< Antonio Rosmini
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Capitolo IV
III V


È qui luogo a dire d’un suo scritto intorno agli studi della lingua, in risposta a una lettera di Pier Alessandro Paravia, che fin dal soggiorno di Padova ebbe familiarità col Rosmini, e fin d’allora fra gravi difficoltà coltivava le lettere con amore raro, schivo sempre da quelle lotte che fanno dello stile un pugnale o una coltella da selvaggi apritrice di crani. Oltre a questo Dalmata, un terzo dal Roveretano fu sempre avuto in amore e in onore, Antonio Bassich, della cui virtù fin da giovanetto m’attestava Dionisio Solomos poeta illustre, cose credibili a uomo di rito greco e di veramente greco acume; il Solomos stato suo condiscepolo in quel collegio di Venezia dov’era direttore il dotto Traversi, il quale conobbe anch’egli il Rosmini e l’amò. Il Bassich poi, fattosi prete, fu onorato delle persecuzioni di quel Paolovitch a cui Silvio Pellico diede non desiderabile fama con poche parole tanto più gravi quanto più temperate. E non è mio trovato nè colpa mia se Piemontesi e Dalmati e Trentini, se la bella riviera di Cattaro e le belle rive del Verbano, se il prospetto del Calvario di Domodossola e il prospetto del Montenero, se le carceri di Venezia e le carceri di Moravia si rincontrano in una stessa memoria consociate.

Il Paravia nella lettera che nel 1819 indirizza al Rosmini, si duole che la lingua francese pigli troppo luogo nelle teste italiane; che uomini i quali non saprebbero scrivere corretto in italiano quattro parole, si facciano un vanto di biascicare il francese il qual pare più facile; che le signore leggano le preci in francese; che gli scrittori sminuzzino e sleghino alla francese il costrutto; che si compiacciano in quel giuoco d’antitesi il quale può più giustamente notarsi ne’ Francesi non sommi che questi non notino negl’Italiani i così detti concetti; si duole che il linguaggio de’ pubblici uffizi sia contaminato di modi sciagurati; che i giornali e gli opuscoletti facciano lo stile più e più immeditato e sciatto; che i teatri con traduzioni bislacche e con nuove cose meno originali delle traduzioni seminino nelle moltitudini nuova barbarie; osserva come certi umili preti di villa per sentire e usare un dialetto sì, ma un dialetto italiano, e per fare più italiane letture, scrivano men visigoto che assai preti di città e letterati di grido; accenna che il vocabolario non è, come il Monti voleva, la cagione dello stile cattivo, ma che lo studiare la lingua ne’ vocabolari anzichè negli autori (e meglio che negli autori sarebbe nel migliore uso vivente) la fa essere languente e morta, nè le renderà mai la sua nobile ed onorata qualità. E questa lettera e la risposta del Rosmini uscirono in quel giornale che in Padova continuò per più anni il Conte da Rio, uomo dotto e d’antica probità, con suo grave dispendio e con costanza che da certi eroi del minuto secondo sarebbe oggidì, nonchè non imitata, derisa.

Il Rosmini tratta la questione con intendimenti più profondi e più ampi che il Cesari e il Monti, ancorchè dia troppo allo studio e all’imitazione de’ vecchi. Ed è bello vedere quella schiatta veneta il cui dialetto, de’ più gentili e più puri, poco mancò che non diventasse la lingua d’Italia e non le desse unità; quella schiatta che dal Bembo al Gozzi rimise in onore le eleganze toscane in Toscana stessa neglette, abbia fino a’ dì nostri mantenuto questo retaggio di riverenza e di amore fraterno: nè io direi caso che un Veneziano ristaurasse il sepolcro di Dante in Ravenna, e un Veneto il sepolcro del Petrarca in Arquà, che un Veneziano difendesse la memoria di Dante da certi topi roditori che uscivano di sotto alla lava, che un Veneto ristampasse accresciuta nel secolo nostro la Crusca, che più libri toscani uscissero dalle venete che dalle toscane stamperie; che in terra veneta avessero non breve soggiorno, arringando e scrivendo, apprendendo e insegnando, Dante e il Petrarca, Torquato Tasso e Galileo Galilei.

