< Antonio Rosmini
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Capitolo XLIII
XLII XLIV


Sette giorni gli restavano d’anelito ancora, e le ambasce erano così stringenti, e l’anima sì presente a sè, riflettendosi in sè medesima, si specchiava quasi ne’ propri dolori, senza accelerarne l’impeto o alterare l’imagine propria, che, credendosi agli estremi e sfinito dalla lunga battaglia con la vita, disse al Paoli suo fidato: Quando volete, raccomandatemi l’anima. La voce ancora forte, ma la favella più e più impedita; l’udito più lento, ma sulle labbra il sorriso: la convulsione affannosa, nelle preci dell’agonia pareva calmarsi. Il dì trenta dopo le tre perde la parola, non ancora la mente. Allora il suo pio infermiere e compatriota Antonio Carli (giova registrar questo nome in riconoscenza di tanto affetto, e per onore al defunto che i buoni inferiori di grado non pure amava con rispetto ma onorava, dolendosi e adontandosi s’altri non ne facesse la debita stima e non intendesse la semplice loro virtù) si distacca per la prima volta da esso, vedendo già consumato il suo uffizio nè sapendo reggere a quella vista. Il rifiutare il vino oppiato con pepsina, il succiare con le labbra un liquore acidulo portogli per inumidirle, erano moti più forse di volontà che d’istinto. Ott’ore continue il corpo straziato mandava gemiti lamentevoli e forti, che pareva suonassero Dio eterno! Sulla mezzanotte si quetò, ricompose la persona, raccolse le braccia nell’attitudine del sepolcro, e spirò.

Era più che il tocco, e non lontana l’alba del dì primo luglio. Nel luglio, il mese che un grande Italiano cantato da Dante, Bonaventura, morì; il giorno consacrato al Sangue di Cristo, moriva il Rosmini nato nel mese che morì Tommaso d’Aquino, e battezzato il dì dell’Annunciazione nell’anno che la Repubblica di Venezia periva, insidiata anzichè debellata, e poi mercanteggiata da un Italiano grande a suo e a nostro danno, quella repubblica nella cui schiatta il Rosmini ammirava le orme languide sì, ma amabili tuttavia, dell’italiana antichissima civiltà e gentilezza.

Di che malattia moriva egli? L’infermità di tanti anni poteva ella con altra cura risparmiarlo qualche tempo ancora? Non fu aperto il cadavere; e fecesi bene. La verità poteva rendere più amara la perdita, e poco poteva giovare all’arte; giacchè la storia dell’uomo malato così come quella delle nazioni malate non prolunga la vita ai destinati a morire; e medicina e politica sono arti, men che d’esperienza e di memoria, di divinazione e d’istinto. Certo è che il buon medico sentiva il valore di quella vita, nè poteva prestargli cure più assidue con riverenza più religiosa, con più trepido affetto; il medico, uomo stimato da tutto il paese, e da quello ch’è uno de’ pochi lumi che restino alle italiane università già sì grandi, il professore Panizza.

Le esequie senza colore di parte, in paese ch’erasi già tentato aizzare contro lui vivo, furono solenni per la mesta venerazione del popolo e per il concorso de’ sacerdoti delle dodici parrocchie circostanti e altri ancora; e funerali in chiese d’Inghilterra e d’Italia gli furono celebrati e detti elogi non da uomini del suo stesso Istituto: e lettere di condoglianza rispettosa da più luoghi e d’Italia e di Francia; e giornali solleciti dell’onore della nazione dissero di lui parole splendide ed ardenti, e un monumento gli si medita nel suo Rovereto. La perdita sarà più sentita col tempo: diceva il Manzoni, compendiando ogni lode in queste parole; degno interprete della posterità. Il nobile vecchio che andava a orare al letto di lui anche morto, levato che fu il cadavere, rientrando a orare, come se allora s’accorgesse della morte, appunta al letto le braccia, e con voce di desolazione: «non c’è... non c’è più!» - prende il Paradiso di Dante e lo bacia: e pregato di torsi per memoria un qualche libro: «la memoria è qui, con la mano alla fronte; poi al cuore: e qui».

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