell’ambiente bolognese, sopra tutto perché temo che quelle tenebre circostanti non affraliscano in qualche modo la bella e vivace vecchiaia del grande poeta. Ma Giosuè Carducci è là su le Alpi, vivo, giovane, laborioso. Che importa se le nuvole vaporano poiché l’azzurro fulgido resta?


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