Il Rosmini già fin da quel primo lavoro dimostra la sua tendenza alle feconde generalità: ma sebbene egli accenni il desiderio d’andare alla fonte del male, di mettere la scure alla radice, di ridurre la questione a principî, e’ la accetta però quale è posta da altri, secondo quell’altra sua naturale tendenza di accomodare non le opinioni ma il linguaggio alla varia occorrenza de’ casi. Ma non può ad ogni modo ch’e’ non riguardi come più rilevante il lato morale del suo soggetto; che non noti come fin negli studi della lingua richieggasi fatica congiunta ad amore, come delle cause della barbarie una sia l’infingardaggine, un’altra lo spirito povero e l’illiberale e angusto animo; nota come le false opinioni vengano da sentimenti falsi; mettendo alcuni ogni virtù nell’impeto e quasi nel furore, altri nel tenero e nello smaccato chiudendo ogni pregio, altri finalmente in un certo fastoso apparato di scientifiche allusioni; e così coll’indole dell’animo e della mente propria misurando tutte le cose. Egli giovane e caldo d’affetti, appunto per questo non ama quel fervore del parlare ch’è cosa forzata; non l’abbagliano le masse dei colori forti, le bellezze di maggior violenza, i lampi di fantasia con tempesta d’affetti: non gli piace quella discordanza deforme che fa gli scrittori simili a femmine che imbizzarriscono. Vuole che nella scelta de’ libri di stile puro badisi alla purità del costume, il cui danno non è compensato da una montagna di modi eleganti. E di morale tinge le sue imagini ragionando di lingua; sani ingegni, succhi incorrotti, integrità di parlare, favella innocente: e nella semplicità dello stile richiede accortezza, così come nel sentire e nell’operare; accortezza a discernere la bellezza vera dall’imbellettata, ch’è non facile, appunto come discernere la virtù dall’infingimento della virtù. E l’una e l’altra egli sente dover essere mite e temperata, moderata in un suo essere e a norma di ragione; e che da quella moderazione del bello, come dal fondo dell’opera, le fantasie ardite e gli scatti del cuore più vivamente risaltano. E continuando la comparazione morale, avverte che gl’ingegni formati a bellezza vera possono poi studiare anco i libri di genere meno eletto, come l’anima assodata negli abiti del bene e del vero non l’atterra nè infrange l’aspetto dell’umana corruzione, anzi la vista di lei, e la meditazione de’ traviamenti e delle pazzie umane, più il consolida sulla sua base, e il petto gli fornisce di sapienza e di consiglio a profitto e lume altrui. Nella bellezza egli riconosceva moralità, perchè l’abito mondo e grazioso è riguardo che l’uomo deve a sè stesso e ad altrui, perchè doti morali sono la delicatezza e il decoro.

Ma venendo a quell’altro pernio della sua vita, la scienza, egli nega che la lingua italiana sia insufficiente a significare tutte le idee umane che siano idee e non aborti; al contrario di coloro che, non la sapendo nè volendo apprenderla, fanno teoria della propria ignoranza; e li chiama idioti, e la scienza loro indiscreta e incivile; e detesta quella affettazione di novità barbara, quella esotica rusticità. De’ lineamenti incerti del dire egli accagiona il sentimento incerto e confuso e dice insoffribile deformità che nella stessa nazione le dottrine non abbiano favella costante, ma usino mille gerghi e mille cifere diverse a capriccio degl’impoliti scrittori. Egli vuole la scienza curante delle sottili proprietà; vuole in essa quel linguaggio fermo che seppe poi ritrovare; e afferma che la solidità e la proprietà della lingua si mettono a prova nelle cose dell’erudizione e dell’intelletto, dove le idee rapiscono con sè le parole; ch’è modo più potente dell’Oraziano, che le parole non restie tengon dietro alle cose premeditate. Non già ch’egli non senta come i concetti della mente sovente trapassino i termini del creato e abbiano dell’ineffabile; non già che non sappia come il passar sopra a certe minute timide cure sia istinto e testimonio di grandezza; ma di qui non deduce scuse all’inerzia superba di quella scienza ch’è tanto più volgare quanto dal popolo si fa più remota. Egli ama la scienza non ignudata, non secca e sparuta, ma vestita e splendente; e sente come la scienza faccia il dire più scelto ed eccellente e magnifico, e come la filosofia segnatamente sia scienza ubertosa: e assapora il Platonico miele. Vede il vantaggio che dalla scienza può trarsi agli studi delle lingue, e da questi a quelle; vede come connettasi la perfezione del linguaggio con quella delle dottrine; come la letteratura sia invigorita dal sapere e quasi fornita di radici; e come il fare la scienza avversa alla lingua sia un fare il sole avverso alla luce. Nè vieta ch’anco nelle gentili scritture si seminino parole di scienza, quasi orme di piede umano in amena campagna, nè vieta la conoscenza delle lingue straniere, anzi dipinge la dottrina vera come donna che per tutto il mondo conduce l’uomo, e le lingue de’ varii popoli gli consegna quasi chiavi del pensare de’ sapienti in qualunque piaggia nati e sotto qualunque cielo vissuti. Ripete e amplia il detto di Vitruvio che vuole tinto di tutte le scienze l’architetto; e raccomanda quella liberalità di pensare, che non al proprio studio solo tien l’occhio, ma ancora agli altrui serenamente riguarda.

