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Per la bellezza d'un'idea
Per un recente raffronto delle teorie di S. Agostino e di Darwin circa la creazione L'origine dell'uomo e il sentimento religioso




PER LA BELLEZZA D’UN’IDEA

PER LA BELLEZZA D’UN’IDEA


I.


Io ebbi, nel febbraio del 1891, l’onore di parlare davanti a una dotta e grave assemblea intorno alle relazioni della famosa dottrina che piglia comunemente il nome da Carlo Darwin, con la dottrina cattolica circa la Creazione. Ho inteso allora stabilire la libertà delle coscienze cattoliche a fronte di una ipotesi, secondo la quale gli organismi viventi non sarebbero già comparsi sulla terra ad intervalli per effetto di atti distinti del Creatore, ma si sarebbero venuti modificando e svolgendo di generazione in generazione da una forma originaria unica alla immensa varietà presente. Ho fatto anzi un passo più avanti; ho detto quale delle due teorie mi paresse più rispondente al vero e all’idea religiosa. Userò per chiarire quel mio assunto, di una similitudine in parte non nuova, sviluppandola in un modo insolito.

Se gli orologi, come hanno una faccia liscia e bianca, un corpo delicato e una oscura, segreta complicazione di sottili visceri, così avessero intelletto, alcuni di essi vorrebbero probabilmente meditare e conoscere il mistero della loro origine. I rozzi orologi d’ottone, i più popolari orologi di argento si contenterebbero forse di una ingenua e semplice fede, crederebbero di essere stati creati in un attimo e nella loro forma attuale per opera di un grande onnipotente Orologio, padre comune di tutti gli orologi; mentre invece gli orologi d’oro, ricchi di pietre preziose e di smalti, si accomoderebbero facilmente ad uno scetticismo elegante, non penserebbero che a camminare e a brillare. Ma i cronometri, gli orologi di più squisita fattura, ripudiando essi pure il credo volgare, indagherebbero con libertà di pensiero e di ricerca il problema. Essi arriverebbero probabilmente a scoprire che un orologio non potè mai essere creato in un attimo perchè certo le sue parti dovettero venirsi successivamente adattando le une alle altre con un processo continuo mediante l’azione combinata di cause sconosciute; che l’orologio non è quindi opera di creazione ma di evoluzione, ossia d’un progressivo sviluppo; che oltre alla evoluzione individuale vi è anche una evoluzione della razza attraverso i secoli, nel senso di un continuo successivo progresso dalle clepsidre ai Bréguet e ai Patek; che l’idea di un grande Orologio creatore degli orologi è affatto superstiziosa e propria di orologi inferiori, i quali non sanno immaginare un Essere ideale e divino se non con le rotine, le molle, le casse, la mostra e le lancette. Sarebbe tuttavia possibile che, a forza di studiare, uno di questi cronometri scoprisse che i meccanismi degli orologi provengono da una materia preesistente per via di evoluzione, per opera di forze dirette da un Essere intelligente, conformato in modo da poterglisi paragonare tutti gli orologi, da potersi dire ch’egli stesso è una specie di orologio, un sottile e complicatissimo meccanismo in moto, un misuratore del tempo. Questo ingegnoso filosofo dal cervello d’acciaio e d’oro, accostandosi così in parte alla opinione de’ suoi confratelli più illuminati, verrebbe però a confermare in sostanza la semplice fede del popolo dal cervello d’ottone, e il consenso dei più sapienti con i più ignoranti sarebbe, ancora una volta, ottimo criterio di verità, se è vero che gli orologi non si creano con un fiat e che il loro Fattore è egli pure, per quanto se ne può vedere, un meccanismo in moto dove non mancano i battiti misuratori del tempo.

Un simile aspetto ci offrono le credenze e le opinioni umane circa la origine degli organismi viventi. Noi vediamo sorgere primo il concetto di un Creatore somigliante all’uomo anche materialmente, che parla, che crea in un attimo con la voce ordini interi di esseri nuovi, che plasma un uomo di creta e gli soffia nel viso la vita. Noi vediamo contrapporsi a questo il concetto della materia che si trasforma lentamente da sè per via di evoluzione, producendo poco a poco tutti gli organismi e per ultimo l’uomo stesso, per cui non avrebbe più luogo l’azione di un Creatore; il quale del resto, così com’è rappresentato dalle religioni positive, non sarebbe, secondo il concetto di cui parlo, che un Dio creato dall’uomo a sua propria immagine e somiglianza, che un’ombra colossale dell’uomo proiettata nel cielo vuoto. Noi vediamo finalmente un terzo concetto che ammette nell’universo l’azione di lente occulte forze per le quali la materia inorganica è salita attraverso miriadi di secoli fino a produrre il corpo umano; un concetto che riconosce nel mondo inferiore torbidi prodromi e baleni annunziatori dello spirito immortale donato all’uomo; che attribuisce finalmente le leggi di queste trasformazioni alla volontà di un Essere intelligente cui l’anima umana somiglia perchè essa pure intende e vuole.

Nella memoria che lessi all’Istituto veneto, io ho proposto e difeso, in sostanza, quest’ultimo concetto. Spero non avervi perduto il mio latino, ch’era veramente abbondantissimo, massiccio e pesante, «Vedrete» ha detto, non senza ironia e malumore, a proposito della dottrina nuova e delle credenze antiche, un celebre discepolo di Darwin: «Vedrete. Qualcuno verrà un giorno o l’altro a sostenere che le bottiglie vecchie erano fatte apposta per il vino nuovo». Io porto un grande e sincero rispetto al professore Huxley, ma ironia o no, malumore o no, sono appunto venuto l’anno scorso a sostenere presso a poco che le bottiglie vecchie erano fatte apposta per il vino nuovo. Vi era però nella mia tesi questa sottile differenza. Io avevo trovato che il vino del professore Huxley non era interamente, come altri gli ha detto meglio di me, di qualità nuova, poichè certe vecchissime polverose bottiglie avevano dei fondi, scolorati se si vuole e con alquanta posatura, ma ricchi tuttavia d’alcool e simili di sapore a quel vino. Intendo dire che in alquanti grandi e famosi vasi di dottrina cattolica ho trovato idee che se stavano colà dentro, certo vi poteva stare anche la dottrina scientifica della evoluzione. Mi sono allora provato d’introdurvela e ho visto che vi si conteneva mirabilmente e che anzi vi era posto per molto altro vino simile delle vendemmie future. Io ho compiuta questa laboriosa operazione e ne ho dato alle stampe il processo verbale per un pubblico ristretto di materialisti e di credenti, male informati gli uni e gli altri della vera dottrina cattolica.

Allora molti si sono maravigliati che io, scrittore di versi e di romanzi, mi mescolassi d’uno studio simile. Costoro non pensavano forse che, lasciando il latino, i teologi, la metafisica e la barbarie greca dei termini scientifici, mi volterei adesso a parlare della evoluzione come un artista che ne ha il diritto.

II.

Mi figuro che qualcuno di voi, qualche onesta, seria e intelligente persona molto aliena dal discutere intorno a principii generali, dal toccare questioni gravi e pericolose di cui non sa vedere un lato pratico, neghi la importanza di questo argomento per il pubblico grande. Immagino pure il mal animo d’un’altra rispettabile classe, di coloro che si trovano bene a sedere sulle loro vecchie opinioni come vecchie poltrone dove sedevano i loro genitori o come nella solita sedia chiusa del solito teatro, onde tutto che può turbare la loro consuetudine affettuosa li incomoda e li offende. Io penso tuttavia che se in fondo a una miniera di carbon fossile si trovasse una cronaca locale del tempo in cui quel bosco era vivo, o se dalla stella polare cadesse in terra un messaggio profetico sull’avvenire dell’Uomo e dell’Universo, anche il pubblico grande piglierebbe un certo interesse alla cosa. Ora non è una cronaca locale ma una storia grandiosa e semplice dell’Universo che i veggenti della Evoluzione pensano avere scoperta, parte in fondo agli abissi del cielo, parte in fondo alle viscere della terra, parte nei fossili degli organismi, parte nei fossili del linguaggio umano, poichè vi sono anche parole fossili. E la lampada che ha servito per questa grande scoperta, se proietta la sua luce direttamente sul passato dell’Universo e dell’Uomo, manda però un certo chiarore anche dall’altra parte, verso l’avvenire. Essa non era ancora bene accesa quando se ne commoveva il maggiore poeta che il nostro astro abbia posseduto dopo lo Shakespeare. La mattina del 2 agosto 1830 arrivò a Weimar la notizia ch’era scoppiata una rivoluzione a Parigi. Un amico di Goethe si recò da lui nel pomeriggio dello stesso giorno. «Ebbene?» esclama il vecchio Goethe andandogli incontro. «Che ti pare del grande avvenimento? Il vulcano è scoppiato, tutto è in fiamme, tutte le trattative segrete sono a monte. «Un’affare spaventoso!» risponde l’amico. «Ma che si poteva aspettarsi con un ministero simile? Niente altro che la cacciata della dinastia.» «Caro mio, qui non c’intendiamo», replica l’autore del Faust. «Io non parlo di quella gente lì. Parlo della disputa fra Cuvier e Geoffroy St. Hilaire che è scoppiata all’Accademia».

