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ATTO SECONDO
SCENA I
Camere adorne di statue e pitture.
Alessandrio, poi Clearco.
un nemico m’insulti
tranquillo io soffrirò? No: qual rispetto
nel vincitor déssi al favor de’ numi
vuo’ che Antigono impari.
Clearco. A’ piedi tuoi,
mio re, d’essere ammesso
dimanda uno stranier.
Alessandro. Chi fia?
Clearco. Nol vidi;
ma sembra a’ tuoi custodi
uom d’alto affar. Tace il suo nome, e vuole
sol palesarsi a te.
Alessandro. Che venga.
Clearco. Udiste?
Lo stranier s’introduca.
(alle guardie, che, ricevuto l’ordine, partono)
E tu — perdona,
signor, se a troppo il zelo mio s’avanza —
in sí fauste vicende
perché mesto cosí?
non udisti il rifiuto?
Clearco. Eh! chi dispera
d’una beltá severa,
che da’ teneri assalti il cor difende,
de’ misteri d’amor poco s’intende.
Di due ciglia il bel sereno
spesso intorbida il rigore;
ma non sempre è crudeltá.
Ogni bella intende appieno
quanto aggiunga di valore
il ritegno alla beltá. (parte)
SCENA II
Alessandro, poi Demetrio dalla parte opposta a quella
per la quale è partito Clearco.
parlar superbo e l’oltraggioso riso
mi sta sul cor. Se non punissi...
Demetrio. Accetta,
eroe d’Epiro, il volontario omaggio
d’un nuovo adorator.
Alessandro. Chi sei?
Demetrio. Son io
l’infelice Demetrio.
Alessandro. Che! d’Antigono il figlio?
Demetrio. Appunto.
Alessandro. Ed osi
a me, nemico e vincitor, dinanzi
solo venir?
Demetrio. Sí. Dalla tua grandezza
la tua virtú misuro;
e, fidandomi a un re, poco avventuro.
Demetrio. Imploro
la libertá d’un padre;
né senza prezzo: alle catene io vengo
ad offrirmi per lui. Brami un ostaggio?
l’ostaggio in me ti dono.
Una vittima vuoi? vittima io sono.
Non vagliono i miei giorni
Antigono, lo so; ma qualche peso
al compenso inegual l’acerbo aggiunga
destin del genitore,
la pietá d’Alessandro, il mio dolore.
Alessandro. (Oh dolor che innamora!) È falso dunque
che il genitor severo
da sé ti discacciò.
Demetrio. Pur troppo è vero!
Alessandro. È vero! E tu per lui...
Demetrio. Forse d’odiarmi
egli ha ragione. Io, se l’offesi, il giuro
a tutti i numi, involontario errai:
fu destin la mia colpa; e volli e voglio
pria morir ch’esser reo. Ma, quando a torto
m’odiasse ancor, non prenderei consiglio
dal suo rigor.
Alessandro. (Che generoso figlio!)
Demetrio. Non rispondi, Alessandro? Il veggo, hai sdegno
dell’ardita richiesta. Ah! no: rammenta
che un figlio io son; che questo nome è scusa
ad ogni ardir; che la natura, il cielo,
la fé, l’onor, la tenerezza, il sangue,
tutto d’un padre alla difesa invita;
e tutto déssi a chi ci diè la vita.
Alessandro. Ah! vieni a questo seno,
anima grande, e ti consola. Avrai
libero il padre: a tuo riguardo, amico
l’abbraccerò.
ti rendano gli dèi. L’offerto acciaro
ecco al tuo piè. (vuol depor la spada)
Alessandro. Che fai? Prence, io non vendo
i doni miei. La tua virtú gli esige,
non li compra da me. Quanto gli tolsi,
tutto Antigono avrá: non mi riserbo
de’ miei trofei che Berenice.
Demetrio. (Oh dèi!)
T’ama ella forse?
Alessandro. Io nol so dir; ma parli
Demetrio, e m’amerá.