Anco al cattivo insegnamento appone il Rosmini questo della lingua snaturata dall’indole della nazione, e non già come a prima causa del male, ma come ad effetto anch’esso di cause più gravi, e compiange con le parole d’Orazio la boria de’ maestri decrepiti di senno nella immaturità degli anni o nella vecchiaia ragazzi, i quali - «Nulla fuori di ciò che piacque loro - Veggon di retto, o perchè credan turpe - Consentire a’ minori, e fatti antichi - Disapparar ciò che appararo imberbi». - E qui con sorriso doloroso compiange quella malattia che da altri paesi pare si sia, come la colerina e la crittogama, diffusa adesso in Piemonte, del voler insegnare ai bambini non d’ogni cosa un po’, ma ogni cosa di nulla, giacchè non c’è maestro in Piemonte nè al mondo che sappia tante cose quante ne deve il bambino al suo esame dire. E già mille cose in breve tratto si fanno appurare e trangugiare dalle menti tenerelle, che per mia fè colui il quale per addietro sarebbe stato da latte, ora si vuol simile a quel valoroso, che avria sorbito, come canta il piacevolissimo nostro poeta,

Che avria sorbito in un boccone intero
L’uomo e il cavallo, l’arme e i vestimenti
Senza toccar nè il palato nè i denti.

Toccando della storia della lingua (giacchè ben vedeva quest’alto ingegno che in ogni cosa è storia e nella storia ogni cosa) s’avvede dello sbaglio di coloro che fanno gl’Italiani peggio che pappagalli de’ Provenzali nel dire con parole altrui quel che sentivano essi con la mente e l’anima propria, e scorge tra le due lingue consanguineità di sorelle, e maggiore affinità riconosce tra loro ne’ primi tempi, che l’italiana non era ancor cresciuta in corpo adulto e consolidato; e soggiunge cosa che non troverai la simile in tutto il Perticari, che pur fa dell’uomo civile, soggiunge che lo stato civile d’allora era in Italia più semplice e meno artificiato; le quali modeste e socratiche parole dell’Abatino a buon intenditore dicono più di tutti i ragionari che ordisce intorno a Dante e al Boccaccio Didimo Chierico sacerdote delle Muse. Vuole che negli antichi volgarizzatori s’apprezzi la disinvoltura tutta italiana, conciliata alla puntualità che in liberi modi rende fedelmente il più sovente l’intimo del concetto; vuole che dal raffronto di quell’italiano al latino conoscasi dove l’una delle due lingue scarseggi, dove abondi; e così lo studio delle parole facciasi studio d’idee, e la ricchezza passata sia germe allo svolgersi di ricchezza avvenire, e ravvivisi la bellezza primiera là dove comincia scolorire. Raccomanda quegli scrittori segnatamente che, ricevuta la pura favella, in sè con la ragione e con l’arte la invigorirono; e chiede se ne stampino scelte, non però di squarci troppo minuti ma che offrano l’effigie dello Scrittore; confessando del resto che in tali letture vuolsi di molta varietà, e che una diversa scelta per ciascun giovane forse si converrebbe. Confessa insieme che lo studio non può nè far forza alla natura nè compensarne tutti i difetti; e ridice col suo Petrarca Che stile oltra l’ingegno non si stende; e distingue cose che nelle antiche e recenti baruffe si sono confuse e quasi abbaruffate insieme: lingua, stile, pensieri. Ridice con Cicerone che senza le idee l’adornamento delle parole è puerile, ma appunto con ciò rende il peso debito alle cosucce della lingua perche intende come gli scrittori sfiorati di lingua con que’ loro vocaboli annebbiati dimostrino la caligine e aridità delle idee; e ne’ periodi stirati o rattratti, senza giunture nè nervi vede la fiacchezza o deformità de’ pensieri. Sterminare la lingua chiama egli il depravarla, accennando a quella indeterminazione d’idee che viene da leggero artifizio, tutt’altra da quella indeterminatezza feconda ch’è naturale alla capacità della mente, e tanto più ampia quanto più sono le menti capaci. Nel costrutto desidera salda e vera conformazione, e che il portamento di quello sia bene atteggiato e mosso; e in queste belle parole conchiude le buone qualità dello stile: proprietà e varietà, freschezza e ingenuità, distinzione e aggiusiatezza del costrutto. Ma sentendo e per istinto e per meditazione il possente vincolo delle piccole cose con le grandi, non vuole neglette quelle finezze e quelle mezze tinte nelle quali dimora la perfezione come della pittura così dell’orazione. E sentendo fin d’allora come il comune sia unico fondamento e di verità e di bellezza e di giustizia e d’unità, chiede al dire foggie ardite ma insieme maniere comuni cioè suggellate dall’uso, le cui ricchezze chi ben possiede, non va in cerca di strane singolarità. E però il parlare improprio, egli lo chiama angusto e ristretto a sè stesso, come d’uomo che rinneghi la sua nazione, anzi la comune natura.

