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◄ | Libro terzo - XXI |
E queste cose di qua giù, che gli altri uomini cotanto amano, per lo asseguimento delle quali si vede andare così spesso tutto ’l mondo sottosopra e i fiumi stessi correre rossi d’humano sangue e il mare medesimo alcuna fiata, il che questo nostro misero secolo ha veduto molte volte e ora vede tuttavia, gl’imperii dico e le corone e le signorie, esse non si cercano per chi là su ama più di quello che si cerchi, da chi può in gran sete l’acqua d’un puro fonte avere, quella d’un torbido e paludoso rigagno. Là dove allo ’ncontro la povertà, gli esilii, le presure se sopravengono, il che tutto dì vede avenire chi ci vive, esso con ridente volto riceve, ricordandosi che, quale panno cuopra o quale terra sostenga o qual muro chiuda questo corpo, non è da curare, pure che all’animo la sua ricchezza, la sua patria, la sua libertà, per poco amore che egli loro porti, non sia negata. E in brieve, né esso ai dolci stati con soverchio diletto si fa incontro, né dispettosamente rifiuta il vivere ne gli amari; ma sta nell’una e nell’altra maniera temperato tanto tempo, quanto al Signor, che l’ha qui mandato, piace che egli ci stia. E dove gli altri amanti e vivendo sempre temono del morire, sì come di cosa di tutte le feste loro discipatrice, e, poscia che a quel varco giunti sono, il passano sforzatamente e maninconosi, egli, quando v’è chiamato, lieto e volentieri vi va e pargli uscire d’un misero e lamentoso albergo alla sua lieta e festevole casa. E di vero che altro si può dire questa vita, la quale più tosto morte è, che noi qui peregrinando viviamo, a tante noie, che ci assalgono da ogni parte così spesso, a tante dipartenze, che si fanno ogni giorno dalle cose che più amiamo, a tante morti, che si vedono di coloro dì per dì che ci sono per aventura più cari, a tante altre cose, che ad ogni ora nuova cagione ci recano di dolerci, e quelle più molte volte, che noi più di festa e più di sollazzo doverci essere riputavamo? Il che quanto in te si faccia vero, tu il sai. A me certo pare mill’anni che io, dallo invoglio delle membra sviluppandomi e di questo carcere volando fuora, possa, da così fallace albergo partendomi, là onde io mi mossi ritornare e, aperti quegli occhi che in questo camino si chiudono, mirar con essi quella ineffabile bellezza, di cui sono amante, sua dolce mercé, già buon tempo; e ora, perché io vecchio sia, come tu mi vedi, ella non m’ha perciò meno che in altra età caro, né mi rifiuterà perché io di così grosso panno vestito le vada innanzi. Quantunque né io con questo panno v’andrò, né tu con quello v’andrai, né altro di questi luoghi si porta alcun seco dipartendosi che i suoi amori. I quali se sono di queste bellezze stati, che qua giù sono, perciò che elle colà su non salgono, ma rimangono alla terra di cui elle sono figliuole, elle ci tormentano, sì come ora ci sogliono quelli disii tormentare, de’ quali godere non si può né molto né poco. Se sono di quelle di là su stati, essi maravigliosamente ci trastullano, poscia che ad esse pervenuti pienamente ne godiamo. Ma perciò che quella dimora è sempiterna, si dee credere, Lavinello, che buono amore sia quello, del quale goder si può eternamente, e reo quell’altro, che eternamente ci condanna a dolere -.
- Queste cose ragionatemi dal santo uomo, perciò che tempo era che io mi dipartissi, egli a me rimise il venirmene -. Il che poscia che ebbe detto Lavinello, a’ suoi ragionamenti pose fine.