< Attilio Regolo
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Atto primo
Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO

SCENA I

Atrio nel palazzo suburbano del console Manlio. Spaziosa scala che introduce a’ suoi appartamenti.

Attilia, Licinio dalla scala, littori e popolo.

Licinio. Sei tu, mia bella Attilia? Oh dèi! confusa

fra la plebe e i littori
di Regolo la figlia
qui trovar non credei.
Attilia.   Su queste soglie
ch’esca il console attendo. Io voglio almeno
farlo arrossir. Piú di riguardi ormai
non è tempo, o Licinio. In lacci avvolto
geme in Africa il padre; un lustro è scorso;
nessun s’affanna a liberarlo; io sola
piango in Roma e rammento i casi sui:
se taccio anch’io, chi parlerá per lui?
Licinio. Non dir cosí: saresti ingiusta. E dove,
dov’è chi non sospiri
di Regolo il ritorno, e che non creda
un acquisto leggier l’Africa doma,
se ha da costar tal cittadino a Roma?
Di me non parlo: è padre tuo, t’adoro,
lui duce appresi a trattar l’armi, e quanto

degno d’un cor romano

in me traluce, ei m’inspirò.
Attilia.   Finora
però non veggo...
Licinio.   E che potei, privato,
finor per lui? D’ambiziosa cura
ardor non fu che a proccurar m’indusse
la tribunizia potestá: cercai
d’avvalorar con questa
le istanze mie. Del popol tutto a nome,
tribuno, or chiederò...
Attilia.   Serbisi questo
violento rimedio al caso estremo.
Non risvegliam tumulti
fra ’l popolo e il senato. È troppo, il sai,
della suprema autoritá geloso
ciascun di loro. Or questo, or quel n’abusa;
e quel che diede l’un, l’altro ricusa.
V’è piú placida via. So che a momenti
da Cartagine in Roma
un orator s’attende: ad ascoltarlo
giá s’adunano i padri
di Bellona nel tempio. Ivi proporre
di Regolo il riscatto
il console potria.
Licinio.   Manlio! Ah! rammenta
che del tuo genitore emulo antico
fu da’ prim’anni. In lui fidarsi è vano:
è Manlio un suo rival.
Attilia.   Manlio è un romano;
né armar vorrá la nimistá privata
col pubblico poter. Lascia ch’io parli:
udiam che dir saprá.
Licinio.   Parlagli almeno,
parlagli altrove; e non soffrir che mista
qui fra ’l volgo ti trovi.

Attilia.   Anzi vogl’io

che appunto in questo stato
mi vegga, si confonda;
che in pubblico m’ascolti e mi risponda.
Licinio. Ei vien.
Attilia.   Parti.
Licinio.   Ah! né pure
d’uno sguardo mi degni.
Attilia.   In quest’istante
io son figlia, o Licinio, e non amante.
Licinio.   Tu sei figlia, e lodo anch’io
     il pensier del genitore;
     ma ricordati, ben mio,
     qualche volta ancor di me.
          Non offendi, o mia speranza,
     la virtú del tuo bel core,
     rammentando la costanza
     di chi vive sol per te. (parte)

SCENA II

Attilia, Manlio dalla scala, littori e popolo.

Attilia. Manlio, per pochi istanti

t’arresta, e m’odi.
Manlio.   E questo loco, Attilia,
parti degno di te?
Attilia.   Non fu sin tanto
che un padre invitto in libertá vantai:
per la figlia d’un servo è degno assai.
Manlio. A che vieni?
Attilia.   A che vengo! Ah! sino a quando,
con stupor della terra,
con vergogna di Roma, in vil servaggio
Regolo ha da languir? Scorrono i giorni,

gli anni giungono a lustri, e non si pensa

ch’ei vive in servitú. Qual suo delitto
meritò da’ romani
questo barbaro obblio? Forse l’amore,
onde i figli e se stesso
alla patria pospose? il grande, il giusto,
l’incorrotto suo cor? l’illustre forse
sua povertá ne’ sommi gradi? Ah! come
chi quest’aure respira
può Regolo obbliar? Qual parte in Roma
non vi parla di lui? Le vie? per quelle
ei passò trionfante. Il fòro? a noi
provvide leggi ivi dettò. Le mura
ove accorre il senato? i suoi consigli
lá fabbricâr piú volte
la pubblica salvezza. Entra ne’ tempii;
ascendi, o Manlio, il Campidoglio; e dimmi:
chi gli adornò di tante
insegne pellegrine,
puniche, siciliane e tarantine?
Questi, questi littori,
ch’or precedono a te; questa, che cingi,
porpora consolar, Regolo ancora
ebbe altre volte intorno: ed or si lascia
morir fra’ ceppi? ed or non ha per lui
che i pianti miei, ma senza pro versati?
Oh padre! oh Roma! oh cittadini ingrati!
Manlio. Giusto, Attilia, è il tuo duol, ma non è giusta
l’accusa tua. Di Regolo la sorte
anche a noi fa pietá. Sappiam di lui
qual faccia empio governo
la barbara Cartago...
Attilia.   Eh! che Cartago
la barbara non è. Cartago opprime
un nemico crudel; Roma abbandona
un fido cittadin. Quella rammenta

