< Asolani < Libro terzo
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Libro terzo - Capitolo XVII
Libro terzo - XVI Libro terzo - XVIII

Ma tornando al tuo compagno, che ha le molte feste de’ suoi amanti cotanto sopra ’l cielo tolte ne’ suoi ragionamenti, lasciamo stare che le minori di loro asseguire non si possano senza mille noie tuttavia, ma quando è che egli, nel mezzo delle sue più compiute gioie, non sospiri alcun’altra cosa più che prima disiderando? o quando aviene che quella conformità delle voglie, quella comunanza de’ pensieri, della fortuna, quella concordia di tutta una vita in due amanti si trovi, quando si vede niuno essere che ogni giorno seco stesso alle volte non si discordi, e talora in maniera che, se uno lasciare se medesimo potesse, come due possono l’uno l’altro, molti sono che si lascierebbono e un altro animo si piglierebbono e un altro corpo? E per venire, Lavinello, eziandio a’ tuoi amori, io di certo gli loderei e passerei nella tua openione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi, e non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare e meno fallibile intesi. Perciò che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio; e la vera bellezza non è humana e mortale, che mancar possa, ma è divina e immortale, alla qual per aventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle da noi sieno in quella maniera, che esser debbono, riguardate. Ora che si può dire in loro loda per ciò, che pure sopra il convenevole non sia? con ciò sia cosa che, del loro allettamento presi, si lascia il vivere in questa humana vita come Idii. Perciò che Idii sono quegli uomini, figliuolo, che le cose mortali sprezzano come divini e alle divine aspirano come mortali, che consigliano, che discorrono, che prevedono, che hanno alla sempiternità pensamento, che muovono e reggono e temprano il corpo, che è loro in governo dato, come de gli dati nel loro fanno e dispongono gli altri Idii. O pure che bellezza può tra noi questa tua essere, così piacevole e così piena, che proporzion di parti, che in humano ricevimento si trovino, che convenenza, che armonia, che ella empiere giamai possa e compiere alla nostra vera sodisfazione e appagamento? O Lavinello, Lavinello, non sei tu quello che cotesta forma ti dimostra, né sono gli altri uomini ciò che di fuori appare di loro altresì. Ma è l’animo di ciascuno quello che egli è, e non la figura, che col dito si può mostrare. Né sono i nostri animi di qualità, che essi con alcuna bellezza, che qua giù sia, conformare si possano e di lei appagarsi giamai. Che quando bene tu al tuo animo quante ne sono potessi por davanti e la scielta concedergli di tutte loro e riformare a tuo modo quelle, che in alcuna parte ti paressero mancanti, non lo appagheresti perciò, né men tristo ti partiresti da’ piaceri che avessi di tutte presi, che da quegli ti soglia partire che prendi ora. Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare. Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina eterna bellezza prende qualità e stato, quando di queste alcuna ne vien loro innanzi, bene piacciono esse loro e volentieri le mirano, in quanto di quella sono imagini e lumicini, ma non se ne contentano né se ne sodisfanno tuttavia, pure della eterna e divina, di cui esse sovengono loro e che a cercar di se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola, disiderosi e vaghi. Per che sì come quando alcuno, in voglia di mangiare preso dal sonno e di mangiar sognandosi, non si satolla, perciò che non è dal senso, che cerca di pascersi, la imagine del cibo voluta, ma il cibo, così noi, mentre la vera bellezza e il vero piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre, che in queste bellezze corporali terrene e in questi piaceri ci si dimostrano, aggogniando, non pasciamo l’animo, ma lo inganniamo. La qual cosa è da vedere che per noi non si faccia, acciò che con noi il nostro buon guardiano non s’adiri e in balìa ci lasci del malvagio, veggendo che per noi più amore ad una poca buccia d’un volto si porta e a queste misere e manchevoli e bugiarde vaghezze, che a quello immenso splendore, del quale questo sole è raggio, e alle sue vere e felici e sempiterne bellezze non portiamo. E se pure questo nostro vivere è un dormire, sì come coloro i quali a gran notte addormentati con pensiero di levarsi la dimane per tempo e dal sonno sopratenuti si sognano di destarsi e di levarsi, per che tuttavia dormendo si levano e presa la guarnaccia s’incomiciano a vestire, così noi, non delle imagini e sembianze del cibo e di questi aombrati diletti e vani, ma del cibo istesso e di quella ferma e soda e pura contentezza nel sonno medesimo procacciamo e a pascere incominciancene così sogniando, acciò che poi, risvegliati, alla Reina delle Fortunate isole piacciamo. Ma tu forse di questa Reina altra volta non hai udito -.
- Non, Padre, - diss’io - che me ne paia ricordare, né intendo di qual piacimento vi parliate -.
- Dunque l’udirai tu ora - disse il santo uomo, e seguitò:

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