Demetrio. Ch’io parli?
Alessandro. Al grato
tuo cor bramo doverla. Ove tu voglia,
tutto sperar mi giova:
qual forza hanno i tuoi detti, io so per prova.
Sai qual ardor m’accende,
vedi che a te mi fido:
dal tuo bel cor dipende
la pace del mio cor.
A me, che i voti tuoi
scòrsi pietoso al lido,
pietá negar non puoi,
se mai provasti amor. (parte)
SCENA III
Demetrio, poi Berenice.
tu d’Alessandro, e per mia mano! Ed io
esser quello dovrei... No, non mi sento
tanto valor: morrei di pena; è impiego
troppo crudel... Che! puoi salvare un padre,
figlio ingrato, e vacilli? Il dubbio ascondi;
se dovessi morir, salvalo e mori.
Ardir! l’indugio è colpa. Andiam... Ma viene
la principessa appunto. Ecco il momento
di far la prova estrema.
Assistetemi, o numi: il cor mi trema.
Berenice. (Qui Demetrio! S’eviti: è troppo rischio
l’incontro suo.)
(da sé, in atto di ritirarsi, vedendo Demetrio)
Demetrio. Deh! non fuggirmi: un breve
istante odimi, e parti.
Berenice. (severa) In questa guisa
tu i giuramenti osserva? Ogni momento
mi torni innanzi?
Demetrio. (appassionato) Il mio destino...
Berenice. (severa) Addio:
non voglio udir.
Demetrio. Ma per pietá...
Berenice. (impaziente) Che brami?
che pretendi da me?
Demetrio. Rigor sí grande
non meritò mai di Demetrio il core.
Berenice. (Ah! non sa che mi costa il mio rigore.)
Demetrio. Ricusar d’ascoltarmi...
Berenice. E ben: sia questa
l’ultima volta; e misurati e brevi
siano i tuoi detti.
Demetrio. Ubbidirò. (Che pena,
giusti numi, è la mia!) De’ pregi tuoi,
eccelsa Berenice,
ogni alma è adoratrice. (tenero)
Berenice. (confusa) (Aimè! spiegarsi
ei vuole amante.)
Demetrio. (tenero) Ognun, che giunga i lumi
solo a fissarti in volto....
Berenice. Prence, osserva la legge, o non t’ascolto. (severa)
Il re d’Epiro
arde per te; gli affetti tuoi richiede:
io gl’imploro per lui.
Berenice. (sorpresa) Per chi gl’implori?
Demetrio. Per Alessandro.
Berenice. Tu!
Demetrio. Sí. Render puoi
un gran re fortunato.
Berenice. E mel consigli?
Demetrio. Io te ne priego.
Berenice. (Ingrato!
mai non m’amò.)
Demetrio. Perché ti turbi?
Berenice. (con ironia sdegnosa) Ha scelto
veramente Alessandro
un opportuno intercessor. Gran dritto
invero hai tu di consigliarmi affetti.
Demetrio. La cagion se udirai...
Berenice. Necessario non è: troppo ascoltai. (vuol partire)
Demetrio. Ah! senti. Al padre mio
e regno e libertá rende Alessandro,
s’io gli ottengo il tuo amor. Della mia pena
deh! non rapirmi il frutto: è la piú grande
che si possa provar. (con espressione)
Berenice. (con ironia) Parmi che tanto
codesta pena tua crudel non sia.
Demetrio. Ah! tu il cor non mi vedi, anima mia.
Sappi...
Berenice. Prence, vaneggi? A quale eccesso...
(sdegnosa)
Demetrio. A chi deve morir tutto è permesso.
Berenice. Taci.
Demetrio. Sappi ch’io t’amo, e t’amo quanto
degna d’amor tu sei; che un sacro... oh Dio!...
dover m’astringe a favorir gli affetti
Or di’: qual pena è alla mia pena uguale?
Berenice. Ma, Demetrio! (Ove son?) Credei... Dovresti...
