< Asolani < Libro terzo
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Libro terzo - Capitolo I
Libro secondo - XXXIII Libro terzo - II

Non si può senza maraviglia considerare, quanto sia malagevole il ritrovare la verità delle cose che in quistion cadono tutto ’l giorno. Perciò che di quante, come che sia, può alcun dubbio nelle nostre menti generarsi, niuna pare che se ne veda sì poco dubbiosa, sopra la quale e in pro e in contro disputare non si possa verisimilmente, sì come sopra la contesa di Perottino e di Gismondo, nelli dinanzi libri raccolta, s’è disputato. E furono già di coloro, che, di ciò che venisser dimandati, prometteano incontanente di rispondere. Né mancarono ingegni, che in ogni proposta materia disputassero e all’una guisa e all’altra. Il che diede per aventura occasione ad alcuni antichi filosofi di credere, che di nulla si sapesse il vero e che altro già che semplice openione e stima avere non si potesse di che che sia. La qual credenza quantunque e in que’ tempi fosse dalle buone schuole rifiutata, e ora non truovi gran fatto, che io mi creda, ricevitori, pure tuttavia è rimaso nelle menti d’infiniti uomini una tacita e comune doglianza incontro la natura, che ci tenga la pura midolla delle cose così riposta e di mille menzogne, quasi di mille buccie, coperta e fasciata. Per che molti sono che, disperando di poterla in ogni quistion ritrovare, in niuna la cercano e, la colpa alla natura portando, lasciata la cognizione delle cose, vivono a caso; altri poi, e vie più molti ancora ma di meno colpevole sentimento, i quali, dalla malagevolezza del fatto inviliti, o ad altrui credono ciò che ciascuno ne dice e, a qualunque sentenza udire sono quasi dall’onde portati, in quella sì come in uno scoglio si fermano, o essi ne cercano leggiermente e di quello, che più tosto viene loro trovato, contenti, non vanno più avanti. Ma de’ primieri non è da farne lungo sermone, i quali a me sembrano a male recarsi che essi sieno nati uomini più tosto che fiere, poscia che eglino, quella parte che da esse ci discosta rifiutando, privano del suo fine l’animo e del nostro maggiore ornamento spogliano e scemano la loro vita. A quest’altri si può ben dire primieramente che egli non si dee così di leggiero a rischio dell’altrui erranza porre e mandar la sua fede, quando si vede che alcuni da particolare affezione sospinti, altri dalla instituzione della vita o dalla disciplina de’ seguitati studi presi e quasi legati, a ragionare e a scrivere d’alcuna cosa si muovono, e non perché essi nel vero credano e stimino che così sia (senza che sì suole egli eziandio non so come alle volte avenire che, o parlando o scrivendo d’alcuna cosa, ci sott’entra nell’animo a poco a poco la credenza di quello medesimo, che noi trattiamo); e poi, che egli non basta, poscia che essi ne cercano, leggiermente cercarne e d’ogni primo trovamento contentarsi; perciò che se a gli altri, che ne hanno cerco, non si dee subitamente credere tutto quello che essi ne dicono, perché si sono ingannar potuti, né a noi doveremo credere subitamente, che ingannare altresì ci possiamo; e sì ancora perciò che la debolezza de’ nostri giudicii è molta, e di poche cose aviene che una prima e non molto considerata e con lunghe disputazioni essaminata openione sia ben sana. Che se alla debolezza de’ nostri giudicii s’aggiugne la oscurità del vero, che naturalmente pare che sia in tutte le cose, vedranno chiaro questi cotali niuna altra differenza essere tra essi e quelli che di nulla cercano, che sarebbe tra chi, assalito da contrari venti sopra il nostro disagevole porto, non sperando di poterlo pigliare, levasse dal governo la mano e del tutto in loro balìa si lasciasse, né di porto né di lito procacciando, e chi, con speranza di doverlo poter pigliare, pure al terreno si piegasse, ma dove fossero i segni che la entrata dimostrano non curasse di por mente. La qual cosa non faranno quegli uomini e quelle donne che me ascolteranno; anzi, quanto essi vedranno essere e maggiore la oscurità nelle cose e ne’ nostri giudicii minore e meno penetrevole la veduta, tanto più né a gli altri quistionanti ogni cosa crederanno, senza prima diligente considerazione avervi sopra, né, quando del vero in alcun dubbio cercheranno, appagheranno se stessi per cercarne poco, e meno a quello, che trovato averanno ne’ primi cercari, comunque loro paia potersene sodisfare, si terranno appagati, estimando che se più oltre ne cercheranno, altro ancora ne troverranno, come quel tanto hanno fatto, che più loro sodisfarà. Né essi della natura si verran dolendo, come quelli fanno, perciò che ella non ci abbia in aperto posta la verità delle conoscibili cose, quando ella né l’argento, né l’oro, né le gemme ha in palese poste, ma nel grembo della terra per le vene de gli aspri monti e sotto la rena de’ correnti fiumi e nel fondo de gli alti mari, sì come in più segreta parte, sotterate. Che se ella questi più cari abbellimenti della nostra caduca e mortal parte ha, come si vede, nascosi, che dovea ella fare della verità, non bellezza solamente e adornamento, ma luce e scorta e sostegno dell’animo, moderatrice de’ soverchievoli disii, delle non vere allegrezze, delle vane paure discacciatrice e delle nostre menti ne’ suoi dolori serenatrice e d’ogni male nimica e guerriera? Le cose da ogniuno agevolmente possedute sono a ciascuno parimente vili, e le rare giungono vie più care. Quantunque io stimo che saranno molti che mi biasimeranno in ciò, che io alla parte di queste investigazioni le donne chiami, alle quali più s’acconvenga ne gli uffici delle donne dimorarsi, che andare di queste cose cercando. De’ quali tuttavia non mi cale. Perciò che se essi non niegano che alle donne l’animo altresì come a gli uomini sia dato, non so io perché più ad esse che a noi si disdica il cercare che cosa egli sia, che si debba per lui fuggire, che seguitare; e sono queste tra le meno aperte quistioni, e quelle per aventura d’intorno alle quali, sì come a perni, tutte le scienze si volgono, segni e berzagli d’ogni nostra opera e pensamento. Che se esse tuttavolta a quegli uffici, che diranno que’ tali esser di donna, le loro convenevoli dimore non togliendo, ne gli studi delle lettere e in queste cognizioni de’ loro otii ogni altra parte consumeranno, quello che alquanti uomini di ciò ragionino non è da curare, perciò che il mondo in loro loda ne ragionerà quando che sia. E ora le quistioni eziandio di Lavinello, il terzo giorno a maggior corona, che quelle de’ suoi compagni non furono, recitate, ascoltiamo.

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