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William Shakespeare - Amleto (1599 / 1601)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1901)
Scena VII
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SCENA VII.

Altra stanza nella stessa.

Entra il Re e Laerte.


RE.
Ora la vostra coscienza deve sdebitarmi, e dovete vedere in me un amico sincero. Ora voi sapete che l’uccisore del vostro nobile padre insidiava anche la mia vita.
LAERTE.
La cosa appare tale. — Ma ditemi perchè dopo atti sì rei, non ne perseguitaste l’autore, come la vostra salvezza, la vostra dignità, la prudenza vi consigliavano di fare?
RE.
Oh per due motivi speciali, che a voi forse potranno sembrar futili, ma che sono fortissimi per me. La regina sua madre lo adora, ed io (ignoro se sia una virtù o una maledizione), io vivo tanto della sua vita, che, simile all’astro che non si muove che nella propria sfera, nulla potrei fare al di fuori di lei. L’altro motivo che mi impedisce di sollevare contro di lui un’accusa pubblica è il grande affetto che gli porta il popolo, il quale lo assolve di tutti i suoi falli, e simile a quelle scaturigini, che mutano il legno in pietre, convertirebbe i suoi ceppi in titoli di gloria. I miei dardi son troppo leggieri contro vento sì forte, e anzichè andare a colpire il bersaglio tornerebbero all’arco che li avrebbe scoccati?
LAERTE.
E così io ho perduto un nobile padre, e veggo ridotta alle condizioni più disperate una sorella, le cui doti, se può lodarsi quello che più non è, vincevano tutto quello che può mostrare la nostra età... Ma verrà l’ora della vendetta.
RE.
Ciò non turbi i vostri sonni, né crediate che siamo composti di materia sì torpida da obliare un pericolo che ci fece tanto tremare.1 In breve udirete. Io amavo vostro padre, e me pure amo: con ciò immaginerete, io spero.... (Entra un messo.) Ebbene? Quali novelle?
MESSO.
Lettere, signore, del principe Amleto; questa per Vostra Maestà; questa per la regina.
RE.
Del principe Amleto? Chi le recò?
MESSO.
Certi marinai, signore, da quanto intesi; io non li vidi. Mi furon date da Claudio che li ricevè.
RE.
Laerte, tu ne udrai il contenuto. — Lasciateci (al messo che esce; quindi leggendo.) «Alto e potente signore, saprete che sono approdato ignudo nel vostro regno. Dimani impetrerò la grazia di vedere i vostri occhi regali, e allora, dopo implorato il vostro perdono, narrerò le cagioni del mio inaspettato e strano ritorno. Amleto.» Che significa ciò? Tornarono indietro tutti? O sarebbe qualche errore, e non vi sarebbe nulla di vero?
LAERTE.
Conoscete il carattere?
RE.
È di Amleto... «Ignudo...» e nella poscritta aggiunge «solo;» potreste dirmene qualche cosa?
LAERTE.
Mi ci perdo, signore. Ma lasciatelo venire: mi si infiamma il cuore pensando che potrò dirgli in faccia fosti tu che lo facesti.
RE.
Se la è cosi, Laerte... e come può o potrebbe essere diversamente?... Vuoi lasciarti guidare da me?
LAERTE.
Purché non mi consigliate la pace.
RE.
La pace con te stesso. Se è vero ch’ei ritorna stanco del viaggio e che non voglia più riprenderlo, saprò inspirargli il desiderio di tentare un’opera che mi va per la testa, per la quale soccomberà. La sua morte non ecciterà alcun scalpore: ed anche sua madre vi si rassegnerà e la riguarderà soltanto come un evento casuale.
LAERTE.
Signore, mi lascerò guidare, ma più volentieri anche se potete ordinare il disegno in modo ch’io ne divenga l’esecutore.
RE.