quant’ei giá l’oltraggiò; questa si scorda

quant’ei sudò per lei. Vendica l’una
i suoi rossori in lui; l’altra il punisce
perché d’allòr le circondò la chioma.
La barbara or qual è: Cartago o Roma?
Manlio. Ma che far si dovrebbe?
Attilia.   Offra il senato
per lui cambio o riscatto
all’africano ambasciador.
Manlio.   Tu parli,
Attilia, come figlia: a me conviene
come console oprar. Se tal richiesta
sia gloriosa a Roma,
fa d’uopo esaminar. Chi alle catene
la destra accostumò...
Attilia.   Donde apprendesti
cosí rigidi sensi?
Manlio.   Io n’ho sugli occhi
i domestici esempi.
Attilia.   Eh! di’ che al padre
sempre avverso tu fosti.
Manlio.   È colpa mia
s’ei vincer si lasciò? se fra’ nemici
rimase prigionier?
Attilia.   Pria d’esser vinto,
ei v’insegnò piú volte...
Manlio.   Attilia, ormai
il senato è raccolto: a me non lice
qui trattenermi. Agli altri padri inspira
massime meno austere. Il mio rigore
forse puoi render vano,
ch’io son console in Roma e non sovrano.
          Mi crederai crudele,
     dirai che fiero io sia;
     ma giudice fedele
     sempre il dolor non è.

          M’affliggono i tuoi pianti;

     ma non è colpa mia
     se quel, che giova a tanti,
     solo è dannoso a te. (parte)

SCENA III

Attilia, poi Barce.

Attilia. Nulla dunque mi resta

da’ consoli a sperar. Questo è nemico;
assente è l’altro. Al popolar soccorso
rivolgersi convien. Padre infelice,
da che incerte vicende
la libertá, la vita tua dipende!
Barce. Attilia! Attilia! (con fretta)
Attilia.   Onde l’affanno?
Barce.   È giunto
l’africano orator.
Attilia.   Tanto trasporto
la novella non merta.
Barce.   Altra ne reco
ben piú grande.
Attilia.   E qual è?
Barce.   Regolo è seco.
Attilia. Il padre!
Barce.   Il padre.
Attilia.   Ah! Barce,
t’ingannasti o m’inganni?
Barce.   Io nol mirai,
ma ognun...
Attilia.   Publio... (vedendolo venire)

SCENA IV

Publio e dette.

Publio.   Germana...

Son fuor di me... Regolo è in Roma.
Attilia.   Oh Dio!
Che assalto di piacer! Guidami a lui.
Dov’è? Corriam...
Publio.   Non è ancor tempo. Insieme
con l’orator nemico attende adesso
che l’ammetta il senato.
Attilia.   Ove il vedesti?
Publio. Sai che, questor, degg’io
gli stranieri oratori
d’ospizio provveder. Sento che giunge
l’orator di Cartago; ad incontrarlo
m’affretto al porto: un africano io credo
vedermi in faccia, e il genitor mi vedo.
Attilia. Che disse? che dicesti?
Publio.   Ei su la ripa
era giá quand’io giunsi, e il Campidoglio,
ch’indi in parte si scopre,
stava fisso a mirar. Nel ravvisarlo,
corsi gridando: — Ah, caro padre! — e volli
la sua destra baciar. M’udí, si volse,
ritrasse il piede, e in quel sembiante austero,
con cui giá fe’ tremar l’Africa doma:
— Non son padri — mi disse — i servi in Roma. —
Io replicar volea; ma se raccolto
fosse il senato, e dove,
chiedendo m’interruppe. Udillo, e senza
parlar lá volse i passi. Ad avvertirne