Quell’ardir m’è si nuovo... (confusa)
(Sdegni miei, dove siete? Io non vi trovo.)
Demetrio. Pietá, mia bella fiamma: il caso mio
n’è degno assai. Lieto morrò, s’io deggio
a una man cosí cara il genitore.
Berenice. Basta. (E amar non degg’io sí amabil core!)
Demetrio. Ah! se insensibil meno
fossi per me; s’io nel tuo petto avessi
destar saputa una scintilla, a tante
preghiere mie...
Berenice. (tenera) Dunque tu credi... Ah! prence
(Stelle! io mi perdo.)
Demetrio. Almen finisci.
Berenice. Oh dèi!
Va’: farò ciò che brami.
Demetrio. E quel sospiro
che volle dir?
Berenice. (amorosa) Nol so: so ch’io non posso
voler che il tuo volere.
Demetrio. (con trasporto) Ah! nel tuo volto
veggo un lampo d’amor, bella mia face.
Berenice. Crudel, che vuoi da me? Lasciami in pace.
Basta cosí; ti cedo:
qual mi vorrai, son io;
ma, per pietá lo chiedo,
non dimandar perché.
Tanto sul voler mio
chi ti donò d’impero
non osa il mio pensiero
né men cercar fra sé. (parte)
SCENA IV
Demetrio, poi Alessandro.
arde per me. Quanto mi disse o tacque,
tutto è prova d’amor. Ma in quale istante,
numi, io lo so! Qual sacrifizio, o padre,
costi al mio cor! Perdonami, se alcuna
lagrima ad onta mia m’esce dal ciglio:
benché pianga l’amante, è fido il figlio.
Alessandro. Io vidi Berenice
partir da te. Che ne ottenesti?
Demetrio. Ottenni
(oh Dio!) tutto, o signor. Tua sposa (io moro!)
ella sará. Le tue promesse adempí:
io compite ho le mie.
Alessandro. Fra queste braccia,
caro amico e fedel... Ma quale affanno
può turbarti cosí? Piangi, o m’inganno?
Demetrio. Piango, è ver; ma non procede
dall’affanno il pianto ognora:
quando eccede, — ha pur talora
le sue lagrime il piacer.
Bagno, è ver, di pianto il ciglio;
ma permesso è al cor d’un figlio
questo tenero dover. (parte)
SCENA V
Alessandro, poi Ismene.
piú di me possa dirsi. Ecco il piú caro
d’ogni trionfo.
compatisco Alessandro! Essere amante,
vedersi disprezzar, son troppo invero,
troppo barbare pene.
Alessandro. Tanto per me non tormentarti, Ismene.
Ismene. L’ingrata Berenice
alfin pensar dovea che tu famosa
la sua beltá rendesti. Uguali andranno
ai dí remoti, e tu cagion ne sei,
Tessalonica a Troia, Elena a lei.
Alessandro. Forse m’ama per ciò.
Ismene. T’ama?
Alessandro. E mia sposa
oggi esser vuole.
Ismene. (Oh dèi!) D’un cangiamento
tanto improvviso io la ragion non vedo.
Alessandro. Della pietá d’Ismene opra lo credo.
Ismene. Ah, crudeli mi deridi?
Alessandro. Eh! questi nomi
d’infido e di crudel poni in obblio,
principessa, una volta. I nostri affetti
scelta non fûr, ma legge. Ignoti amanti,
ci destinâro i genitori a un nodo,
che l’anime non strinse. Essermi Ismene
grata d’un’incostanza alfin dovria;
onde il frutto è comun, la colpa è mia.
Ismene. E perché dunque amore
tante volte giurarmi?
Alessandro. Io lo giurava
senza intenderlo allor. Credea che sempre,
alle belle parlando,
si parlasse cosí.
Ismene. Tanta in Epiro
innocenza si trova?
SCENA VI
Antigono e detti.
amico re, son pur finiti: il cielo
al fin si rischiarò.
Antigono. Perché? Qual nuovo
parlar?