La disputa che agli occhi di Goethe ebbe tanto maggiore importanza della Rivoluzione di luglio cominciò a disegnarsi all’Académie Royale des Sciences di Parigi il 15 febbraio 1830. A proposito di molluschi il naturalista Geoffroy St-Hilaire accennò ad analogie fra organismi, come ad indizi di una loro vasta unità di composizione. Questa idea gli pareva la vera chiave per lo studio delle cose naturali. Saint-Hilaire era un filosofo della scienza. I filosofi della scienza amano contemplar le cose nel loro insieme, gittar sull’ignoto grandi ipotesi quasi profetiche, piuttosto simili ad archi di luce che a ponti di ferro dove la gente positiva voglia mettere il piede. Essi assalgono male armati come tutti i profeti, il regno delle idee vecchie, il quale, organizzato per una dura difesa, oppone al nemico un esercito permanente di conservatori devoti che combattono e non ragionano, cittadelle e bastioni su cui sventolano gloriosi nomi del passato, arsenali pieni d’armi provate e paurose a vederle, uno Stato maggiore di capi che con le idee vecchie si è acquistato gloria, onorificenze, uffici, tutti gli splendori della vita. Perciò le prime battaglie vanno quasi sempre male per i profeti. Quando St.-Hilaire accennò alla mutabilità delle specie ed espresse la opinione che invece di essere state create subitaneamente ad epoche diverse esse fossero rami di uno stesso albero genealogico, si trovò di fronte il barone Cuvier, uno scienziato famoso e veramente grande nell’analisi, il quale avendo consumato la vita a studiar con gloria tutto quanto distingue le specie fra loro, abborriva naturalmente da un’idea che le riannoda tutte. Il dibattito si rinnovò per parecchie sedute fra il febbraio e l’ottobre, allargandosi sempre più, poichè ciascuno inviava al fuoco sempre nuova materia di discussione, come avviene in guerra che una scaramuccia di avanguardia diventi poco a poco una battaglia. La sala dell’Académie des Sciences fu aperta per la prima volta al pubblico che voleva assistere al duello degli illustri scienziati, colleghi da trent’anni nell’insegnamento della Storia Naturale al Jardin des Plantes. Costoro non parlavano che di molluschi e di pesci, si azzuffarono per due sedute intorno a un osso il cui nome scientifico è os hyoides; eppure il 19 luglio, alla vigilia della Rivoluzione, la sala era piena zeppa di gente.

Cuvier ebbe facilmente, agli occhi della maggioranza, il di sopra. Per far valere le distinzioni costanti delle specie fra loro, egli poteva addurre argomenti visibili e sensibili, mentre Geoffroy non aveva alcuna testimonianza del passaggio da una specie all’altra. Per verità questo argomento del «chi ha veduto?» serve anche bastantemente bene contro le creazioni successive e distinte. Serve troppo e potrebbe anche far assolvere un ladro che si difendesse così «voi mi opponete un testimonio che dice di avermi veduto scalar la casa, ma io ve ne citerò dei milioni che non mi hanno veduto nè scalar la casa nè, sopratutto, pigliar la roba». Geoffroy non piegò, sostenne virilmente le sue idee; ma la causa della Evoluzione era sconfitta per trent’anni.

Non era quella, del resto, la sua prima battaglia. La prima vera battaglia per l’Evoluzione l’aveva data ventun anni prima, nel 1809, un altro francese, Giovanni Lamark, del quale non vedo che siasi parlato all’Académie des Sciences nelle discussioni del 1830.

Infatti le idee di Lamark sulla discendenza di tutte le specie viventi da una comune origine e sulle cause della loro trasformazione furon subito sepolte sotto un mucchio di epigrammi. Non poteva vivere, in Francia, una dottrina, secondo la quale si argomentava come in un certo paese dove certi alberi da frutto ramificavano in alto, certi animali che di quei frutti eran ghiotti, a forza di allungare disperatamente il collo per addentarli, fossero diventati giraffe. I francesi la seppellirono ridendo e, come avviene nei semi, ciò che ne doveva morire morì, ciò che n’era vitale mise invisibilmente radice. Altri germi della stessa idea erano stati sparsi altrove per opera di altre mani. Geoffroy St.-Hilaire battendosi con Cuvier gittò quasi un grido di riscossa ad alleati lontani, e fu Goethe che rispose per tutti così: «Siamo più di cinquanta in Germania che abbiamo lavorato e lavoriamo per la stessa vostra causa, i tedeschi hanno bisogno di pensare che tutti gli esseri sono collegati genealogicamente fra loro. Io medesimo mi trovo avanti a molti su questo terreno, avanti a Camper, avanti a Blumenbach, con una importante scoperta. Peter Camper, colpito e turbato della stretta parentela anatomica della scimmia e dell’uomo, aveva creduto trovare il più importante carattere specifico della scimmia in un osso della mascella superiore, l’os intermaxillare, mancante secondo lui nell’uomo. Io ho trovato e dimostrato che quest’osso esiste anche nell’uomo».

Così parlò Goethe che con altri lampi della sua mente sovrana illuminò il cammino alle idee evoluzioniste, indovinando nei vari organi delle piante la trasformazione della foglia, e nel cranio dei vertebrati la trasformazione della vertebra. Noi che cerchiamo di smuovere tanta gente dalle opinioni sulle quali è comodamente seduta, e abbiamo tanto a cuore di trarre dalla nostra parte i migliori, noi abbiamo a imparar molto dalla esperienza di Goethe. Egli era sui trent’anni e aveva una fama puramente letteraria quando mandò con una lettera umile all’illustre Peter Camper i suoi lavori che dimostravano evidentemente, contro l’opinione del Camper, esistere l’osso intermascellare anche nell’uomo. «Bene — rispose cortesemente il grande anatomista — bravo. Avete fatto un bel lavoro che vi deve esser costato molta fatica. Me ne congratulo con voi», Dopo di che continuò imperterrito a dire e a scrivere che l’uomo non ha l’osso intermascellare.

«Si vede — esclama Goethe — ch’ero molto giovane e ingenuo e conoscevo ben poco il mondo se mi mettevo io scolaro a contraddire un maestro, peggio! se gli provavo che sbagliava.» In fatto il giovane Goethe navigava nella corrente viva della scienza mentre l’altro povero vecchio uomo celebre era là indietro maestosamente fermo sulla sua secca dell’osso intermascellare. «Che bella cosa — disse un inglese crudele, ma sapiente — che bella cosa se gli scienziati non vivessero mai più di sessant’anni! Dopo i sessant’anni non ve n’ha uno che voglia saperne di cambiare idee».

III.


Alle campagne disgraziate di Lamark e di Geoffroy Saint-Hilaire seguì nel 1895 la terza riscossa con Carlo Darwin. È curioso, dicono, di studiare certe vie dei germi nello spazio, le misteriose complicità degl’insetti, delle farfalle, che portano da stami a stami un atomo di polline fecondatore, dei passeri che portano da paese a paese un minuscolo seme onde usciranno foreste; così è curioso di studiare le simili occulte vie dell’idea, Ecco qui, osservate col microscopio un oscuro minuscolo dottor Grant che nel brulichio del genere umano si vede appena un momento in principio di questo secolo. Egli va, va, tocca volumi di Lamark, se ne parte tutto intinto di evoluzionismo, scompare, va, va, cammina nascosto, ricompare finalmente nel 1825 in un passeggio pubblico della città di Edimburgo, tocca un giovinetto di sedici anni, si perde per sempre nelle tenebre. Il giovinetto non s’accorge di nulla, studia, lavora, diventa uomo, diventa celebre, invecchia, esamina cinquant’anni dopo la propria vita e si trova una piccola, impercettibile traccia di quel tocco, una piccola macchia di evoluzionismo e di Lamark proprio in quel posto tel suo pensiero dove ha messo la prima radice nel luglio del 1837 una sua teoria sulla Origine delle Specie, che solamente nel 1859 è giunta, occultamente crescendo, alla luce. Ecco la via dell’idea da Lamark a Carlo Darwin.