Questo senso di civiltà, d’italianità, d’umanità è nella lettera del Rosmini con forza significato; che non solamente e’ ripete col Salvini che le forme straniere non tanto hanno arricchita la lingua quanto indotta in lei ingrata e stupida obblivione de’ modi natii, ma lo scrivere sudicio e forestiero egli chiama morbo deforme e crudele artifizio e ignominia e viltà, e quelle de’ suoni stranieri onte nostre. Egli aveva però detto che ingegno fortemente educato ritrarrebbe dagli stessi pericoli stranieri grandezza, robustezza e dignità; e, qui soggiunge che ha le sue bellezze il francese, ma che l’italiano a voler contraffarlo qual è adesso si disnoderebbe e si disfarebbe. E alle anime italiane e gentili raccomanda che s’indirizzino ad ottenere un linguaggio comune, splendido e fermo; e vorrebbe a ciò un consesso nazionale davvero; e che il pubblico Magistrato, come per ingegno e per nobiltà di pensare così soprastesse agli altri per eccellenza di favellare; e che il libro più augusto della nazione non solo per provvidenza e per sapienza e per giustizia ma ancora per massima perfezione di dicitura, dopo gli eloquî divini fosse il Codice, e così per eccellenza a diritta ragione si nominasse siccome quello che in un tempo dipingerebbe il pensare, l’operare esteriore ed il parlare di un popolo grande.

Così scriveva un giovane di poco più che vent’anni; e nel riandare le splendide orme degli antichi, desiderava rinnovellato ogni cosa; e richiedendo che la lingua cioè il pensiero fosse recata alla propria natural perfezione, confessava: più da natura che da artifizio è bellezza. Ma non lo illudevano le speranze, nè facili credeva i rimedî del male, e l’avvedersene aspettava dalla tarda esperienza de’ mali effetti che ne usciranno: anche in ciò costante a se stesso, che l’altezza e velocità de’ suoi desideri non lo involava al sentimento e alla compassione dell’umana tardità e debolezza. E però su quest’opera giovanile mi sono fermato tanto, perchè la tengo, più che un preludio, un’opera degna di lui; e perchè considerando quella ricchezza di memorie e letterarie e filosofiche, e greche e latine e italiane di tutti i secoli conserta al suo dire, sì scelta e sì appropriata; e quegli accenni rapidi a sentenze e locuzioni di scrittori grandi che nella sua parola sono immedesimate, e paiono più acquistarne luce che dargliene e attestano i molti e squisiti suoi studi; considerando quelle pure e lucide forme ch’egli usa, que’ valenti vocaboli, quella dovizia di dire, e quella vigorìa d’entusiasmo che spira dalle parole modeste, segnate da me con altro carattere fedelmente; mi pare di poterne arguire che s’egli, rapito dall’abbondanza e novità delle idee che doveva diffondere e dalla carità che gli raccomandava il sacrifizio delle cure minori più raramente dilette, non avesse interrotta l’opera dello stile, l’Italia, com’ha un secondo Aquinate, avrebbe il suo Platone ed il suo Bossuet.

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