Alessandro. Vedesti il figlio?
Antigono. Nol vidi.
Alessandro. A lui dunque usurpar non voglio
di renderti contento
il tenero piacer. Parlagli, e poi
vedrai che fausto dí questo è per noi.
Dal sen delle tempeste,
d’un astro all’apparir,
mai non si vide uscir
calma piú bella.
Di nubi sí funeste
tutto l’orror mancò;
e a vincerlo bastò
solo una stella. (parte)
SCENA VII
Antigono ed Ismene.
Ismene. È Berenice
giá d’Alessandro amante; a lui la mano
consorte oggi dará: questo è l’arcano.
Antigono. Che!
Ismene. L’afferma Alessandro.
disporrá d’una fede
che a me giurò? Di sí gran torto il figlio
mi sará messaggier? Mi chiama amico
per ischerno Alessandro? A questo segno
che fui re si scordò? No: comprendesti
male i suoi detti. Altro sará.
Ismene. Pur troppo,
padre, egli è ver: troppo l’infido io vidi
lieto del suo delitto.
Antigono. Taci. E qual gioia hai di vedermi afflitto?
Scherno degli astri e gioco
se a questo segno io sono,
lasciami almen per poco,
lasciami dubitar.
De’ numi ancor nemici
pur è pietoso dono
che apprendan gl’infelici
sí tardi a disperar. (parte)
SCENA VIII
Ismene sola.
quel freddo cor non sa, perché, imitando
anch’io la sua freddezza,
non imparo a sprezzar chi mi disprezza?
Perché due cori insieme
sempre non leghi, Amore?
e, quando sciogli un core,
l’altro non sciogli ancor?
A chi non vuoi contento,
perché lasciar la speme
per barbaro alimento
d’un infelice ardor? (parte)
SCENA IX
Spaziose logge reali, donde si scoprono la vasta campagna ed il porto di Tessalonica: quella ricoperta da’ confusi avanzi d’un campo distrutto, e questo dai resti ancor fumanti delle incendiate navi d’Epiro.
Antigono e Demetrio.
per mia sventura? il piú crudel nemico
dunque ho nudrito in te? Bella mercede
di tante mie paterne cure e tanti
palpiti che mi costi! Io non pensai
che di me stesso a render te maggiore:
non pensi tu che a lacerarmi il core.
Demetrio. Ma credei...
Antigono. Che credesti? Ad Alessandro
con quale autoritá gli affetti altrui
ardisti offrir? Chi t’insegnò la fede
a sedur d’una sposa,
e a favor del nemico?
Demetrio. Il tuo periglio...
Antigono. Io de’ perigli miei
voglio solo il pensiero. A te non lice
di giudicar qual sia
il mio rischio maggior.
Demetrio. Se di te stesso,
signor, cura non prendi, abbila almeno
di tanti tuoi fidi vassalli: un padre
lor conserva ed un re. Se tanto bene
non vuol congiunto il ciel, renda felice
l’Epiro Berenice,
tu Macedonia. È gran compenso a questa
del ben, che perderá, quel che le resta.
degno del tuo gran cor! (vuol partire)
Demetrio. (seguitandolo) Degno d’un figlio,
che forse...
Antigono. I passi miei
guárdati di seguir.
SCENA X
Berenice e detti.
Antigono, il tuo fato. Oh fausto evento!
oh lieto dí! Sappi...
Antigono. Giá so di quanto
d’Alessandro alla sposa
son debitor. Ma d’una fé disponi,
che a me legasti, io non disciolsi.
Berenice. Oh dèi
non ci arrestiam. Per quel cammino ignoto,
che quindi al mar conduce, alle tue schiere
sollecito ti rendi; ed Alessandro
farai tremar.
Antigono. Che dici! Ai muri intorno
l’esercito d’Epiro...
Berenice. È giá distrutto:
Agenore, il tuo duce, intera palma
ne riportò. Dal messaggier, che ascoso
non lungi attende, il resto udrai. T’affretta;
ché assalir la cittá non ponno i tuoi,
finché pegno vi resti.
