< Amleto (Rusconi) < Atto primo
Questo testo è stato riletto e controllato.
William Shakespeare - Amleto (1599 / 1601)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1901)
Scena I
Personaggi Atto primo - Scena II

SCENA I.

Elsinoro. — Piattaforma dinanzi alla Fortezza.

Francisco di guardia. Entra Bernardo e va verso di lui.


Bernardo.
Chi è là?
Francisco.
Rispondete a me; fermatevi, e dite chi siete.
Bernardo.
Viva lungamente il re!
Francisco.
Bernardo?
Bernardo.
Desso.
Francisco.
Venite con molta esattezza alla vostr’ora.
Bernardo.
Son battute in questo momento le dodici; va a letto, Francisco.
Francisco.
Vi ringrazio che veniate a rilevarmi; è un freddo acuto, e ho il cuore malato.
Bernardo.
Aveste una guardia quieta?
Francisco.
Non vidi muovere un sorcio.
Bernardo.
Bene, buona notte. Se incontrate Orazio e Marcello, miei compagni di guardia, dite loro di affrettarsi.

Entrano Orazio e Marcello.

Francisco.
Parmi di udirli. — Fermatevi! Chi è là?
Orazio.
Amici di questo paese.
Marcello.
E sudditi della Danimarca.
Francisco.
Vi do la buona notte.
Marcello.
Addio, onesto soldato. Chi vi ha rilevato?
Francisco.
Bernardo ha il mio posto. Buona notte (Esce.)
Marcello.
Olà! Bernardo!
Bernardo.
Dite.... è Orazio costà?
Orazio.
Un brano di lui.

Bernardo.
Benvenuto, Orazio; benvenuto, buon Marcello.
Marcello.
Ebbene, è comparsa quella larva anche questa notte?
Bernardo.
Non ho veduto nulla.
Marcello.
Orazio dice che è solo la nostra fantasia; e non vuol credere alla tremenda visione a cui assistemmo due volte; perciò l’ho pregato a vegliare con noi questa notte, onde, se il fantasma ritorna, possa confermare quello che ci è occorso, e favellargli.
Orazio.
Tacete! tacete! e’ non ritornerà.
Bernardo.
Sediamo un momento, e lasciate che vi narriamo di nuovo una cosa, della quale vi mostrate si incredulo e che per due notti abbiam pure veduta.
Orazio.
Sia così, sediamo, e udiamo il racconto di Bernardo.
Bernardo.
La notte scorsa, allorchè quella stessa stella che vedi all’occidente del polo, aveva compiuto il suo corso per illuminare quella parte di cielo in cui ora risplende, Marcello ed io, nel momento in cui la campana batteva un tocco....
Marcello.
Taci, interrompi; mira, esso ritorna!


Entra lo Spettro.