Avverrà appunto cosi. Dopo i vostri viaggi voi foste molto encomiato all’orecchio di Amleto per una dote che, si dice, possediate in grado superiore. Tutte le altre vostre qualità unite non hanno eccitato tanto la sua gelosia come quella sola che, nondimeno, secondo me non occupa che l’ultimo posto.
LAERTE.
Qual è codesta dote, signore?
RE.
Un fregio2 volgare al berretto di un giovine, ma che pure è necessario; perocchè un vestir gajo, appariscente e leggiero si addice tanto alla gioventù, quanto alla rigida vecchiezza convengonsi i neri colori, e il mantello in cui si ravvolge per gravita e per salute. Sono già due mesi dacche stava qui un gentiluomo di Normandia... Ho veduto i Francesi, ho combattuto contro di loro, e so che sono valenti cavalieri... ma l’abilita di quell’uomo avea del prodigioso. — Egli sembrava attaccato alla sella e faceva fare al suo cavallo tali evoluzioni, che si sarebbe detto che la natura lo avesse unito col bravo animale, e che entrambi non componessero che un corpo solo. In breve egli soperchiava tanto tutte le mie idee a questo proposito, che ogni immaginazione diveniva inferiore alla verità.
LAERTE.
Ed era un Normanno?
RE.
Un Normanno.
LAERTE.
Sulla mia vita, Lamound.
RE.
Appunto.
LAERTE.
Lo conosco bene; egli è in effetto la meraviglia, la gemma della sua nazione.
RE.
Di vo faceva testimonianza pubblica narrando le cose più egregie, e soleva dire che sarebbe stato un nobile spettacolo il vedervi combattere con un avversario del vostro valore. Egli giurava che gli schernitori del suo paese, non avevano né movimenti, nè destrezza, nè occhio quando combattevate contro di essi; e le sue parole eccitarono l’invidia di Amleto al segno, ch’egli non desiderò più che il vostro ritorno per cimentarsi con voi. Ora da questo....
LAERTE.
Ebbene da questo, signore?
RE.
Laerte, amavate voi vostro padre? o simulate voi soltanto il dolore? avete un viso e non un cuore?
LAERTE.
Perché lo chiedete?
RE.
Non che io creda che non amaste vostro padre, ma perchè so che l’amore è soggetto al tempo come ogni altra cosa, e ne veggo la prova negli avvenimenti quotidiani; è il tempo che ne modifica la foga e l’intensità. Vi è nell’amore una specie di deperimento che alla lunga lo attuta, e nulla conserva una bontà durevole; perocchè il buono a forza di crescere degenera in pleurisia e muore soffocato dal suo proprio adipe. Quello che noi vogliamo, lo dovremmo far sempre nel momento della volontà, perchè tale volontà cambia presto e va soggetta a tanti ostacoli e indugi, quante sono le mani, le lingue e i casi che si frappongono, onde poi il nostro concetto si solve in un profondo sospiro, che, anche sollevandoci ci logora. Ma veniamo al nodo.3 — Amleto ritorna. Che vorreste fare per provare meglio che con parole che siete veracemente il figliuolo di vostro padre?
LAERTE.
Ucciderlo anche nel tempio.4
RE.
In effetto nessun luogo dovrebbe essere un santuario per l’omicida, nè alla vendetta dovrebbero essere ripari. Ma, buon Laerte, volete seguire il mio consiglio? Rimanetevi chiuso in casa. Amleto tornando saprà che siete qui. Noi lo faremo circondare da persone che esalteranno la vostra superiorità nelle armi, e insisteranno sulle lodi del Francese; vi spingeremo a schermire insieme e scommetteremo tenendo dalla vostra parte. Conosco Amleto, egli a nulla bada; generoso, incapace di diffidenze, non guarderà alle armi, onde vi sarà facile con un po’ di sagacità di scegliere una spada non ispuntata, e con un colpo ben diretto restituirgli quello che diede a vostro padre.
LAERTE.