Gli agenti microscopici hanno aiutato molto l’opera di Darwin e uno di essi mancò poco non la mandasse a monte, poichè egli stesso, vecchio e glorioso, ricordava rabbrividendo che la espressione del suo naso era molto spiaciuta, sulle prime, al capitano Fitz Roy del Beagle cui repugnava di prendere a bordo un naso così poco energico: e al viaggio compiuto sul Beagle, Darwin attribuiva in gran parte le sue conquiste scientifiche e la sua gloria. Sette anni più tardi, nell’ottobre del 1838, lavorando da quindici mesi agli studi sulla trasformazione delle specie, egli urta in un mistero che gli pare impenetrabile. Ha trovato che l’uomo, operando sugli animali domestici e sulle piante, scegliendo per la riproduzione gl’individui meglio conformati secondo il suo desiderio, modifica poco a poco il tipo della specie, crea delle varietà, le quali sonù a suo avviso principii di specie nuove. Questa è la selezione umana. Ma come si fa la selezione degli animali selvatici? Chi sceglie i produttori che modificheranno poco a poco il tipo della specie fino a che sorga una specie nuova? Darwin ci si perde. Un giorno, stanco di studiare e di meditare, piglia, per distrarsi dalla zoologia e dalla botanica, il primo libro che gli viene alle mani, Il libro non parla di bestie nè di piante, parla di uomini; dimostra che una grande quantità degli uomini che nascono devono morir presto perchè altrimenti non vi sarebbe sulla terra da mangiare per tutti. Questo è un lampo nella mente del giovane. Come si moltiplicano anche gli animali e quali quantità enormi ne devon perire prima dello sviluppo completo! Evidentemente in ogni generazione di ogni specie i pochi che sopravvivono alla strage, i pochi vincitori della battaglia per la vita sono i più forti, i meglio conformati. Ora voi non trovate due individui della stessa specie che siano del tutto identicamente conformati. Vi hanno differenze vantaggiose nella lotta per la vita, ve ne hanno di svantaggiose. Ebbene, per forza di natura, coloro cui son toccate le prime trionfano e accoppiandosi trasmettono questi vantaggi di struttura ai loro discendenti che pure differiranno fra loro e con le stesse conseguenze; onde il tipo della specie si verrà modificando di generazione in generazione. Ecco la selezione naturale. Darwin ha trovato ciò che gli occorreva, la sua teoria è fondata. Egli l’ha chiara in mente fino dal 1839 e ve la tien chiusa fino al 1859. Il libro famoso sulla Origine delle Specie è passato prima di nascere per una gestazione cerebrale di vent’anni. Venti anni nel calore di un tale spirito che continuamente lo nutriva di nuovi fatti, raccolti e digeriti con mirabile pazienza, che ne eliminava continuamente i meno evidenti, i meno concludenti, e insieme ogni superfluità, ogni sproporzione, ogni debolezza, gli diedero la densità chiara e la regolare misura del cristallo. Un libro scientifico denso, chiaro, liscio e regolare come il cristallo, è luminoso per la virtù della sua forma ed esercita una grande attrazione sugli uomini, anche se questo cristallo non è propriamente diamante. Si capisce dunque, almeno in parte, che l’Origine delle Specie abbia levato alla sua pubblicazione un clamore immenso, quantunque l’idea ispiratrice non ne fosse oramai più nuova poichè un altro naturalista inglese, Wallace, l’avea concepita tal quale un anno prima, e gli amici comuni, conoscendo allora gli studi di Darwin, avevano procurato, per un sentimento di giustizia, che insieme alla memoria di Wallace uscisse anche un saggio del lavoro di Darwin, Il pubblico non aveva badato affatto a quelle memorie; i dotti avevan detto che quanto vi era di nuovo non era vero e quanto vi era di vero non era nuovo.

Ciò non impedì che la nazione inglese divorasse poi in pochi anni sessantamila copie del libro sull’Origine delle Specie, e che i dotti gli dedicassero, pure in breve tempo, 265 memorie analitiche senza contare gli articoli di giornale. Si è detto per spiegare questo successo; «l’idea era nell’aria». A ciò Darwin in persona ha risposto: no, il segreto è questo, che io cominciai con trarre da materiali enormi un grossissimo libro, cui poi restrinsi in un compendio, dal quale compendio finalmente cavai un estratto, ch’è il libro sulla Origine delle Specie. Qualche osservatore superficiale potè dirgli: il pubblico si è gittato avidamente sul vostro libro, perchè vi conosceva e vi ammirava di già come autore del Viaggio d’un naturalista. Invece, uno di quegli spiriti troppo fini che sdegnano le verità volgari e vanno sempre in cerca del sottile e del nuovo, avrà potuto ragionare così: «il pubblico non capisce nulla della teoria, e gliene importa poco; figuratevi però una bella faccia di galantuomo, che stando in atteggiamento modesto davanti a voi vi parli arabo coné voce pacata, ma calda e dolce, con una espressione di zelo e insieme di candore; voi vi divertirete un mondo ad ascoltarlo, senza capirne una sola parola. Il libro di Darwin ha avuto un così grande successo perchè ne traspare appunto Ja bella faccia leale dell’autore che vi guarda con un gran fuoco negli occhi e vi parla con un grande amore del vero, con un grande convinzione, eppure con umiltà».

Quanto a me, ammessa questa cosa ovvia che ciascuna delle riferite opinioni contiene la sua parte di vero e che il loro comune errore è di volersi escludere a vicenda, penso che nessuno abbia avuto in una tal disputa tanta ragione e tanto torto quanto lo stesso Darwin. Il libro nacque vitale, atto a sviluppare una potente azione, ma se non trovava l’aria che gli occorreva sarebbe morto senza smuovere una sola menoma vecchia idea, Vi era nell’aria e quindi in tutta la intelligenza umana che vive e respira un quid invisibile che aveva una manifestazione puramente negativa. Quando certi germi invisibili arrivano col vento, si vedono certe piante verdeggiare, sì, fiorire e fruttificare ancora, ma dar però i primi impercettibili segni di un malessere che non sfugge all’occhio esperto, Nella prima metà del nostro secolo la tuttavia florida credenza nella stabilità delle specie aveva dato, come si è visto, qualche segno di deperimento, Molto prima, io credo, di Lamark e di Geoffroy St.-Hilaire, che visibilmente la guastarono, incominciava inavvertito uno stadio della conoscenza umana il quale tuttavia si svolge e la conduce a respingere con la stessa forza di una repulsione elettrica le opinioni popolari sulla origine delle specie; le quali opinioni finiranno, probabilmente, dentro il secolo ventesimo, con staccarsi del tutto e per sempre, morte e imputridite, dallo spirito umano, per diventare, dopo altri secoli, materia fossile di cui stupiranno, quando vengano a scavarla, per curiosità o per istudio, le generazioni future. Infatti gli stadii della conoscenza umana somigliano un poco alle grandi epoche geologiche. Quando voi consultate gli archivi di una grande epoca geologica, ossia le reliquie degli organismi ch’ebbero vita in quel tempo, voi trovate che hanno un carattere comune. Vi è un’éra geologica in cui voi trovate soltanto reliquie di animali mostruosi che al nostro occhio moderno hanno un che d’irrazionale e di fantastico; e così vi è un’éra del pensiero umano in cui voi trovate una quantità d’idee fossili sui fatti naturali che hanno pure generalmente un carattere irrazionale e fantastico, mentre vi è un’altra éra del pensiero umano, la éra moderna, incominciata nel secolo decimosesto, nella quale le idee circa i fatti naturali vanno prendendo un carattere razionale che io chiamerei matematico; carattere che consiste nella tendenza a escludere la tradizione e l’autorità, a dimostrare tutto ciò che non è assioma, in un severo concetto della equazione tra fatti e cause, dove il fatto è una quantità determinata e la causa è una x, in un impulso quindi a ben determinare, dapprima, mediante l’osservazione diretta il fatto, per procedere di poi logicamente verso la x. Un tale impulso doveva condurre lo spirito umano a incatenar bene e indissolubilmente fra loro certi effetti e certe cause, cioè a scoprire e determinare un indefinito numero di leggi naturali, a respingere tutto che è fuori delle leggi conosciute. Alcune anche fra le idee che portano questa impronta moderna periranno, diventeranno alla loro volta fossili e faranno stupire i nostri discendenti più lontani; ma intanto è certo che nel 1859 il senso comune umano si andava inavvertitamente disponendo in modo contrario alle opinioni regnanti circa la origine delle specie. Che il primo elefante e la prima elefantessa o anche solo che i primi due passeri fossero balzati vivi dal suolo, che una statua di creta fosse diventata improvvisamente un organismo di ossa, di muscoli, di nervi, irrigato dal sangue, nessuno l’avea potuto vedere ed era fuori di tutte le leggi, di tutti i procedimenti noti della natura. Erano idee d’un periodo intellettuale passato e regnavano ancora, e mentre io parlo non hanno perduto ogni loro dominio, in parte perchè indebitamente aderivano del tutto, e pur troppo indebitamente aderiscono tuttavia molto, come una corteccia tra viva e morta, alla fede religiosa, in parte perchè gli uomini si erano abituati ad esse e riusciva e riesce loro incomodo di mutarle. Coloro poi che non credevano in Dio e quindi neanche nella Creazione, non potendo affermare contro la scienza che le specie presenti degli animali e delle piante esistessero ab eterno, erano in grado, sì, di filosofar molto sulla materia e sul caso, ma non affatto di sciogliere con un ragionamento persuadente l’enigma di questa incognita; come gli animali e le piante che certo due o tre mila secoli addietro non c’erano, abbiano poi cominciato ad esistere.

