< Antonio Rosmini
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Capitolo XVI
XV XVII


Il Rosmini nutre tanta riverenza verso il senso comune e verso la tradizione e l’autorità, che dall’uno e dall’altra acquista forza e ne aggiunge; distingue col titolo di volgare appunto la scienza di coloro che accolgono senza scelta e senza scelta rigettano, che ad ogni ora gridano contro il pregiudizio, e sono di pregiudizio inzuppati. All’autorità ed alla fede egli vuole che la natura e la ragione vengano conciliate, anzi di queste fa scala a quelle nella storia dell’uomo e di tutta l’umanità. La scienza umana egli non può separare dalla religiosa, perchè ne’ tempi più gloriosi alle nazioni e negli uomini delle nazioni più benemeriti le si trovano naturalmente accoppiate, e perchè la scienza non può esser civile, cioè concordemente e stabilmente efficace sulle moltitudini, se religiosa non sia. Ma la sua religione vuole nel filosofare libertà; predica la conciliazione delle sentenze diverse; e nel commetterle insieme in corpo vivente, non già nello sdraiarle l’una lungo l’altra o nel prenderne alcuni squarci a caso o a capriccio, fa consistere l’unità.

Con questo intendimento egli tesse la storia della filosofia quasi la vita d’un uomo; addita nelle dottrine i germi del vero presentiti, e o cominciati a svolgere, o soffocati, e poi ripullulanti, e mortificati da capo: addita i passi altresì dell’errore, e fin le occasioni e gl’impulsi tenui remotissimi. Con acuto avvedimento tiene di conto delle obbiezioni che a dottrina fecero non gli avversari ma i seguaci suoi stessi, di quelle che fece a sè medesimo l’autore, più o meno consapevole; delle petizioni di principio e delle contraddizioni: e la ripetizione è talvolta la maschera della contraddizione. E quest’è vera storia perchè ricerca la scienza nell’intimo della coscienza; e ci dà la morale di questa gran favola, tra dramma e apologo, ch’è l’umana filosofia. Ponendo, esso, le questioni nette, si aiuta a riconoscere dove gli altri le abbiano non ben vedute, e perchè non le abbiano bene sciolte; e va diritto al forte della questione con quel coraggio ch’è ignoto alle teste superbe, le quali fanno di tutto per dissimulare a sè stesse le difficoltà; e per volerle scansare si sviano, per saltarle, rovinano.

Ridico, ed importa, che sì nel porre e sì nello sciorre la questione, e’ si guarda dall’eccesso e dal difetto, che sì sovente s’alternano nelle umane cose. Egli, critico sì poderoso, riprende la critica intemperante; egli, ingegno sì speculativo, riprende l’intemperante amore della speculazione; egli che deplora la decadenza dell’arte logica, decadenza inevitabile quando il senso morale comincia mancare alla scienza; egli che apprezza tanto Aristotele in questo, e che ragionandone dianzi meco attribuiva a lui l’invenzione dell’arsenale logico tenendo che l’India da lui lo togliesse (di che io dubito tuttavia), e assentiva a me che il diverso fare filosofico dello Stagirita dal fare Italico e Greco attribuivo alla diversità della razza da’ Greci avuta per barbara; lo giudica senza ammirazione ligia nell’opera che scrisse di lui e che aveva a essere un capitolo solo d’altr’opera, ma poi, come avvenne più d’una volta, gli crebbe in un volume da sè. Vuole del resto il Rosmini (e non mi pare che Aristotele mai lo ponga così nettamente), che il metodo filosofico tenga le vie che tiene in fin dal primo naturalmente la mente dell’uomo ne’ suoi svolgimenti. E anco qui ricorre a’ bambini, i quali egli soleva fin da’ giovanili suoi studi osservare lungamente, quasi libro di minuta scrittura e abbreviata ma bella; e con l’anima interrogava i menomi atti sfuggevoli e il profondo dell’anima loro, la indovinava con divinatrice affezione di madre. Anzi raccontava egli stesso come de’ suoi primi pensamenti infantili, distintamente avvertiti, avesse coscienza riflessa, e però rimembranza. Dalle prime impressioni dell’infante inconscio di sè, dalle sue prime espressioni del sentimento indeterminato, anzi dell’istinto, al complesso e al viluppo delle idee e passioni dell’uomo maturo consumato nel bene o nel male; dal grido della bestia al sillogismo del filosofo; tutto egli voleva osservato, computato. De’ più tenui fatti voleva tenessesi conto; e le statistiche raccomandava, e ne porgeva, ben meglio che il Gioia, le norme; e rigettava le ipotesi mere, egli che poteva esserne sì fecondo per pompa d’ingegno, egli non accetto a que’ positivi la cui scienza del dubbio e della negazione è tutta una filza d’ipotesi. La filosofia della quale egli intende far base a tutte le scienze, s’inchina religiosamente non solo d’innanzi a Dio ma d’innanzi all’atomo impercettibile nel quale è un universo d’idee; e ben può dirsi di lei quello che del poema suo dice Dante, che ci ha posto mano e cielo e terra. Nel cogliere il bel mezzo della questione il Rosmini ne tocca, quasi con le ale tese della mente, i due estremi; onde il pericolo che i leggieri o i passionati staccando una sua proposizione dall’altra, ci veggano contraddizione: ma le sono di quelle contraddizioni che fanno apparire sì grande l’ingegno d’Agostino, che fanno misteriosamente splendido il Cristianesimo, terribilmente sublime l’umana natura. In questa forza del toccare i termini del vero senza trascenderli, dell’accostarsi alle due opinioni contrarie senza rasentarne gli eccessi, un solo ingegno io trovo comparabile al Rosmini, e forse in ciò maggiore di lui, l’ingegno d’un italiano, d’un frate (me ne dispiace, ma io non posso sfratarlo, nè confiscargli la Somma per aggiudicarne il valore come meglio a me piacerebbe): Tommaso d’Aquino. Ma se nel frate lodato da Dante, e avvelenato, dicono, dal re di Napoli perchè non andasse al Concilio, il disegno della grande opera è con più previdenti proporzioni ordinato; se in ciascuna particella è condensata la dottrina per modo che ogni sentenza, ogni parola ha un valore suo e pur consonante col tutto, egli dona e ne acquista una bellezza matematica insieme e poetica che spaventa d’ammirazione il pensiero; non darebbe troppo al Rosmini chi affermasse di lui che più nuove cose egli aggiunse all’eredità della scienza; che, trovando interrotto da recenti rovine il cammino di quella, gli si richiedeva più forza di mente a spiccar voli arditi per ricongiungerci al passato, e quindi con più foga rincorrere nell’oscuro avvenire.

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