< Autobiografia (Monaldo Leopardi)
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Capitolo LXXVIII
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LXXVIII.

Mio viaggio a Roma.

Sdegnato di quella superchieria, e niente disposto a redimermi al prezzo della umiliazione risolvetti di domandare giustizia in Roma personalmente e partii alli 17 di Novembre. Colà senza direzione, senza appoggio, e senza esperienza, mi sentivo forte con l’innocenza mia e con la giustizia della causa. Mi presentai a dirittura al Cardinale Busca prefetto del buon governo il quale sentendo che io mi lagnavo di Monsignore Testaferrata, se ne maravigliò chiamandolo uomo giusto, e saggio, ma replicando io che con tutta la sua giustizia io me ne trovavo aggravato, mi rimandò al segretario allora Monsignore, oggi Cardinale Falsacappa. Questo degno prelato mi assicurò che avrei ottenuta giustizia anche, occorrendo, contro il segretario di Stato, e preso il ricorso mio lo spedì in Macerata a Monsignor Testaferrata perchè informasse. Mi si fece il dispetto di differire quaranta giorni l’informazione, la quale finalmente arrivò pedissequa alla sentenza, e contraria a me totalmente. Anderebbe troppo in lungo il ripetere i punti della mia condanna, bastando che la Congrega delzionew Buon Governo persuasa delle mie ragioni che io difesi sempre da me, mi assolvè pienamente, e confermò la sentenza dei sindacatori Recanatesi, e revocò quella di Macerata perchè la perizia sulla quale fondavasi veniva dichiarata cavillosa, puerile ed erronea. Monsignore Falsacappa ebbe la bontà di consegnarmi una copia della lettera con cui questa decisione veniva comunicata al Governo della Provincia, pregandomi bensì di non comunicarla prima che il Governo istesso la avesse ricevuta, lo che eseguii. La Congregazione del Buon Governo definì questo mio affare nel giorno 14 di gennaro 1802, Monsignore Falsacappa mi consegnò la lettera nella sera istessa, ed io nella matina seguente partii per tornarmene a casa dove arrivai alli 19 del mese suddetto. Due mesi che avevo passati lontano dalla mia famiglia mi erano sembrati due secoli, e questa è stata la mia più lunga assenza dalla casa paterna1. Taluno si meraviglierà come io non abbia veduto un po’ di mondo non essendomi mancati i mezzi per viaggiare e forse riderà di questo umore mio casareccio, ma io nel vivere in casa mia ho trovato tutto il mio gusto, e mi è sembrato di avere acquistate condizioni bastanti del mondo studiandolo sui libri. Inoltre piuttosto che spendere nei viaggi mi sono procurato qualche permanente comodità che godo continuamente, e i miei figli godranno anch’essi di avere avuto un padre fabricatore anzichè viaggiatore. Insomma io sono contento così, e tutti gli uomini studiano per contentarsi.

L’affare dunque dell’annona finì per me gloriosamente, ma in ogni modo fu anch’esso un errore di gioventù, perchè se in luogo di sdegnarmi con Monsignore Testaferrata avessi cercato di persuaderlo calmatamente, quel buon signore mi avrebbe resa giustizia, ed io avrei risparmiati il viaggio, i pensieri, e la spesa di cento doppie battute senza gusto. Non so se per eguali errori, o per combinazioni inevitabili, ho dovuto aver briga successivamente con quasi tutti i superiori della Provincia, e quantunque ne sia uscito sempre con onore, quelle brighe non hanno lasciato di amareggiarmi. Ho esaminato un poco come può essere che io sentendo un vero rispetto per l’autorità legittima e avendo spiriti e desiderî tutt’altro che rivoltosi mi scaldi facilissimamente con quelli che comandano, e mi attacchi non di rado con essi, ed eccone la causa per quanto mi sembra. Io sono amantissimo della giustizia, e avendo un po’ di ingegno conosco assai bene quello che è giusto e quello che è ingiusto. I superiori affollati dagli affari, qualche volta dànno necessariamente degli ordini poco riflettuti, e qualche volta abituati a vedersi obbedire comandano per mestiere, e non si fanno carico di dimostrare la giustizia degli ordini loro. L’aspetto della ingiustizia mi sdegna, il vedermi trattato come una pecora mi irrita, e mi attacco, e mi batto non contro l’uomo o contro l’autorità, ma contro l’errore e l’abuso. Insomma però chi ha ragione? I superiori sono uomini, e come tali debbono essere difettosi, come devono essere difettose tutte le instituzioni umane poco più, poco meno. Pretendere la riforma del genere umano, e dell’ordine sociale è follia, e l’uomo saggio deve ricevere il mondo come lo ha constituito la providenza, godendone i beni e tollerandone i mali senza presumere di ridurlo ad una perfezione immaginaria. A questi conti il pazzo sono io perchè vorrei le cose e gli uomini come non sono e come non possono essere. Se così è bisognerà pensarci, e procurare di correggersi.

