< Aridosia < Atto primo
Questo testo è completo. |
Lorenzino de' Medici - Aridosia (1536)
Atto primo
Scena quinta
Scena quinta
◄ | Atto primo - Scena quarta | Atto secondo | ► |
Erminio giovane, Lucido servo
- Erminio
- Che peggior cosa mi poteva egli intervenire, sorte crudele! non credo ch’egli accada in cento anni ad uno, che alla prima volta ingravidi una donna.
- Lucido
- Forse che parla o pensa mai ad altro.
- Erminio
- Ma quel che più m’affligge è, ch’io mi dubito che per il gran dolor della vergogna la si faccia qualche male; oh Dio, tu solo puoi fare, ch’ella lo faccia secretamente.
- Lucido
- Dio non ha altra faccenda, che far la guardadonna alla Fiammetta.
- Erminio
- Almanco non gli voless’io tanto bene, e pur quando io potessi non gliene volere, gliene vorrei in ogni modo; quel dì, ch’io non ho nuove di lei, viver non posso, e ancora Lucido non è venuto, ed è due ore ch’io lo mandai.
- Lucido
- Quanto più sto, peggio è; chè le bugie od ora o poi gli ho a dire; buon dì, padrone.
- Erminio
- Tu mi tratti sempre a questo modo; quell’ambasciate, che tu sai ch’io desidero di saper prima che le altre, tu indugi a farmele saper più che tutte l’altre.
- Lucido
- Voi sapete pur come son fatte; innanzi ch’elle compariscano alla ruota, e che abbian finita la risposta, gli è sera; di poi vostro padre, Tiberio, e il Ruffo al ritornare, m’hanno tenuto qui a bada tre ore.
- Erminio
- Tuttavia hai ragione tu, ed io il torto; ma indugia un poco più a dirmi com’ella sta.
- Lucido
- Io ve lo farò dir a Tiberio, quanto noi siam stati a combatter col Ruffo.
- Erminio
- Dimmi, in malora, com’ella sta.
- Lucido
- E che! ad un modo.
- Erminio
- Non t’ha ella detto, che tu mi dica cosa alcuna?
- Lucido
- Si raccomanda a voi.
- Erminio
- E non altro?
- Lucido
- Non altro.
- Erminio
- Come sta ella, di mala voglia?
- Lucido
- Al solito.
- Erminio
- Queste sono molto asciutte risposte.
- Lucido
- Io ve le do, come l’ha date a me.
- Erminio
- Disset’ella, ch’io l’andassi a vedere?
- Lucido
- Ella non m’ha detto altro.
- Erminio
- Oh Dio, la poverina debb’esser fuor di sè.
- Lucido
- Fuor di te sei tu.
- Erminio
- Ch’ho io a far, Lucido?
- Lucido
- Adesso avete a desinare, e poi penseremo a quel che s’ha da fare; io vi ricordo, che il darsi tanto dispiacere delle cose, non serve ad altro che a farci male.
- Erminio
- Io non posso fare altro: tu hai bel dir tu, che non ci hai passion nissuna.
- Lucido
- Dunque credete voi, che le vostre passioni non sieno passione ancora a me; io vi giuro, che tutta questa notte non ho mai dormito per pensare a qualche via che vi liberi da tanta molestia, e vi contenti, e ancora non mi dispero di poter trovar qualche cosa di buono.
- Erminio
- Dio il volesse.
- Lucido
- Andiamo a desinare, che Tiberio vi aspetta.
- Erminio
- E dov’è Tiberio?
- Lucido
- Là dentro con la sua bracciata, e fate conto, che adesso sono ai ferri.
- Erminio
- Oh infelice me: lui che non ha comodità nissuna, e ch’ha un padre sì ritroso, senza danari, senza pratiche, si gode i suoi amori, e a me, ch’ho tutte queste cose, e ogni uom propizio, mi mancano, con la speranza insieme di averli più a godere.
- Lucido
- Lassatela adesso passare, e desinate in pace; poi penseremo a qualche cosa; voi sapete che la fortuna aiuta i giovani.
- Erminio
- Tu hai una gran cura, che questo desinar non si freddi; per l’amor di Dio, va e ordina; io son qui innanzi all’uscio; chiamami.
- Lucido
- Questo importa un po’ più.
- Erminio
- Io vo meco medesimo spesso pensando, che nell’amor sia di queste due più infelice condizione, o l’amor senza esser amato, o amando, ed essendo amato, e desiderando una medesima cosa, esser proibito da muri, da ferri, e porte, e guardie; com’io provo con la Fiammetta mia, la qual so che non ha altro desiderio, che ritrovarsi meco; e al fine io mi risolvo, che la mia è più infelice sorte; perchè, nonostante che ci sia il contento di saper d’esser amato da chi io amo, egli è tanto il dispiacere, quando io considero, che fra lei e me non è altro che ci proibisca i nostri desideri, che tanto di ferro, ch’io resto morto, e vommi assimigliando a Tantalo, il qual stando in continua sete, con i labbri tocca un rivo di acqua fresca, nè perciò ne mandò mai giù una goccia, e così stando io in continuo desiderio di ritrovarmi con Fiammetta mia, me gli accosto tanto, ch’ogni po’ più sarei contento, nè perciò toccar nè baciar la posso. Oh almanco fosse stata la comparazione simile in tutto, che così come Tantalo mai l’acqua ha gustato, io mai lei avessi gustata, che adesso avrei molto minor dispiacere! Vedi a quel ch’io son condotto! a desiderare di non aver fatto quel che desiderai far pria più che di vivere, non per levar in tutto, ma per scemar il mio dolore.
- Lucido
- Venite a veder, Erminio, se volete ridere.
- Erminio
- Che cosa mi farà ridere? bisogna ben che sia da ridere.
- Lucido
- Tiberio e Livia, che stanno nel letto, e fanno le maggior bravate, che voi sentissi mai; lui vuole ammazzar suo padre, se torna di villa; lei il Ruffo, come verrà per il resto dei denari; e così infuriati dicon le più belle cose del mondo, ma vi prometto, che si furieranno, se fanno a questo modo; ma venite dentro, ch’ogni cosa è in ordine.
- Erminio
- Se sono in letto non si voglion ei levare?
- Lucido
- Voglion desinar, cenar e dormir lì.
- Erminio
- E lor savi.
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.