Ecco in qual punto uscì il libro chiaro e potente di Darwin dove s’intendeva dimostrare con una grande copia di osservazioni esatte e di raziocini acuti come le specie animali fossero venute, per effetto di leggi della natura, insensibilmente divergendo da una o poche forme primitive alla presente varietà immensa. Allora, essendovi un grande accordo fra il carattere di questa idee e il carattere del pensiero moderno, il suono della parola di Darwin fece vibrare spontaneamente una moltitudine di cervelli, fece suonare nella stessa nota una moltitudine di parole umane; e avvenne ciò che avviene a ciascuno di noi quando altri ci capita improvvisamente a dire una cosa che noi ci sentivamo confusa dentro a noi stessi e che soffrivamo di non saper trarre dai viluppi oscuri del nostro pensiero. Avviene allora uno slancio dell’esser nostro verso colui e facilmente ci scoppia dal labbro una esclamazione di consenso e di sollievo. Certo per molti, specialmente in Germania, il Reiz, come disse un tedesco di opinione diversa, l’attrattiva della idea darwiniana fu questa che finalmente si poteva fare a meno di Dio; o meglio, dico io, si poteva metterlo in una ben meritata pensione per i servigi onestamente prestati fino alla fabbrica della prima cellula vivente. Questa presunta giubilazione del Creatore rendeva idrofobe contro il darwinismo una quantità di altre persone tanto poco prudenti quanto le prime. Ma sotto alle grida e al tumulto della battaglia teologica, il libro di Darwin era accolto con tacita soddisfazione da moltissimi, che semplicemente godevano di poter finalmente lasciare a Milton il leone che nascendo dal suolo si dimena onde cavarne le gambe posteriori, di poter finalmente fare a meno di una genealogia fantastica degli esseri viventi, rispondente a uno stadio inferiore della conoscenza umana, come le credenze nella parola articolata di Dio Creatore e nel soffio della sua vera e propria bocca rispondono a uno stadio ancora più antico. E qui, signori, noto di passaggio che se le grandi epoche geologiche sussistono in certo modo ancora tutte nei sovrapposti strati terrestri, anche gli stadi della conoscenza umana sussistono ancora fino a un certo punto nei sovrapposti strati sociali; perchè infatti vive tuttavia nelle razze inferiori e barbare, vive qua e là nelle infime oscurità della ignoranza popolare e vivrà chi sa quanti secoli ancora la fede ingenua nella parola articolata e nel soffio della parola di Dio. Un’ombra, una immagine di questi stadii successivi si rispecchia nello sviluppo intellettuale d’ogni vita umana, allo stesso modo che gli stadii successivi della evoluzione fisica si rispecchiano nello sviluppo d’ogni embrione umano, poichè il nostro cervello, nel formarsi, somiglia prima a quello dei pesci e poi a quello dei rettili e poi a quello degli uccelli e poi a quello dei mammiferi. Così il bambino, anche se ha nome Carlo Darwin, anche se è nato a scrivere l’Origine delle Specie, quando gli domandano: «chi vi ha creato e messo al mondlo?» risponde secondo gli hanno insegnato «Iddio», e ignorando la sua origine naturale, si figura essere stato composto, senza intermedio alcuno, da questo sconosciuto Potente. Quando poi gli raccontano il Genesi, sempre si figura, come ogni razza inferiore, un Dio con la bocca e la voce sonora, che parla latino.

Il libro ebbe dunque un successo fulmineo di stupore e di commozione, benchè dalle finestre gotiche della Quarterly Review un vescovo anglicano si mettesse subito a soffiare improperi sull’incendio e molti altri soffiassero con lo stesso furore da finestre minori e sin da Berlino il Kladderadatsch soffiasse epigrammi. Soffiare sopra un’idea è come soffiare sopra un liquido acceso; uno crede di spegnere il fuoco e lo spande. La prima edizione del libro si vendette ai librai in un giorno. Se ne fece immediatamente una seconda di 3000 esemplari e se ne intraprese la traduzione tedesca. Vi furono pure due tentativi di traduzione francese, ma Darwin trovò in sentinella sulla porta della Francia una frase di Élie de Beaumont: «C’est de la science moussante». Le frasi essendo in Francia un grande potere dello Stato, il libro non potè allora passare, e fino al 1862, quando la signorina Royer affrontò e vinse gli ostacoli, Darwin dovette accontentarsi di un articolo della Revue des Deux Mondes dove il Laugel parlò dell’Origine con quella equanimità signorile ch’è un carattere dei migliori spiriti francesi. Intanto si preparava la terza edizione del libro; e notate, signori, che non usavano allora le finzioni degli editori odierni, ogni edizione annunciata come nuova lo era di fatto, e costava fatiche nuove all’Autore,

1 lettori dell’Origine si moltiplicavano dovunque, benchè Darwin gemesse sotto una tempesta di critiche ostili. «Sono stanco», diceva. Un concilio scientifico che si fosse raccolto nel 1860 avrebbe anatemizzata la dottrina. La conversione di Lyell era una bella vittoria; anche quella di Huxley, fattosi apostolo, come disse Darwin scherzando, del Vangelo del Diavolo, valeva qualche cosa, ma parecchi altri naturalisti di gran nome si erano pronunciati contro la nuova teoria, e Herschel diceva ai suoi amici: — Questa selezione naturale mi pare una legge di higgledy piggledy, — vocabolo che Darwin non capì ma che così al fiuto gli garbò poco. Intanto i lettori crescevano.

