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LXXI.
Accademia retta da me.
Sul cominciare dell’anno 1801 eressi in casa mia una accademia poetica, e con buona grazia di quei molti i quali deridono questa sorte di istituzioni credo che io facessi una cosa molto utile alla nostra società. Queste accademie sono un piccolo teatro in cui si può fare una qualche pompa di ingegno comodamente e senza bisogno di grandi capitali scientifici, eccitano alcun principio di emulazione, accendono qualche desiderio di gloria, impongono l’amore per lo studio o per lo meno la necessità di simularlo, riuniscono la società, civilizzano i costumi, rendono familiari le frasi buone e le eleganze della lingua, e servono anche non di rado la religione, imponendo il parlarne in certe adunanze con alti e rispettosi concetti. Insomma se le accademie non servono come scuola di ben poetare, mi pare che servano come scuola di ben vivere, e stimo utilissimo il coltivarle massimamente nei paesi piccoli, nei quali difficilmente possono ottenersi altre instituzioni equivalenti. La nuova accademia in pochi giorni trasse dalle ceneri la antichissima accademia dei Disuguali sorta qui nel 1400, e solo da pochi anni giacente, e, fatta una istessa con quella, fiorì per tre o quattro anni finchè ebbe sede in casa mia, ed io ne sostenni le spese, e ne ebbi cura paterna. Sembrandomi però che taluno ravvisasse quel domicilio dell’accademia come un orgoglio mio personale, la emancipai, e traslocata al Palazzo del Comune i nuovi suoi direttori la lasciarono perire sollecitamente.