< Asolani < Libro primo
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Libro primo - Capitolo XX
Libro primo - XIX Libro primo - XXI

Piacque a ciascuno l’aviso di Sabinetta, e così conchiuso che si facesse, in quello medesimo luogo il seguente giorno ritornando, poi che ogniun si tacque, Perottino incominciò: - Sì come delle vaghe e travagliate navi sono i porti riposo e delle cacciate fiere le selve loro, così de’ quistionevoli ragionamenti sono le vere conclusioni; né giova, dove queste manchino, molte voci rotonde e segnate raunando e componendo, le quali per aventura più da coloro sono con istudio cercate, che più da sé la verità lontana sentono, occupar gli animi de gli ascoltanti, se essi non solamente la fronte e il volto delle parole, ma il petto ancora e il cuor di loro con maestro occhio rimirano. Il che temo io forte, o donne, non domani avenga a Gismondo, il quale più del suo ingegno confidandosi che avendo risguardo a quello di ciascuna di voi o pure alla debolezza della sua causa rispetto e pensiero alcuno, spera di questa giostra corona. Nella quale sua speranza assai gli sarebbe la fortuna favorevole stata, più lungo spazio da prepararsi alla risposta concedendogli che a me di venire alla proposta non diede, se egli alla verità non fosse nimico. E perché egli in me non ritorni quello che io ora appongo a lui, alla sua richiesta venendo, dico che quantunque volte adiviene che l’uom non possegga quello che egli disidera, tante volte egli dà luogo in sé alle passioni; le quali, ogni pace turbandogli, sì come città da’ suoi nimici combattuta, in continuo tormento il tengono più e men grave, secondo che più o men possenti i suoi disideri sono. E possedere qui chiamo non quello che suole essere ne’ cavalli o nelle veste o nelle case, delle quali il signore è semplicemente possessor chiamato, quantunque non egli solo le usi o non sempre o non a suo modo, ma possedere dico il fruire compiutamente ciò che altri ama, in quella guisa che ad esso è più a grado. La qual cosa perciò che è per se stessa manifestissima, che io altramente ne quistioni non fa mestiero. Ora vorre’ io saper da te, Gismondo, se tu giudichi che l’uomo amante altrui possa quello che egli ama fruire compiutamente giamai. Se tu di’ che sì, tu ti poni in manifesto errore, perciò che non può l’uom fruir compiutamente cosa che non sia tutta in lui; con ciò sia cosa che le strane sempre sotto l’arbitrio della fortuna stiano e sotto il caso e non sotto noi, e altri, quanto sia cosa istrana, dalla sua voce medesima si fa chiaro. Se tu di’ che no, confessare adunque ti bisognerà, né ti potranno gli amanti difendere, o Gismondo, che chiunque ama, senta e sostenga passione a ciascun tempo. E perciò che non è altro l’amaro dell’animo che il fele delle passioni che l’avelenano, di necessità si conchiude che amare senza amaro non è più fattibile che sia che l’acque asciughino o il fuoco bagni o le nevi ardano o il sole non dia luce. Vedi tu ora, Gismondo, in quanto semplici e brievi parole la pura verità si rinchiude? Ma che vo io argomentando di cosa che si tocca con mano? che dico io con mano? anzi pur col cuore. Né cosa è che più a drento si faccia sentire o più nel mezzo d’ogni nostra midolla penetrando traffigga l’anima di quello che Amore fa, il quale, sì come potentissimo veneno, al cuore ne manda la sua virtù e quasi ammaestrato rubator di strada, nella vita de gli uomini cerca incontanente di por mano.

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