Bernardo.
Colle sembianze medesime del re estinto.
Marcello.
Tu sei dotto, parlagli, Orazio.
Bernardo.
Non somiglia al re? guardalo, Orazio.
Orazio.
Somigliantissimo, e mi empie di meraviglia e di terrore.
Bernardo.
Converrebbe parlargli.
Marcello.
Interrogalo, Orazio.
Orazio.
Or chi sei tu che usurpi quest’ora della notte, e insieme con essa la forma splendida e guerriera sotto cui talvolta si mostrava la maestà dell’estinto re? Pel cielo, parla, te lo impongo.
Marcello.
È sdegnato.
Bernardo.
Guarda! egli parte!
Orazio.
Fermati: parla, parla, te lo comando! (Lo spettro esce.)
Marcello.
È ito, e non vuol rispondere.
Bernardo.
Ebbene, Orazio? tu tremi e impallidisci; era fantasia soltanto o qualche cosa di più? Che ne pensi ora?
Orazio.
Dinanzi al mio Dio, non avrei mai potuto crederlo senza la testimonianza sensibile e sicura de’ miei occhi!
Marcello.
Non somiglia al re?
Orazio.
Come tu somigli a te stesso: simile era l’armatura ch’ei portava allorchè combatteva l’ambizioso Norvegio e così corrugavasi il suo viso il giorno in cui in una tempestosa conferenza percuoteva, il Polacco, e dalla slitta lo atterrava nel ghiaccio. — È strano.
MARCELLO.
Così, già per due volte, in quest’ora solenne, egli è passato davanti al nostro posto di guardia con passo marziale.
ORAZIO.
Non so quale possa essere il suo intento; ma, secondo il mio immaginare, ciò presagisce qualche strano commovimento pel nostro Stato
MARCELLO.
Ebbene, sediamo, e quegli che lo sa, mi dica perchè guardie tanto vigili e severe debbano così affaticare ogni notte i sudditi di questo paese? Perchè si fondono ogni dì tanti cannoni, e si comprano dal di fuori tanti strumenti da guerra? Perchè tal ricerca di costruttori di vascelli, ai quali il lavoro incessante non permette omai più di separare la domenica dagli altri giorni della settimana? Quali avvenimenti si preparano perché convenga all’artefice sudante di unire nelle sue opere le notti ai giorni? Chi potrà dirmelo?
ORAZIO.
Io, o dirò almeno le voci segrete che corrono. Il nostro ultimo re, la cui imagine ci apparve dianzi, fu sfidato, lo sai, a battaglia da Fortebraccio di Norvegia, cui il più invido orgoglio infiammava. Il nostro prode Amleto (che tale lo giudicava questa parte del nostro mondo conosciuto) uccise Fortebraccio nel combattimento. Per patto suggellato, regolarmente ratificato dalla legge e dalle corti cavalleresche, Fortebraccio cedeva, colla vita, tutte le sue terre al vincitore, che dal lato suo aveva arrischiato di perdere una metà dei suoi possedimenti. Per quell’accordo scambievole la successione del vinto andava di diritto ad Amleto; ma il giovine Fortebraccio, impetuoso e senza esperienza, ha raccolto in fretta. sulle frontiere della Norvegia, una torba di avventurieri pronti a mettersi ad ogni sbaraglio per campare la vita. Il suo disegno, e non lo ignora alcuno, è di ripigliare per forza le terre che suo padre ha perdute; ed ecco, se non erro, il motivo principale degli apparecchi che si fanno, della guardia assidua che ci viene imposta, e di quel moto operoso che si scorge in tutto il paese.
BERNARDO.
Penso io pure che sia soltanto ciò, e la cosa si accorda colla figura portentosa che venne armata fra noi così simile al re, che fu ed è l’autore di queste guerre.
ORAZIO.
Egli è un fuscello che turba l’occhio della mente. Nei giorni più splendidi di Roma, poco prima che cadesse il gran Giulio, le tombe si spalancarono, e i morti avvolti nei loro lenzuoli errarono ululando per le vie; le stelle vibrarono strisce di fuoco, cadde una rugiada di sangue, segni funèbri velarono il sole; e l’umido pianeta, sotto l’influsso del quale è posto l’impero di Nettuno, fu oscurato da una eclisse simile a quella che annunzierà l’ultimo dì del mondo. I medesimi segni precursori di fieri eventi, araldi che precedono i fati, o auguri sinistri per l’avvenire, il cielo e la terra li hanno fatti apparire ai nostri climi e ai nostri compaesani.... (Rientra lo Spettro.) Ma, silenzio: mirate! Egli viene di nuovo, io gli attraverserò la via, sebbene mi colmi di spavento. — Indugia, larva! Se è in te qualche suono, o l’uso della voce, parlami. Se vi è qualche buon’opera da compiere, che possa giovarti e farmi degno di grazia, parlami. Se conosci che qualche sventura si libri sul tuo paese, che preveduta possa evitarsi, oh parla! O se accumulasti con male arti in vita tesori, che seppellisti nelle viscere della terra, per cui dicono che voi spiriti siate costretti ad errare dopo morte (il gallo canta), parlane. Fermati e parla.... Trattienlo, Marcello.
MARCELLO.
Lo percuoterò io colla mia partigiana?
ORAZIO.
Fallo, se non vuol fermarsi.
BERNARDO.
È qui!
ORAZIO.
È qui!
MARCELLO.
È andato! (Lo Spettro svanisce.) Noi l’offendiamo, avendo aspetto sì maestoso, a volergli fare violenza. Egli è invulnerabile siccome l’aria, e i nostri vani colpi sono una stolta derisione.
BERNARDO.
Ei stava per parlare, quando il gallo cantò.
ORAZIO.
E fu allora che trasalì come un colpevole ad una terribile chiamata. Intesi dire che il gallo, che è la tromba del mattino, sveglia il dio del giorno colle sue alte e acute strida; e che alla sua voce gli spiriti erranti pel mare o pel fuoco, per la terra o per l’aria tornano precipitosi alle loro dimore; che ciò sia vero, ne avemmo teste la prova.
MARCELLO.
Esso svanì al canto del gallo. Alcuni affermano che all’appressarsi di quella stagione, in cui è celebrata la nascita del nostro Salvatore, l’uccello dell’aurora canta tutta la notte, e dicono quindi che nessun spirito può allora errare; le notti son salubri; i pianeti non esercitano alcuna influenza funesta, i morbi vengon meno, niuna fattucchiera ha potenza di ammaliare, tanto grazioso e benedetto è quel tempo.
ORAZIO.
Casi io pure intesi narrare, e in parte credo. Ma guardate, il mattino col suo roseo manto procede sulla rugiada di quell’alta montagna a oriente. Terminiamo la nostra guardia; e, se volete seguire il mio consiglio, andiamo a dire al giovine Amleto quello che abbiamo veduto questa notte; perocchè credo sulla mia vita che questo spirito che è con noi muto, parlerà con lui. Acconsentite che gli diciamo quello che è avvenuto come ci impone di fare il nostro amore e il nostro dovere?
MARCELLO.
Di buon grado, facciamolo; so dove potremo trovarlo questa mattina per parlargli in libertà. (Escono.)


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.