Antigono. Onde soccorso
ebbe Agenore mai?
Berenice. Dal suo consiglio,
dall’altrui fedeltá, dal negligente
fasto de’ vincitori. Ei del conflitto
il primo fallo ad emendar.
Antigono. Di forze
tanto inegual, no, non potea...
Berenice. Con l’arte
il colpo assicurò. Fiamme improvvise
ei sparger fe’ da fida mano ignota
fra le navi d’Epiro. In un momento
portò gl’incendi il vento
di legno in legno; e le terrestri schiere
giá correano al soccorso. Allor feroci
entran nel campo i tuoi. Quelli non sanno
chi gli assalisca, e fra due rischi oppressi
cadono irresoluti,
senza evitarne alcuno. All’armi invano
gridano i duci: il bellicoso invito
atterrisce o non s’ode. Altri lo scampo
non cerca, altri nol trova. Il suon funesto
del ripercosso acciar, gli orridi carmi
di mille trombe, le minacce, i gridi
di chi ferisce o muor, le fiamme, il sangue,
la polve, il fumo e lo spavento abbatte
i piú forti cosí, che un campo intero
di vincitor vinto si trova, e tutto
sui trofei, che usurpò, cade distrutto.
Demetrio. Oh numi amici!
Antigono. Oh amico ciel! Si vada
la vittoria a compir. (volendo partire)
SCENA XI
Clearco con guardie, e detti.
meco, signor, venir tu déi.
Berenice. Che fia?
Antigono. (a Clearco) Ma che si brama?
Clearco. Un pegno
grande, qual or tu sei, vuol custodito
gelosamente il re. Sieguimi. Al cenno
indugio non concede
il caso d’Alessandro e la mia fede.
Demetrio. Barbari dèi!
Berenice. Che fiero colpo è questo!
Antigono. Sognai d’esser felice, e giá son desto.
Sfógati, o ciel, se ancora
hai fulmini per me;
ché oppressa ancor non è
la mia costanza.
Sí, reo destin, finora
posso la fronte alzar,
e intrepido mirar
la tua sembianza.
(parte con Clearco e le guardie)
SCENA XII
Berenice e Demetrio.
fuggi almen tu.
Demetrio. Mia Berenice, e il padre
abbandonar dovrò?
Berenice. Per vendicarlo
sérbati in vita.
Demetrio. Io vuo’ salvarlo, o voglio
morirgli accanto. E morirò felice,
or che so che tu m’ami.
Berenice. Io t’amo! Oh dèi!
chi tel disse? onde il sai?
quando d’amor parlai?
ma quel ciglio parlò.
Berenice. Fu inganno.
Demetrio. Ah! lascia
a chi deve morir questo conforto.
No, crudel tu non sei; procuri invano
finger rigor: ti trasparisce in volto
co’ suoi teneri moti il cor sincero.
Berenice. E tu dici d’amarmi? Ah! non è vero.
Ti sarebbe piú cara
la mia virtú; non ti parría trionfo
la debolezza mia; verresti meno
a farmi guerra; estingueresti un foco,
che ci rende infelici,
può farci rei; non cercheresti, ingrato!
saper per te fra quali angustie io sono.
Demetrio. Berenice, ah! non piú: son reo; perdono.
Eccomi qual mi vuoi: conosco il fallo;
l’emenderò. Da cosí bella scorta
se preceder mi vedo,
il cammin di virtú facile io credo.
Non temer, non son piú amante;
la tua legge ho giá nel cor.
Berenice. Per pietá! da questo istante
non parlar mai piú d’amor.
Demetrio. Dunque addio... Ma tu sospiri?
Berenice. Vanne: addio. Perché t’arresti?
Demetrio. Ah, per me tu non nascesti!
Berenice. Ah, non nacqui, oh Dio, per te!
A due. Che d’Amor nel vasto impero
si ritrovi un duol piú fiero,
no, possibile non è.