il console io volai. Dov’è? Non veggo

qui d’intorno i littori...
Barce.   Ei di Bellona
al tempio s’inviò.
Attilia.   Servo ritorna
dunque Regolo a noi?
Publio.   Sí; ma di pace
so che reca proposte, e che da lui
dipende il suo destin.
Attilia.   Chi sa se Roma
quelle proposte accetterá.
Publio.   Se vedi
come Roma l’accoglie,
tal dubbio non avrai. Di gioia insani
son tutti, Attilia. Al popolo, che accorre,
sono anguste le vie. L’un l’altro affretta;
questo a quello l’addita. Oh, con quai nomi
chiamar l’intesi! e a quanti
molle osservai per tenerezza il ciglio!
Che spettacolo, Attilia, al cor d’un figlio!
Attilia. Ah! Licinio dov’è? Di lui si cerchi:
imperfetta saría,
non divisa con lui, la gioia mia.
               Goda con me, s’io godo,
          l’oggetto di mia fé,
          come penò con me,
          quand’io penai.
               Provi felice il nodo,
          in cui l’avvolse Amor:
          assai tremò finor,
          sofferse assai. (parte)

SCENA V

Publio e Barce.

Publio. Addio, Barce vezzosa.

Barce.   Odi. Non sai
dell’orator cartaginese il nome?
Publio. Sí: Amilcare si appella.
Barge.   È forse il figlio
d’Annone?
Publio.   Appunto.
Barce.   (Ah! l’idol mio.)
Publio.   Tu cangi
color! Perché? Fosse costui cagione
del tuo rigor con me?
Barce.   Signor, trovai
tal pietá di mia sorte
in Attilia ed in te, che non m’avvidi
finor di mie catene; e troppo ingrata
sarei, se t’ingannassi. A te sincera
tutto il cor scoprirò. Sappi...
Publio.   T’accheta:
mi prevedo funesta
la tua sinceritá. Fra le dolcezze
di questo dí non mescoliam veleno;
se d’altri sei, vo’ dubitarne almeno.
               Se piú felice oggetto
          occupa il tuo pensiero,
          taci, non dirmi il vero,
          lasciami nell’error.
               È pena, che avvelena,
          un barbaro sospetto;
          ma una certezza è pena,
          che opprime affatto un cor. (parte)

SCENA VI

Barce sola.

Dunque è ver che a momenti

il mio ben rivedrò? L’unico, il primo,
onde m’accesi? Ah! che farai, cor mio,
d’Amilcare all’aspetto,
se al nome sol cosí mi balzi in petto?
          Sol può dir che sia contento
     chi penò gran tempo invano,
     dal suo ben chi fu lontano
     e lo torna a riveder.
          Si fan dolci in quel momento
     e le lagrime e i sospiri;
     le memorie de’ martíri
     si convertono in piacer. (parte)

SCENA VII

Parte interna del tempio di Bellona; sedili per li senatori romani e per gli oratori stranieri. Littori, che custodiscono diversi ingressi del tempio; da’ quali veduta del Campidoglio e del Tevere.

Manlio, Publio e senatori, indi Regolo ed Amilcare.
Séguito d’africani e popolo fuori del tempio.

Manlio. Venga Regolo, e venga

l’africano orator. Dunque i nemici
braman la pace? (a Publio)
Publio.   O de’ cattivi almeno
vogliono il cambio. A Regolo han commesso
d’ottenerlo da voi. Se nulla ottiene,

a pagar col suo sangue

il rifiuto di Roma egli a Cartago
è costretto a tornar. Giurollo, e vide,
pria di partir, del minacciato scempio
i funesti apparecchi. Ah! non sia vero
che a sí barbare pene
un tanto cittadin...
Manlio.   T’accheta: ei viene.

Il console, Publio e tutti i senatori vanno a sedere, e rimane vuoto accanto al console il luogo altre volte occupato da Regolo. Passano Regolo ed Amilcare fra’ littori, i quali, lasciato ad essi aperto il varco, tornano subito a chiudersi. Regolo, entrato appena nel tempio, s’arresta pensando.

Amilcare. (Regolo, a che t’arresti? È forse nuovo

per te questo soggiorno?)
Regolo. (Penso qual ne partii, qual vi ritorno.)
Amilcare. Di Cartago il senato, (al console)
bramoso di depor l’armi temute,
al senato di Roma invia salute;
e, se Roma desia
anche pace da lui, pace gl’invia.
Manlio. Siedi ed esponi. (Amilcare siede)
(a Regolo)  E tu l’antica sede,
Regolo, vieni ad occupar.
Regolo.   Ma questi
chi sono?
Manlio.   I padri.
Regolo.   E tu chi sei?
Manlio.   Conosci
il console sí poco?
Regolo. E fra il console e i padri un servo ha loco?
Manlio. No; ma Roma si scorda
il rigor di sue leggi
per te, cui dee cento conquiste e cento.
Regolo. Se Roma se ne scorda, io gliel rammento.
Manlio. (Piú rigida virtú chi vide mai?)

