< Autobiografia (Monaldo Leopardi)
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Capitolo XIV
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XIV.

Studio della rettorica.

Toccando già l’anno quindicesimo dell’età, e trovandomi ancora nella grammatica, bisognò che il Maestro me ne cavasse in qualunque modo, ma dalle zanne del Porretti caddi in quelle del Decolonia che a me sembrarono più crudeli assai. Il Porretti con le sue regole mi insegnava quello che io non sapevo e annoiato e disperato di quello studio pure ne confessavo la utilità. Il Decolonia coi suoi precetti mi diceva cose che la fantasia e la lettura mi avevano insegnate prima di lui, e trovavo che il suo libro mi era tanto utile quanto quello di chi mi avesse avvertito che il fuoco riscalda, o che buttandosi dalla finestra si rompe la testa. Può essere che lo studio di quella rettorica in dettaglio, e di quella anatomia dell’eloquenza giovi ai Bambocci di dieci o duodeci anni e aiuti i progressi di quelle menti alle quali la natura ha parlato poco, ma per un giovanetto di quindici anni e per una creatura alla quale è toccata una scintilla di genio gioverà conoscere di volo il tessuto e l’analisi della eloquenza, ma credo che lo studio assiduo del Decolonia, e dei suoi compagni servano niente, e una lezione di Blair, una pagina di Thomas lette successivamente mi hanno giovato assai più che due anni di quello studio inutile e seccante. Deve ancora aggiungersi che il mio ottimo Torres dotto nelle scienze ecclesiastiche e colto assai nella storia e in altre utili discipline non aveva ombra di genio di estro o di fantasia e legato come un mastino alla catena dei precetti non sapeva allontanarsene decentemente, e poi come americano non conosceva nè il gusto nè lo stile, nè tutte le frasi e parole della lingua italiana. Pertanto ognuno faccia quanto gli piace del Decolonia, e degli altri spacciatori di eloquenza a minuto che io non sento di avergli obbligazione veruna, e ricordo dolorosamente di avere perduti due anni di pazienza e di tempo con esso.

Stando già io fra li sedici, e li diecisette anni il mio maestro conobbe che andavo a scappargli di mano, e quantunque niente avessi finito con la precisione voluta da lui si contentò di lasciarmi correre un poco, ma non era più tempo. Si scartabellò alquanto la Logica del Faciolati, e non mi ricordo qual cosa del Jaquier. Poi un po’ di Geometria, di Metafisica e di Fisica del Para, poi finirono li dieciotto anni, ed eccoti la gioventù, gli affari, i capricci, ed eccoti finita la scuola per sempre. Non vorrei adularmi, e non vorrei oscurare menomamente la memoria di uomo, degno altronde di amore e rispetto sommo; ma credo che sotto un altro institutore avrei fatti progressi grandiosi, laddove incatenato, compresso indispettito da quel suo metodo soffocatore uscii dagli studî con la impronta bensì di alcune cose nella memoria, ma senza avere sperimentato mai le forze dell’ingegno, e senza che l’estro, il genio la fantasia avessero potuto tentare un volo mai. In questo stato cominciai la gioventù mia, ma prima di trattarne mi resta da dire assai della mia adolescenza.

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