< Asolani < Libro terzo
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Libro terzo - Capitolo XV
Libro terzo - XIV Libro terzo - XVI

- Quanto vorrei che tu altramente m’avessi potuto rispondere, Lavinello - disse il santo uomo. - Perciò che, se noi possiamo ne’ nostri amori, alla men buona parte appigliandoci, la migliore abandonare, e le fiere non possono, esse non operando come piante e noi operando come fiere, piggior condizione pare che sia in questo la nostra, figliuolo, a quello che ne segue, che non pare la loro; e questa nostra volontà libera, che tu di’, a nostro male ci sarà suta data, se questo è vero. E potrassi credere che la natura, quasi pentita d’avere tanti gradi posti nella scala delle spezie, che tu di’, poscia che ella ci ebbe creati col vantaggio della ragione, più ritorre non la ne potendo, questa libertà ci abbia data dell’arbitrio, affine che in questa maniera noi medesimi la ci togliessimo, del nostro scaglione volontariamente a quello delle fiere scendendo; a guisa di Phebo, il quale, poscia che ebbe alla troiana Cassandra l’arte dell’indovinare donata, pentitosi e quello che fatto era frastornare non si possendo, le diede che ella non fosse creduta. Ma tu per aventura che ne stimi? parti egli che così sia? -.
- Io, Padre, quello che me ne paia o non paia, non so dire, - risposi - se io non dico che tanto a me ne pare, quanto pare a voi. Ma pure volete voi che io creda che la natura si possa pentere, che non può errare? -.
- Mai no, che io non voglio che tu il creda - disse il santo uomo. - Ben voglio che tu consideri, figliuolo, che la natura, la quale nel vero errar non può, non avrebbe alla nostra volontà dato il potere, dietro al senso sviandoci, farci scendere alla spezie che sotto noi è, se ella dato medesimamente non l’avesse il potere, dietro alla ragione inviandoci, a quella farci salire che c’è sopra. Perciò che ella sarebbe stata ingiusta, avendo nelle cose, da sé in uso e in sostentamento di noi create, posta necessità di sempre in quelli privilegi servarsi, che ella concessi ha loro; a noi, che signori ne siamo e a’ quali esse tutte servono, avere dato arbitrio d’arrischiare il capitale da lei donatoci sempre in perdita, ma in guadagno non mai. Né è da credere che alle tante e così possenti maniere d’allettevoli vaghezze, che le nostre sentimenta porgono all’animo in ogni stato in ogni tempo in ogni luogo, perché noi dietro all’appetito avallandoci sozze fiere diveniamo, ella ci abbia concesso libero e agevole inchinamento; e a quelle che lo ’ntelletto ci mette innanzi, affine che noi con la ragione inalzandoci diveniamo Idii, ella il poter poggiare ci abbia tolto e negato. Perciò che, o Lavinello, che pensi tu che sia questo eterno specchio dimostrantesi a gli occhi nostri, così uno sempre, così certo, così infaticabile, così luminoso, del sole, che tu miri? e quell’altro della sorella, che uno medesimo non è mai? e gli tanti splendori che da ogni parte si veggono di questa circonferenza che intorno ci si gira, ora queste sue bellezze ora quelle altre scoprendoci, santissima, capacissima, maravigliosa? Elle non sono altro, figliuolo, che vaghezze di Colui che è di loro e d’ogni altra cosa dispensatore e maestro, le quali egli ci manda incontro a guisa di messaggi, invitantici ad amar lui. Perciò che dicono i savi uomini che, perciò che noi di corpo e d’animo constiamo, il corpo, sì come quello che d’acqua e di fuoco e di terra e d’aria è mescolato, discordante e caduco da’ nostri genitori prendiamo, ma l’animo esso ci dà purissimo e immortale e di ritornare a lui vago, che ce l’ha dato. Ma perciò che egli in questa prigione delle membra rinchiuso più anni sta, che egli lume non vede alcuno, mentre che noi fanciulli dimoriamo, e poscia, dalla turba delle giovenili voglie ingombrato, ne’ terrestri amori perdendosi può del divino dimenticarsi, esso in questa guisa il richiama, il sole ogni giorno, le stelle ogni notte, la luna vicendevolmente dimostrandoci. Il quale dimostramento che altro è, se non una eterna voce che ci sgrida: "O stolti, che vaneggiate? Voi ciechi, d’intorno a quelle vostre false bellezze occupati, a guisa di Narciso vi pascete di vano disio, e non v’accorgete che elle sono ombre della vera, che voi abandonate. I vostri animi sono eterni: perché di fuggevole vaghezza gl’innebbriate? Mirate noi, come belle creature ci siamo, e pensate quanto dee esser bello Colui, di cui noi siam ministre".

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