Publio. Né Publio sederá. (sorge)

Regolo.   Publio, che fai?
Publio. Compisco il mio dover: sorger degg’io
dove il padre non siede.
Regolo.   Ah, tanto in Roma
son cambiati i costumi! Il rammentarsi
fra le pubbliche cure
d’un privato dover, pria che tragitto
in Africa io facessi, era delitto.
Publio. Ma...
Regolo.   Siedi, Publio, e ad occupar quel loco
piú degnamente attendi.
Publio.   Il mio rispetto
innanzi al padre è naturale istinto.
Regolo. Il tuo padre morí, quando fu vinto. (Publio siede)
Manlio. Parla, Amilcare, ormai.
Amilcare.   Cartago elesse
Regolo a farvi noto il suo desio.
Ciò ch’ei dirá, dice Cartago ed io.
Manlio. Dunque Regolo parli.
Amilcare. (piano a Regolo)  Or ti rammenta
che, se nulla otterrai,
giurasti...
Regolo.   Io compirò quanto giurai. (pensa)
Manlio. (Di lui si tratta: oh, come
parlar saprá!)
Publio.   (Numi di Roma, ah, voi
inspirate eloquenza a’ labbri suoi!)
Regolo. La nemica Cartago,
a patto che sia suo quant’or possiede,
pace, o padri coscritti, a voi richiede.
Se pace non si vuol, brama che almeno
de’ vostri e suoi prigioni
termini un cambio il doloroso esiglio.
Ricusar l’una e l’altro è il mio consiglio.
Amilcare. (Come!)

Publio.   (Aimè!)

Manlio.   (Son di sasso.)
Regolo.   Io della pace
i danni a dimostrar non mi affatico:
se tanto la desia, teme il nemico.
Manlio. Ma il cambio?
Regolo.   Il cambio asconde
frode per voi piú perigliosa assai.
Amilcare. Regolo!
Regolo.   Io compirò quanto giurai. (ad Amilcare)
Publio. (Numi! il padre si perde.)
Regolo.   Il cambio offerto
mille danni ravvolge;
ma l’esempio è il peggior. L’onor di Roma,
il valor, la costanza,
la virtú militar, padri, è finita,
se ha speme il vil di libertá, di vita.
Qual pro che torni a Roma
chi a Roma porterá l’orme sul tergo
della sferza servil? chi l’armi ancora
di sangue ostil digiune
vivo depose, e per timor di morte
del vincitor lo scherno
soffrir si elesse? Oh vituperio eterno!
Manlio. Sia pur dannoso il cambio:
a compensarne i danni
basta Regolo sol.
Regolo.   Manlio, t’inganni:
Regolo è pur mortal. Sento ancor io
l’ingiurie dell’etade. Utile a Roma
giá poco esser potrei: molto a Cartago
ben lo saria la gioventú feroce,
che per me rendereste. Ah, sí gran fallo
da voi non si commetta! Ebbe il migliore
de’ miei giorni la patria: abbia il nemico
l’inutil resto. Il vil trionfo ottenga

di vedermi spirar; ma vegga insieme

che ne trionfa invano,
che di Regoli abbonda il suol romano.
Manlio. (Oh inudita costanza!)
Publio. (Oh coraggio funesto!)
Amilcare. (Che nuovo a me strano linguaggio è questo!)
Manlio. L’util non giá dell’opre nostre oggetto,
ma l’onesto esser dee; né onesto a Roma
l’esser ingrata a un cittadin saria.
Regolo. Vuol Roma essermi grata? ecco la via.
Questi barbari, o padri,
m’han creduto sí vil, che per timore
io venissi a tradirvi. Ah! questo oltraggio
d’ogni strazio sofferto è piú inumano.
Vendicatemi, o padri: io fui romano.
Armatevi, correte
a sveller da’ lor tempii
l’aquile prigioniere. Infin che oppressa
l’emula sia, non deponete il brando.
Fate ch’io, lá tornando,
legga il terror dell’ire vostre in fronte
a’ carnefici miei; che lieto io mora
nell’osservar fra’ miei respiri estremi
come al nome di Roma Africa tremi.
Amilcare. (La maraviglia agghiaccia
gli sdegni miei.)
Publio.   (Nessun risponde? Oh Dio!
mi trema il cor.)
Manlio.   Domanda
piú maturo consiglio
dubbio sí grande. A respirar dal nostro
giusto stupor spazio bisogna. In breve
il voler del senato
tu, Amilcare, saprai. Noi, padri, andiamo
l’assistenza de’ numi
pria di tutto a implorar. (s’alza e seco tutti)

Regolo.   V’è dubbio ancora?