Cosi farò, e con tale intento avvelenerò la spada. Comprai da un cerretano droga sì micidiale, che per poco che vi si immerga la punta di un ferro, e che con quella punta si scalfisca la pelle, non è balsamo tanto prezioso (e fosse pur composto delle piante più salutari che germogliano sotto la luna) che possa salvare da morte colui che ne fu tocco. Bagnerò la punta della mia lama in quella sostanza venefica, onde la ferita più leggiera riesca mortale.
RE.
Maturiamo bene ciò, combiniamo il modo e il tempo più propizi alla attuazione del disegno; se questo dovesse fallire, e il nostro intento venisse in chiaro per La nostra inettitudine, meglio sarebbe non tentar nulla. È mestieri dunque che questa prima combinazione sia fiancheggiata da una seconda, che ne faccia le veci, caso che la prima dovesse mancare. — Aspettate... lasciate che rifletta... noi faremo delle grandi scommesse per entrambi voi... ah si, è questo. — Allorchè nel bollore della tenzone sarete infiammati e assetati... e per addivenire a ciò non date tregua al vostro avversario... egli chiederà da bere, e io gli farò presentare una coppa preparata a ciò, alla quale purchè appressi le labbra, se anche dovesse sottrarsi alla vostra lama avvelenata, il nostro fine sarebbe pur sempre conseguito (Entra la regina.) Ebbene, dolce regina?
REGINA.
Una sventura incalza l’altra, così dappresso si seguono. — Laerte, vostra sorella è spenta.5
LAERTE.
Spenta! Oh come?6
REGINA.
Sulle sponde del vicino fiumicello sorge un salice che specchia le sue pallide foglie nel cristallo dell’onda. Ella era andata là, recando con sè fantastiche ghirlande di ranuncoli, di ortiche, di margherite e di quei lunghi fiori che le nostre donzelle chiamano diti di estinti.7 Nel momento in cui cercava di appendere la sua selvaggia corona alle fronde piegate, l’invidioso ramo a cui appoggiava il piede, si ruppe, e tutti i suoi trofei di verzura caddero con lei nell’onda.8 Le sue vesti aprendosele intorno lo sostennero per qualche tempo sulle acque come una sirena; e allora ella cominciò a cantare squarci di mitiche canzoni, come se non avesse conosciuto il pericolo che correva, o come se fosse nata in quell’elemento, ma lo cosa non poteva gran pezza durare; in breve le sue vesti inzuppate dall’onda bevuta interruppero il canto melodioso, a trascinarono l’infelice in fondo alle acque, dove è spirata.
LAERTE.
Oimè, ella più non è?
REGINA.
Non più.9
LAERTE.
Povera Ofelia, vorrei raffrenare le lagrime, ma vani sforzi; la natura fa sentire i suoi diritti, e poco le cale che l’uomo arrossisca della sua debolezza. Allorchè queste lagrime saran versate, nulla più resterà in me di femminile. Addio, signore! Avrei parole di fuoco da preferire se questi pianti insensati non lo soffocassero.10 (Esce.)
RE.
Seguitiamolo, Gertrude: quanta pena ho avuta a frenare il suo furore! Ora io temo che questo incentivo lo faccia dl nuovo prorompere. Perciò seguitiamolo. (Escono.)




  1. Che fece tremare fino i peli della nostra barba
  2. Ribband, nastro.
  3. Al vivo dell’ulcera
  4. Tagliargli la gola anche in chiesa
  5. Annegata.
  6. Annegata! Oh, dove?
  7. «E di quei lunghi fiori rossi, ai quali i nostri pastori licenziosi danno un nome turpe, ma che le nostre caste donzelle chiamano diti d’uomini estinti.»
  8. Piangente.
  9. Annegata, annegata.
  10. «Tropp’acqua hai già, povera Ofelia, onde rafferrò le mie lagrime. Vani sforzi ecc.» interpolazione forse, come altre che siam venuti notando, di qualche amanuense.
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