Fino a tutto il 1860 gli scienziati tedeschi, meno uno, non fiatarono nè pro nè contro. Alcuni di loro erano da parecchio tempo evoluzionisti in astratto, sostenevano che l’uovo doveva stare in piedi ma il colpo di Colombo non era venuto in mente a nessuno, e ora dava loro probabilmente un po’ di noia che questo diavolo d’inglese avesse messo l’uovo in piedi. Intanto i lettori crescevano. Se la scienza ufficiale non accordava ancora il suffragio a Darwin, si alzava però verso di lui da ogni parte questo fumo dal dolce odore ch’è la celebrità. Egli aveva torto di domandare all’opinione pubblica un verdetto sul valore delle sue idee. Posta la qualità dell’argomento e il contegno degli scienziati, non si poteva chiedere al pubblico un giudizio esplicito e preciso sulla teoria della selezione naturale. Creando celebri l’uomo e il suo libro, il pubblico, in sostanza, si pronunziava a favore di un metodo razionale qualsiasi, buono per dimostrare che le specie sono venute al mondo come ci vengono gli individui, naturalmente. Ma la celebrità, per quanto dolce odore d’incenso abbia, è pur sempre fumo e intorbida l’aria. Essa emana di sua natura da uno sterminato numero di persone, la maggioranza grandissima delle quali appena sa il nome di ciò che onora, appena ha un concetto fumoso del perchè di quest’onore che va congiunto ad un nome. E questa maggioranza cieca si allarga sempre più nelle generazioni che arrivano mano mano all’uso della cultura e dei pregiudizi comuni. Io non intendo seguire ora i passi della fama di Darwin; essa raggiunse una diffusione che i nomi di Newton, di Copernico e di Galileo non hanno superata, Lui vivo, si arrivò a discutere pubblicamente, in seno a una società tedesca di psicologia, intorno alla forma del suo cranio, nella quale occasione quegli psicologi giudicarono ch’egli avesse il bernoccolo del rispetto all’autorità, grosso per dieci preti. Quando morì, i buddisti dell’isola di Ceylan furono chiamati dal loro pontefice Soumangala a festeggiare solennemente l’entrata del grande trasformista nel Nirvana di Buddha. Ma tanto fumo ha presso che nascosti alla vista del pubblico i precursori del naturalista inglese, e, come sogliono i vapori, ha ingrandite e alterate le parvenze della immagine che circonda, Darwin diventò agli occhi delle moltitudini il padre legittimo della ipotesi trasformista e la si chiamò quindi popolarmente, dal nome di lui, darwinismo, mentre egli aveva puramente ideato un modo pratico di farla stare in piedi. Questa nebbia classica circonda ancora il Dio, e se uno di noi profani vi entra oggi e vi guarda le cose da vicino, vi discerne ciò che non avrebbe creduto. La vera Chiesa darwiniana ortodossa non esiste, si può dire, più. Darwin ha tuttavia il suo altare dove riceve un culto d’inni e d’incensi; ma i suoi stessi sacerdoti sono liberi pensatori che sparlano, nelle sagrestie, del dogma. Forse il prof. Huxley, apostolo dell’Inghilterra, è il solo nel mondo scientifico cui la teoria darwiniana paia assisa stabilmente come la dinastia di Annover sul trono inglese che non è poi un maximum di sicurezza; benchè molte generazioni dovranno a suo avviso affaticarsi intorno ai problemi che il suo maestro e amico lasciò insoluti. L’apostolo della Germania, Haeckel, cui preme sopra tutto stabilire il fatto della unità genealogica di tutti gli esseri viventi, la Descendenz-Theorie, e fondarvi sopra il suo materialismo scientifico, ha, circa le variazioni individuali che sono la base della selezione, tutt’altro concetto da quello del suo maestro e la sua eresia si chiama già Haeckelismus. i1 Romanes, mente pacata e lucida, trovando che la selezione naturale non bastava al compito assegnatole, ha immaginata la selezione fisiologica, per la quale certe unioni che farebbero retrocedere il movimento evolutivo di una specie, riescono infeconde.

Colui che viaggiando nell’Arcipelago Malese divinò la selezione naturale senza conoscere i lavori, ancora inediti, di Darwin, il Wallace, la cui fedele amicizia con Darwin onora veramente in due nobili e grandi anime la natura umana, proclama con entusiasmo la dottrina di cui cede ogni vanto all’amico suo, ma le contraddice risolutamente in un punto capitale, l’origine dello spirito umano per via di selezione. Ora se io volessi descrivere tutti gli scismi del trasformismo, sarebbe come un voler descrivere tutte le diverse dottrine teologiche e morali che hanno dato origine a diverse chiese, comunità e sétte nel seno del cristianesimo; due materie più simili che non si creda perchè anche il trasformismo tocca i problemi dell’origine e del destino dell’uomo, ha il suo apparato di misteri e di affermazioni dogmatiche. Sarei per verità imbarazzato a trovarvi una chiesa cattolica; ma forse non curando qualche piccola eresia, potrei dopo il buono e modesto pontefice Darwin, trovare un aspro e violento pontefice Haeckel, armato di dogmi e di scomuniche, custode di una Bibbia Sacra, di un Genesi nuovo, dove ci si impone di credere che Moneron genuit Amæbam, Amæba genuit Synamœbam e via fino a Pithecanthropus qui genuit hominem.

IV.


Gli avversari sentimentali del trasformismo che deridessero le discordie intestine del nemico, sperando vederlo distruggersi con le proprie mani, riderebbero male e per poco tempo, come in ogni tempo avrebbero riso male gli avversari del Cristianesimo giudicandolo in pericolo di vita per le piaghe degli scismi e delle eresie. Nessuna grande rivoluzione si compie senza disordini. Si disegna, è vero, sotto a tante contese una tal quale concordia nello scemare importanza alla selezione naturale il cui valore lo stesso Darwin ammise di aver esagerato; ma io vedo insieme allargarsi, venir congiungendo amici e avversari scientifici una tacita o espressa concordia nell’idea che tutti gli esseri viventi sono rami e frondi di un solo albero genealogico, salito, chi dice in un modo, chi dice in un altro, da un solo germe, la prima cellula vivente, a un solo vertice, l’uomo. E parmi vedere che mentre la selezione non cade, no, ma decade, va pigliando un posto modesto fra le cause trasformatrici, un’altra ipotesi ascende, una ipotesi piena di oscurità e di lampi che chiude in sè, forse, il segreto della scienza futura. È debito di lealtà verso Darwin, uno de’ più leali uomni che sieno stati mai, riconoscere ch’egli ha ben saputo e confessato di fondar la sua teoria sopra un’incognita, sulle differenze che offrono fra loro gl’individui della stessa specie, della stessa famiglia. Queste differenze, perchè? La domanda parte dal confine del sapere umano verso il buio e il silenzio. Nessuno sa il nome nè l’essere del potere occulto che crea queste differenze inesplicabili. Eppure senza di esso il meraviglioso meccanismo della selezione resterebbe immobile e vano, come una vela senza il vento, come i volanti, le funi, le ruote, gl’ingranaggi d’una officina a motore idraulico se la corrente scompare nel proprio letto.

Dovunque sorge e discende, dovunque arriva e trapassa l’arcano movimento della vita questo potere occulto è presente. Noi non sappiamo, veramente, perchè i figli sieno simili ai genitori e tra loro, come agisca la forza che conserva; ma sappiamo ancora meno perchè i figli siano diversi dai genitori e fra loro, come agisca la forza che trasmuta. La selezione è certo un procedimento della natura ed è glorioso per Darwin di averla scoperta; in questo campo dove si combatte per la unità genealogica della vita vi è gloria per tutti; ma la selezione opera negli organismi dall’esterno, e come ammettere che nella produzione di forme nuove una o più cause esterne abbiano avuto parte maggiore che non la segreta potenza per la quale tutte le variazioni s’iniziano? Vi ha chi deprime ora Darwin a favore di Lamark. Certo vi è gloria anche per Lamark, certo all’ambiente, all’uso e al disuso degli organi è riconosciuta un’azione trasformatrice; ma quando il Nägeli vede uscire da una specie varietà diseguali in circostanze uguali e varietà uguali in circostanze diseguali, come si negherà che il principio della trasformazione è nello stesso organismo vivente e che le cause esterne solamente lo stimolano e lo dirigono?