Manlio. Sí, Regolo: io non veggo
se periglio maggiore
è il non piegar del tuo consiglio al peso,
o se maggior periglio
è il perder chi sa dar sí gran consiglio.
               Tu, sprezzator di morte,
          dai per la patria il sangue;
          ma il figlio suo piú forte
          perde la patria in te.
               Se te domandi esangue,
          molto da lei domandi:
          d’anime cosí grandi
          prodigo il ciel non è.

(parte il console, seguito dal senato e da’ littori, e resta libero il passaggio nel tempio)

SCENA VIII

Regolo, Publio, Amilcare; indi Attilia, Licinio e popolo.

Amilcare. In questa guisa adempie

Regolo le promesse?
Regolo.   Io vi promisi
di ritornar: l’eseguirò.
Amilcare.   Ma...
Attilia. (con impazienza)  Padre!
Licinio. Signor! (come sopra)
Attilia, Licinio.   Su questa mano... (voglion baciargli la mano)
Regolo. Scostatevi. Io non sono,
lode agli dèi, libero ancora.
Attilia.   Il cambio
dunque si ricusò?
Regolo.   Publio, ne guida
al soggiorno prescritto
ad Amilcare e a me.

Publio.   Né tu verrai

a’ patrii lari, al tuo ricetto antico?
Regolo. Non entra in Roma un messaggier nemico.
Licinio. Questa troppo severa
legge non è per te.
Regolo.   Saría tiranna,
se non fosse per tutti.
Attilia.   Io voglio almeno
seguirti ovunque andrai.
Regolo.   No: chiede il tempo,
Attilia, altro pensier che molli affetti
di figlia e genitor.
Attilia.   Da quel che fosti,
padre, ah! perché cosí diverso adesso?
Regolo. La mia sorte è diversa: io son l’istesso.
               Non perdo la calma
          fra’ ceppi o gli allori:
          non va sino all’alma
          la mia servitú.
               Combatte i rigori
          di sorte incostante
          in vario sembiante
          l’istessa virtú.
  (parte, seguito da Publio, Licinio e popolo)

SCENA IX

Attilia sospesa, Amilcare partendo,
Barce che sopraggiunge.

Barce. Amilcare!

Amilcare.   Ah, mia Barce! (ritornando indietro)
ah, di nuovo io ti perdo! Il cambio offerto
Regolo dissuade.

Barce, Attilia.   Oh stelle!

Amilcare.   Addio:
Publio seguir degg’io. Mia vita, oh quanto,
quanto ho da dirti!
Barce.   E nulla dici intanto.
Amilcare.   Ah! se ancor mia tu sei,
     come trovar sí poco
     sai negli sguardi miei
     quel ch’io non posso dir?
          Io, che nel tuo bel foco
     sempre fedel m’accendo,
     mille segreti intendo,
     cara, da un tuo sospir. (parte)

SCENA X

Attilia e Barce.

Attilia. Chi creduto l’avrebbe! Il padre istesso

congiura a’ danni suoi.
Barce.   Giá che il senato
non decise finor, molto ti resta,
Attilia, onde sperar. Corri, t’adopra,
parla, pria che di nuovo
si raccolgano i padri. Adesso è il tempo
di porre in uso e l’eloquenza e l’arte.
Or l’amor de’ congiunti,
or la fé degli amici, or de’ romani
giova implorar l’aita in ogni loco.
Attilia. Tutto farò; ma quel ch’io spero è poco.
          Mi parea del porto in seno
     chiara l’onda, il ciel sereno;
     ma tempesta — piú funesta
     mi respinge in mezzo al mar.

          M’avvilisco, m’abbandono;

     e son degna di perdono
     se, pensando a chi la desta,
     incomincio a disperar. (parte)

SCENA XI

Barce sola.

Che barbaro destino

sarebbe il mio, se Amilcare dovesse
pur di nuovo a Cartago
senza me ritornar! Solo in pensarlo
mi sento... Ah! no: speriam piuttosto. Avremo
sempre tempo a penar. Non è prudenza,
ma follia de’ mortali
l’arte crudel di presagirsi i mali.
          Sempre è maggior del vero
     l’idea d’una sventura,
     al credulo pensiero
     dipinta dal timor.
          Chi stolto il mal figura,
     affretta il proprio affanno,
     ed assicura — un danno,
     quando è dubbioso ancor.

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