Note

  1. Dovette tornare in Roma sullo spirare del 1828 e trattenervisi sin circa la metà d’aprile del 1829. Le sue ideo giovanili intorno al viaggiare non erano cambiate punto nella sua età virile, anzi ....Ecco in che termini scriveva alla sua Paolina il 10 gennaio 1820: «Non dubitate, mia cara figlia; chè le magnificenze di Roma nor hanno, e non possono avere nessuna attrattiva per me, che sto in questa metropoli, come starebbe una ranocchia in mezzo all’oceano. La povera bestiola ammirerebbe la maestà di quei flutti, ma sospirerebbe per il suo pantano. Non so se il conoscere Roma e una qualunque facilità di stabilirmici avrebbe potuto lusingarmi nella gioventù; ma so di certo che se oggi mi pervenisse il palazzo del principe Borghese con tutta la sua eredità, non abbandonerei la casa de’ nostri padri, Io non mi fermerò qui un giorno più di quanto sarà necessario indispensabilmente.» E altrove dopo aver gridato contro i cibi pessimi, lo strepito che assorda, le carrozze galoppanti e sbucanti da ogni parte e da ogni portone con minaccia continua di triturarvi, contro le strade fatte di ciottoli, piene di lordura e di acqua, e dopo averne detto delle poco belline contro gli abitanti, esce in questa esclamazione: «Oh Marca! Oh Recanati! Oh cara pace della mia carissima casa io ti desidero ardentissimamente per non lasciarti mai più a Dio piacendo!» La cagione che lo spinse ad uscire fuori del suo tetto, fu una gravissima causa che pendea tra lui e il conte Moroni innanzi al tribunale della Rota, e il doversi difendere da certe accuse mossegli contro per avere sposo del danaro pubblico, mentr’era Podestà, senza precedente regolare approvazione. Vinse la causa, e dalle accuse fu prosciolto, ma nel tempo della sua dimora in Roma ci si buscò delle febbri, e il suo amore per la metropoli dell’universo non crebbe davvero, Si riferisce a questo tempo un aneddoto che trovo nella lunga e amorevole corrispondenza epistolare ch’egli ebbe, nella sua assenza, specialmente con Paolina. Lo riporto, perchè si conosca sempre più l’umor gioviale di Monaldo anche in mezzo ad angustie amarissime. «Questa mattina, scriveva egli il 12 gennaro, son ritornato dal segretario di Stato. Ho trovato che fino da avanti ieri aveva dato ordine che io passassi subito, 6 così è stato dopo uscito mons. segretario del Buon Governo, il quale stava già dentro. ... Uscito esso, sono entrato io, quantunque l’anticamera fosse piena di gente. Mi ha accolto con somma cordialità. Volevo baciargli la mano; e non volendolo assolutamente mi ha detto: Sarebbe mandare il mondo al rovescio. — Io ho risposto: E che? Vostra Eminenza vorrebbe baciare la mano a me? — Ha soggiunto: Sicuro. — Ho replicato ridendo: E per qual titolo? — Ed egli non sapendo cosa dire ha soggiunto: Perchè avete più anni di me. — Allora abbiamo fatto i conti, e pare davvero che io ne abbia quattro più di lui. Poi mi sono scusato dello essere stato a Roma dieci giorni senza vederlo, incolpandone il freddo che mi aveva vietato lo scoprire le gambe. (Ricordi il cortese lettore che, come Monaldo volle probabilmente essere l’ultimo spadifero d’Italia, così non volle mai smettere l’uso de’ calzoni corti, credendo nobile e dignitoso questo costume.) Dicendomi egli perchè mi ero levati gli stivali, e soggiungendo io di aver voluto presentargli uno stivale solo e non tre, si è messo a ridere, e mi ha detto di andarci quando voglio, e con quanti stivali mi pare,»

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