E con quale causa esterna spiegherete voi le disposizioni simmetriche naturali che prima ancora del comparir della vita si manifestano nei cristalli e accompagnano poi la materia nella varietà infinita del mondo organico, nella foglia come nel bruco, nella farfalla come nel fiore? È forse esterna la forza che costringe, per così dire in terra e in cielo, gli atomi di un sale ad aggregarsi, poniamo, in ottaedri, e gli atomi d’un altro sale ad aggregarsi, poniamo, in dodecaedri? Forse che i primi sono padri dei secondi? Forse che per via di selezione naturale hanno acquistato prima nove facce e poi dieci e poi undici e poi dodici? E come potete voi affermare che se un interna potenza sconosciuta ha dato la forma e la simmetria ai cristalli, nessuna interna potenza sconosciuta ha dato o almeno ha aiutato a dare la forma e la simmetria agli organismi? La selezione naturale, questa tempesta di dolore, di terrore e di morte che turbina implacabile intorno al nostro pianeta nella sua disperata fuga attraverso i cieli, fu dunque sola a promuovere la magnifica ascensione delle forme organiche dalle monere infime all’uomo, o non vi era invece dentro agli organismi stessi una forza che li trasformava in un dato modo come in una ghianda vi è una forza che ne fa una quercia, e non è stato ufficio della selezione naturale aiutare questa forza? Accanto alla selezione naturale, Darwin ha collocato la selezione sessuale, Non solamente il vigore e il coraggio dei maschi, ma gli ornamenti altresì del corpo e, fra gli uccelli, anche la dolcezza del canto inducono a preferenze, ad accoppiamenti che dirigono la evoluzione delle specie. Ora se il maggior vigore, il maggior coraggio prevalgono per evidente necessità di natura, invece la maggior vivacità dei colori, la maggiore eleganza delle forme, la maggior soavità della voce non prevalgono esse per un intimo senso che si desta nell’organismo, per una oscura nascente gioia della bellezza, che risplenderà poi nei capolavori dell’arte umana? E quando dagli esseri infimi che non hanno sesso, che si propagano per divisione o per gemme o per spore si svolsero dopo secoli e secoli gli esseri ermafroditi, e quando gli ermafroditi si scissero in maschi e femmine, quale è stata la causa esterna che ha dato origine ai sessi? E poi che i sessi furon divisi è forse venuto dal di fuori l’istinto sovrano, primizia dell’amore, per cui si cercano l’un l’altro? Haeckel, che negando e deridendo il concetto di un ordine intelligente dell’Universo, pretende spiegare tutta la scala degli organismi con la onnipotenza della selezione naturale, come spiega egli la origine stessa della Vita? Sdegnando la debolezza di Darwin che l’attribuisce al Creatore, Haeckel pensa trarsi d’impaccio col supporre che il principio vitale abbia origine dalle proprietà fisiche e chimiche dei corpi albuminosi. E questi corpi albuminosi perchè si formano? Per la tendenza del carbonio a molteplici combinazioni con altri elementi. E qual’è la causa di questa tendenza e di tute le altre proprietà chimiche dei corpi? «Non lo so» risponde Haeckel, «Allora» gli si può replicare «se la vostra ipotesi è buona, voi non avete fatto altro che allontanare il mistero di un passo e se la causa del principio vitale deriva alla sua volta da una causa incognita, la vostra spiegazione si riduce ancora a questo «la causa originaria della vita è uguale a x». Ma poichè avete parlato di proprietà dei corpi, poichè ci avete confessato che vi è negli atomi di carbonio una passione innata per gli atomi di ossigeno, di idrogeno e di nitrogeno e che dagli sfoghi di questa passione nasce la Vita, voi dovete ammettere che la x è una causa interna nella materia, costante in essa, capace, assai più che di trasformare, di produrre l’organismo. E poichè non ne conoscete la natura nè il modo di operare, nè i limiti, ma solo la immanenza e la costanza, così nel vostro studio delle successive forme organiche, non vi potete logicamente liberare dalla inesorabile incognita, e di ciascuna trasformazione dovreste logicamente indicare la causa in questo modo: «la selezione naturale più x». Perciò quando affermate che una legge di progresso governa il mondo, che la vita tende dall’Imperfetto al Perfetto e che questa tendenza è un risultato necessario della sola selezione naturale, pare a noi profani che vi contraddiciate, poichè vedete svolgersi l’Universo secondo un concetto puramente intellettuale com’è quello della perfezione e negate insieme che all’Universo presieda una Intelligenza. Ma se diceste invece, come logica vuole da voi «la Vita ascende necessariamente e senza posa si perfeziona per effetto della selezione naturale più x» non vi sarebbe qui alcuna contraddizione necessaria poichè se questa Intelligenza direttrice non è, secondo affermate voi, nella selezione naturale, vuol dire che sarà nella x.

Infatti è questa x. questa interna vitale potenza trasformatrice delle cose, che, quantunque nascosta, par diventare sempre più luminosa poichè i fatti infiniti, dietro ai quali si cela, gittano un’ombra sempre più visibile e vasta. L’ombra rivelatrice ha potuto entrare negli ultimi pensieri di Carlo Darwin e l’uomo era troppo magnanimo per non confessare con sereno viso che aveva soverchiamente fidato nella sua lampada della selezione, che tante cose gli tornavano oscure, che di tante forme bisognava cercare il segreto nell’interno degli organismi. «Refugium ignorantiae, queste cause interne — esclama un haeckeliano — sapendo che la selezione naturale si può chiamare, a rigore, una legge cieca, ma che se in un pesce vi è la disposizione interna a produrre un anfibio e dopo l’anfibio un mammifero, è alquanto più difficile sostenere che non vi è un piano dell’universo, che non vi è il governo di una Intelligenza superiore.

V.


Ma no, non è desiderio ignobile d’un rifugio tranquillo, è sete di verità che ha condotto uomini eminenti a dimostrare con una critica severa ed acuta che le cause esterne non bastano a produrre la Evoluzione, «Studiando il processo della Evoluzione con le sole cause esterne, noi troviamo — hanno detto — queste e queste altre oscurità inesplicabili, dunque appunto lì sotto dev’essere la soluzione del problema; come quando, sul mezzogiorno, se vi è ombra sulla terra e se il cielo è tutto sereno meno in un punto, ben si comprende che il sole è là, dietro quella nuvola». Benchè non sperino penetrare nella essenza delle interne forze misteriose, tentano almeno di indagare il luogo e il modo della loro azione trasformatrice e chi costruisce una ipotesi e chi ne avventura un’altra, Mentre naturalisti poderosi lavorano ad aprire una via nella roccia dura, nobili pensatori li seguono con le fiaccole. Essi proclamano la fallacia delle creazioni speciali, la discendenza naturale di tutti gli esseri da un solo ceppo per effetto di un principio di evoluzione interno alle cose, stimolato, regolato dagli agenti esterni; proclamano la legge di progresso riconosciuta da Haeckel, e per ultimo il concetto logicamente incluso in questa legge di un ordine e di un fine nella attività della natura, per cui vi appare necessario il governo di una Intelligenza e di una Volontà superiore. Questo concetto circa la finalità di tutte le cose, che nel linguaggio astruso dei dotti si chiama teleologia, è fieramente combattuto e amaramente deriso; ma se i suoi avversari pensano averne facile e lieta vittoria, è forse perchè combattono e deridono idee che nessuno più difende. Vi sono circa il fine e l’ordine celle cose vecchi concetti che sussistono ancora negli strati inferiori della conoscenza umana, ma che per noi, se posso come ultimo soldato di un esercito usare questo pronome ambizioso, sono morti e sepolti. Darwin ci si perde appunto perchè non sa liberarsi dalla idea che secondo i fautori di un piano divino dell’universo, ciascuna cosa abbia il suo fine unico e visibile. Non gli va che le penne del pavone, per esempio, sieno così riccamente adorne per far piacere all’occhio umano. In pari tempo non sa persuadersi che l’umanità sia un prodotto del caso. Conchiude che far meditare l’uomo sul piano dell’ Universo è come far meditare un cane sullo spirito di Newton. Invece il suo più fedele discepolo, Huxley, ha confessato che al posto della vecchia morta teleologia ne può sorgere una più larga e grandiosa con la stessa idea fondamentale della Evoluzione per base. Infatti noi abbiamo gittata con disdegno la teleologia del bambino persuaso che i suoi genitori, i suoi maestri, i suoi amici, i suoi servi, la sua casa esistono per lui solo; noi professiamo la teleologia dell’uomo che comprende di essere un atomo nella umanità, che onora il diritto altrui, che ama il bene altrui, che al di sopra di un meschino interesse proprio colloca gli interessi del giusto e del vero. Noi non pensiamo più che l’Universo sia stato creato solamente per l’Umanità, che il sole, la luna e le stelle sieno in cielo solamente per illuminare la terra, nè che le piante e gli animali esistano per l’unico fine di servire agli uomini. Noi pensiamo invece che nella mente ordinatrice dell’Universo ciascuna cosa da lei creata tende in sè stessa e nelle sue relazioni con le altre cose a infiniti diversi scopi, pochissimi dei quali sono visibili a noi, pochissimi possono apprendersi dalla intelligenza nostra; noi pensiamo che tutti questi infiniti scopi diversi sono disposti secondo disegni più grandi, ordinati ad altri ancora maggiori, parti alla loro volta di un solo immenso disegno del quale è appena possibile alla ragione umana conoscere che ascende nelle sue linee generali dall’Imperfetto al Perfetto. Con questo noi intendiamo rialzare e non abbattere la dignità umana. Dalla statua di fango noi riportiamo la origine dell’uomo alla prima nebulosa, affidiamo a milioni di secoli, a tutte le forze della natura, a miriadi e miriadi di esseri viventi il sublime lavoro di preparare Adamo e i natali dello spirito personale e immortale. Promettiamo poi alla nostra specie, in nome della legge che la trasse dalla materia prima, una ascensione senza fine verso l’Infinito.

Noi rialziamo in pari tempo la dignità della natura inferiore, calcata sino a ieri con un disprezzo borioso, superstizioso ed ingiusto dall’uomo, suo portato; noi riconosciamo in lei l’azione costante dell’onnipotente volere divino per fini eccelsi dei quali appena si vedono e in piccola parte quelli che riguardano la specie nostra: noi promettiamo anche a lei una indefinita ascensione futura sua propria. Finalmente la nostra dottrina innalza e ingrandisce nell’intelletto umano la idea della Divinità. Come la mancanza assoluta o la rozza materializzazione di quest’idea appartengono alle infime condizioni intellettuali della razza, così elevandosi la cultura, si eleva pure nei credenti più colti la idea della Divinità. Vi ha indubbiamente fra il progresso scientifico e l’idea di Dio una correlazione spirituale simile a quelle misteriose correlazioni che si osservano nel mondo organico per le quali allo sviluppo di un organo corrisponde lo sviluppo di un altro, e se il calice di un fiore si profonda, poco a poco si allunga la proboscide dell’insetto che in fondo a quel fiore deve attinger la vita. Ove mi si conceda una immagine più materiale ancora ma più appropriata, dirò che vi ha tra le radici del sapere umano e le radici dell’idea di Dio una via naturale occulta per cui quando lo spirito umano faticando ascende nella scienza, deve pure ascendere e ascende spontaneo, quasi per la legge fisica dei vasi comunicanti, nell’idea di Dio. Ad ogni maggiore progresso scientifico la nostra mente concepisce Iddio più grande e, sopra tutto, più diverso dall’uomo nel suo modo di operare. I progressi dell’astronomia, indicando l’ordine vero del sistema solare e la sua probabile subordinazione ad altri maggiori sistemi, hanno ampliato e glorificato il concetto nostro del Creatore, hanno moltiplicati nello spazio più remoto, più invisibile a noi i disegni ed i fini dell’azione sua divina. Una volta, considerando gli astri, i credenti si figuravano che Iddio reggesse quei globi nel vuota come un mago, come un uomo fornito di facoltà soprannaturali che stando fuori delle cose le costringe a obbedirgli contro le leggi di natura. La scoperta di Newton ci ha dimostrato che Iddio governa tutti gli astri e tutti gli atomi del mondo in un modo radicalmente diverso, in un modo che noi chiamiamo appunto legge di natura. Per quanto grande noi immaginiamo un Essere umano, ci è impossibile persino di concepire che operi così. Con queste leggi dell’attrazione universale, il creato tanto enormemente ampliato dalle scoperte precedenti veniva ricondotto a una rigorosa unità. Tutto si attrae, tutto si equilibra secondo pesi, numeri e misure e le infinite diverse azioni contemporanee di una sola forza risuonano in un accordo che esprime l’ordine meccanico dell’Universo. Per gli intelletti colti e credenti questo armonico suono ideale delle sfere conferisce alla grandezza dell’idea di Dio immensamente più che la vista d’un cielo stellato, anche portata da potenti telescopii dentro le più remote nebbie di Soli. Adesso la teoria dell’Evoluzione ci mostra non un Dio che operò ad intervalli, creando il mondo a pezzi belli e fatti e poi mettendoli a posto come un uomo comporrebbe una macchina, ma un Dio che opera sempre, dappertutto, dentro e fuori di ciascuna cosa, traendo la varietà progressiva delle forme dalla unità del prìncipio con un’azione così ordinata e costante che le convengono i nomi di natura e di legge; e questo opera secondo infiniti parziali disegni, cospiranti ad un unico disegno infinito; per cui l’ordine dell’universo che per legge di attrazione suona contemporaneo nello spazio come una meravigliosa armonia, si svolge per la legge di evoluzione nel tempo con la continuità materiale e logica di un pensiero parlato, di una meravigliosa melodia che va dalle movenze più grandiose alle più appassionate, dagli splendori della luce agli splendori della mente e dell’amore; melodia divina, perchè mai non si compie eppure mai non divaga, sempre più magnificamente esprime un’idea ch’è per l’anima umana lo stesso maggior ideale possibile cioè non la perfezione assoluta cui l’uomo non può pervenire in eterno, ma il continuo indefinito ascendere ad essa. Mai come in tali visioni lo spirito umano ha potuto dalle cose sensibili rappresentarsi la sublimità del Creatore.

È vero che ad ogni fase del progresso scientifico si è accompagnata anche la negazione di Dio, ma ciò dimostra soltanto che è sempre possibile all’intelletto umano, al più ignorante come al più colto, la scelta tra la confessione e la negazione di Dio. I negatori di Dio non vogliono riconoscer questo, si studiano di stabilire la contraddizione logica dei Veri scientifici coll’idea della divinità, Secondati da un volgo religioso che aveva paura per un piccolo, debole Iddio della sua mente, essi prima pensarono che se la terra non era il centro immobile del sistema solare, anche il Dio cristiano doveva porsi fra gli dei falsi e bugiardi; poi che se gli astri del sistema solare si erano venuti formando con un processo meccanico dalla materia in rotazione, secondo l’idea di Laplace, si poteva levare, almeno ai pianeti e ai satelliti, la vecchia marca di fabbrica soprannaturale.

Con ciascuno di questi argomenti riuscirono solamente a provare che non vi poteva essere un Dio quale il volgo lo imaginava; a che ciascuna volta si rispose che Dio era infatti molto più grande. Finalmente, bandita ai quattro venti la dottrina della Evoluzione, si proclamò fra i gemiti, i lamenti e le maledizioni del popolo credente, che le piante, le bestie, e l’uomo si erano fatti per caso da sè, di una sola sostanza, con la selezione naturale; che se il vecchio creatore aveva potuto resistere a tanti altri colpi della scienza, questa volta era spacciato.

VI.


Ora, fra coloro che in mezzo a questo vano tumulto sorgono con la fronte alta e col sorriso sulle labbra in difesa delle verità nuove e insieme delle credenze antiche, anche il poeta è chiamato a levarsi. Quando noi, poeti spiritualisti, ascoltiamo le voci occulte delle cose e sentiamo una vita oscura, germi ed orme di tristezze e di gioie quasi umane nei venti, nelle onde, nelle selve, nelle acque correnti, nelle forme delicate dei fiori, nelle linee espressive delle rupi, nei dorsi delle montagne pensose, voi ci dite talvolta che andiamo sognando ed è vero, ma come tutti i sogni anche il nostro ha un’origine di realtà. La nostra simpatia per la natura, ove non sia una vana rettorica male appresa, rivela vere affinità fra l’uomo e le cose, una stretta parentela di cui si vanno faticosamente ritrovando i documenti per opera della scienza, mentre noi da tanto tempo la sentiamo nel cuore. E anche se ignoriamo le leggi della Evoluzione e i vaticinii di S. Paolo che ho ricordati nel mio primo discorso, la nostra intima veridica ispirazione ci assicura che tanta e tanto cara bellezza di cose non è destinata a decadere per sempre ed a perdersi, che le voci occulte, la malinconia e la gioia della natura significano desiderio e aspettazione di uno stato migliore. Quando noi abbiamo rappresentato volentieri e con riverenza il dolore, voi ci avete detto talvolta che l’arte nostra era inumana. Ed ecco che la scienza Vi risponde per noi: «Il dolore è veramente una cosa augusta perchè l’uomo non si è potuto trarre dalla polvere, nè la civiltà si è potuta trarre dalla barbarie senza lo strumento del dolore».

Quando noi, descrivendo l’amore, vi rappresentiamo non quel falso immaginario fantasma di amore che non avrebbe potere alcuno sui sensi, non quella febbre del solo istinto che avvilisce lo spirito, ma quell’amore che aspira di sua natura a congiungere due esseri in un solo, e pure ne tacciamo non direi la parte materiale, che non è possibile, ma la parte puramente animale e fisiologica per descriverne invece quelle sensazioni delicate e squisite che solo all’uomo innamorato appartengono, per esaltare la passione delle anime, vi è allora chi ne giudica timide coscienze, intelletti incapaci d’intendere la bellezza e la gloria della vita, di tutto che propaga la vita. Ma se una legge d’indefinito progresso governa veramente l’Universo, anche dalla specie umana uscirà, poco importa come, poco importa quando, una specie superiore; e se l’istinto sessuale che salì sempre più vivace per la scala degli organismi ha preparato l’amore umano, anche l’amore umano prepara una ignota forma futura di sentimento e la evoluzione sua continua nella vita tenuta sin qua che conduce ad un raffinamento sempre maggiore della materia, a una potenza sempre maggiore dello spirito.

Ora è scritto nella natura l’alto concetto morale che una specie superiore non esce da una specie inferiore senza sforzo nella direzione della forma più perfetta. Dove questo sforzo manca vi ha decadenza, vi ha degenerazione, Se nel rappresentare l’amore altri artisti gravitano indietro, verso il bruto, noi gravitiamo avanti, verso la forma superiore che l’uomo porta in sè e deve svilupparsi da esso. Quando l’arte nostra, che a nessuna bellezza può essere straniera, s’ispira alla bellezza morale, noi udiamo qualche volta chiamarci freddi e pedanti; ma se una legge di natura porta come è certo, il genere umano, malgrado la corruzione e la degenerazione degl’individui, da confuse e contradditorie nozioni circa il male ed il bene alla illuminata coscienza di un’ideale morale unico, noi sappiamo di combattere una battaglia buona e necessaria. Quando, pure sentendo la poesia del passato, delle rovine, delle vecchiaia, di ogni sentimento conservatore delle cose buone, noi ci leviamo palpitanti all’appello delle miserie e delle ingiustizie sociali per dire i guai degli afflitti e minacciarne ai gaudenti, per invocare ordini più giusti alla società umana, ci si può chiamare utopisti ed arcadi; ma se la legge di evoluzione è vera, noi siamo invece propugnatori d’una giustizia che arriverà infallibilmente per l’unione contemporanea di ambo le forze che governano il mondo giusta il divino disegno, la forza che conserva e la forza che trasmuta. Insomma, per tutto riassumere, noi aspiriamo all’onore supremo di aver posto, sulla fronte delle colonne umane che salgono combattendo verso un radiante avvenire, fra i mille cavalieri dello Spirito Santo, cui Enrico Heine, veramente più nostro che non si creda, descriveva alla sua piccola bionda boscaiuola attonita:

                                   Ihre theuren Schwerter blitzen,
                                   Ihre guten Banner wehen.

«Le loro care spade lampeggiano, sventolano i loro buoni stendardi», La grande idea che Darwin ha resa popolare nel mondo ci spiega i nostri più oscuri istinti poetici, ci conferma nei nostri amori e nei nostri sdegni, ci mostra da lontano il compimento dei nostri ideali, ci conforta con una missione di tale onore che nè principe nè popolo ha in suo potere, ed è quindi stolto domandare a noi di esservi indifferenti. Mentre altri lavora nel campo della scienza a raccoglierne le prove dirette, toccherà a noi indicarne le prove indirette nella bellezza mirabile del suo aspetto, lo si consideri nella preparazione dell’uomo, o nello sviluppo intellettuale e morale della umanità, o nella indicazione de’ suoi futuri destini.

VII.

Signori, mi hanno chiamato un mistico. Io non so cosa questo vocabolo provi; io vorrei che una psicologia serena osservasse, misurasse, comparasse i fatti oscuri dell’anima umana, non solamente per dedurne le leggi della sensazione e della intelligenza, ma pure per indagare la natura e l’origine dei moti interni che inclinano l’anima, senza visibile ragione sufficiente, in un dato senso e, come il moto fisico, si trasformano in calore, in un moto che somiglia quello dell’amore, pieno di dolcezza, di amarezza, di desiderii infiniti. Io chiederei a una tale psicologia di spiegarmi perchè la ipotesi della Evoluzione non già meditata nei libri dei suoi fautori, ma intravveduta nelle diatribe dei suoi avversarii, ma descrittami come arme avvelenata di un materialismo che sempre odiai, mi attraesse potentemente, m’infiammasse i pensieri, quantunque non valessi a conoscerne le ragioni scientifiche, nè il grandioso disegno, nè la bellezza intellettuale e morale, quantunque la udissi combattere non solo in nome delle mie stesse credenze, ma in nome altresì del buon senso e della dignità umana. Mai non mi persuasi di un necessario antagonismo dell’idea trasformista con gl’ideali miei più cari; tuttavia mi era amaro di non saper giustificare con argomenti validi il mio sentimento.

I libri di Darwin mi aiutarono poco. Certo non vi trovai l’ateismo, ma in essi e più ancora nelle sue lettere private, l’autore mi si mostrava troppo incerto davanti alle conseguenze religiose e filosofiche della sua teoria. Altri libri della scuola darwiniana tedesca mi vennero alle mani ch’erano veramente vangeli del materialismo dogmatico. Pure la mia occulta fede cresceva. Spesso mi pareva sentir nel mio profondo tutto il fermento della varia vita inferiore ond’è uscita passo passo l’umanità; un fermento che ha strane impetuose maree, che sale talvolta a strepitar nel cuore con mille avidi sinistri clamori bestiali, e poi, domato o pago, ne ridiscende, lasciandovi un silenzio triste. Spesso mi pareva, nei fugaci ardori della mente, sentire inquieto in me il germe di una forma futura più rispondente al desiderio indistinto di sensazioni e di sentimenti superiori inafferrabili che tante volte ci tormenta e cui la musica esalta. Pochi anni or sono mi venne alle mani e lessi avidamente un libro del professore americano Joseph Le Conte intitolato: La Evoluzione e le sue relazioni col pensiero religioso. Ricordo tuttavia con quale emozione e stupore ho sentito per la prima volta, da giovinetto, rivelarmisi improvvisa nel pensiero una bellezza sensibile del Bene superiore ai sensi, del Bene puramente morale. Ora, leggendo nel volume del Le Conte i capitoli dove egli affronta il problema religioso, scoprendo via via di periodo in periodo le fila e la mira del ragionamento, un simile stupore s’impadroniva di me, il cuore mi batteva forte come all’appressarsi di una rivelazione nuova. Le idee sorgenti dal libro si svolgevano, si compievano rapide nella mia mente, ed ecco, sul declinar della vita, una bellezza sensibile del Vero superiore ai sensi, del Vero puramente intellettuale, saliva e si spiegava per la prima volta nell’anima mia. La fedele, costante voce interiore non aveva mentito; non solo non vi era antagonismo fra Evoluzione e Creazione, ma l’immagine del Creatore mi si avvicinava, mi s’ingrandiva prodigiosamente nello spirito, ne provavo una riverenza nuova e insieme uno sgomento simile a quello che si prova affaciondosi all’oculare di un telescopio, scoprendovi di botto nello specchio, vicino, enorme, l’astro che poc’anzi si è guardato ad occhio nudo nel cielo.

Gli ultimi chiarori della sera vennero meno nel mio studio prima ch’io terminassi la lettura. Lasciai il libro, mi posi a una finestra che guarda dall’alto i piani distesi fra le Alpi e il mare. Nella emozione religiosa di quell’ora, contemplando l’oriente oscuro e profondo, ascoltando gl’infiniti susurri e bisbigli della notte, che parevano sommesse parole viventi piene dello stesso religioso senso, ho provato il mio maggiore conforto come artista, e ho pure sentito il debito di rendere testimonianza alla Verità infinita della divina sua luce. La ho resa e, se mi basteranno l’ingegno e il tempo, la renderò ancora. So che nulla potei nè mai avrei potuto trovare da me, che il soccorso primo mi è venuto da un libro, che tanti altri libri di forti pensatori mi hanno poi aiutato, che le mie convinzioni sono divise da tante persone molto più potenti di me a difenderle. Ebbene, nessun germe può dire: io non darò il mio filo d’erba, io non darò la mia testimonianza della vita perchè non sono una palma nè una rosa, perchè vivrò una sola stagione. Vi è una legge ed un debito per l’erba come per le rose e le palme, di dar testimonianza della vita; vi è una legge ed un debito per gli intelletti minori come per i più potenti di dar testimonianza del vero; e tutto che obbedisce a una legge, tutto che adempie un dovere ha in questo la sua dignità.


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