< Autobiografia (Monaldo Leopardi)
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Capitolo XXXV
Capitolo XXXIV Capitolo XXXVI

XXXV.

Arrivo dei Francesi in Recanati.

Il giorno 10 passò senza nuovità, e senza che qui arrivasse un soldato. La matina però degli 11 giunsero dieci dragoni accompagnati da un commesso del Comune di Loreto e questi furono i primi soldati della republica vedutisi in Recanati. Dissero che la sera giungerebbe in Loreto gran truppa e pernotterebbe colà per passare nel dì seguente senza fermarsi in Recanati, però si spedisse subito abbondanza di provisioni, e segnatamente di pane. Questa notizia ci colmò di consolazione e mi detti tutto il moto per fare lavorare quanto pane si potè, ed ammanire gli altri viveri domandati. Fratanto quei dragoni vollero far colazione in una bettola, e per civiltà o per sospetto vollero che io bevessi con loro e prima di loro. Sento ancora il ribrezzo di quella bibita, e del vedermi in una osteria la prima ed unica volta nella vita, ma la necessità e la paura fanno scordare le smorfie della educazione. Circa le ore 22 si spedirono alla volta di Loreto ventitrè carri carichi di vettovaglie e si restò tranquilli, ma fra un’ora eccoti i forieri con l’annunzio che avrebbero alloggiato qui in quella sera cinque mille uomini, ed erano poco distanti. Lo sgomento che destò quella notizia è inconcepibile. Senza pane, senza prattica di alloggiare le truppe, e con la notte vicina che imbruttisce tutti i dispiaceri, non sapevamo dove dare la testa. Adunai subito il Consiglio, non avendo ancora imparato che quando gli avvenimenti pressano è tempo di fare e non di consultare, ma quei consiglieri me lo insegnarono, perchè si vennero stringendo nelle spalle, dissero fate voi, e se ne andarono. Restai dunque solo a distribuire gli alloggi, a procurare i viveri, e a provedere tutte le altre occorrenze. I viveri non mi sgomentarono perchè il paese nostro ricco allora come adesso di ogni vittuale li somministrava in abbondanza, ma il pane già fatto mancava e non si poteva ammanirlo in poche ore. Si fecero lavorare tutti i forni, si raccolse quanto ne avevano le case e i conventi, e si spedì nei paesi vicini, ma queste risorse sono sempre meschine assai, e i forni casalini in questi bisogni repentini servono niente. Anche gli alloggi ci imbarazzarono perchè nella città nostra non erano alloggiati mai duecento soldati, e ignoravamo la capacità delle case, lo stato delle scuderie e qualunque altro dettaglio analogo. Accrebbe l’angustia il numero grande dei marescialli e brigadieri per i quali si domandava il biglietto. Credendoli Generali gli vennero assegnati i quartieri migliori, e tardi si conobbe che equivalevano ai nostri caporali e sargenti. La accrebbe pure l’indiscrezione del generale Lannes, comandante di tutta la truppa nel rifiutare l’alloggio preparatogli in casa mia perchè troppo lontana dal centro della città, sicchè dovetti collocarlo in casa Melchiorri, trasportando colà quanto si era ammanito per la sua cena. Finalmente era di grave impaccio in quei momenti, la sgarbatezza di due ufficiali i quali disponevano di tutto non so con qual titolo o grado, e non intendendo l’italiano si impazientivano e mi beffeggiavano perchè parlavo male il francese. Nulladimeno si provedè tutto alla meglio.

Sulla mezz’ora di notte cominciarono ad arrivare i soldati, e siccome marciava lentamente con qualche intervallo, il passaggio degli uomini, dei cavalli, dei cannoni, e dei carri durò più di due ore. Non avendo mai veduti tanti soldati assieme credevamo fossero ventimille e agghiacciavamo di spavento. Gli ufficiali alloggiarono nelle case, e i soldati nella strada incominciando dalla piazza maggiore fino alla chiesa suburbana del Beato Placido dove fecero campo. Fortunatamente era un tempo da estate. Dato un po’ di sesto a quella gente andai a visitare il generale Lannes, e questo signore poi Duca e Maresciallo del grande impero, per riscaldarsi bene le natiche le aveva arrampicate sopra lo stipite del camino e teneva le gambe larghe piantate sopra due sedie. Mi ricevè in quella positura. Trattenendomi con lui un uffiziale venne a dirgli in francese che bisognava un po’ di tela per accomodare un cassone. Il Generale voltosi a me, subito, disse, duemila braccia di tela. Rispondendogli io che era impossibile adunarne in un momento tanta quantità, cominciò a gridare come un indemoniato, e disse che i Dragoni con le loro sciabbole la fariano trovare. Poi voltosi alli suoi uffiziali si mise a ridere della mia paura. Io me ne accorsi, e andando a provedere la tela, quella faccenda restò accomodata con quattro braccia. Sia detto a gloria della sua memoria, quel Generale, Duca e Maresciallo era un facchino.

Tutti i calcoli e tutti i riscontri mi assicuravano che per la matina sarebbero in pronto due mila razioni di pane e non più, e immaginavo che la truppa mancante di pane sarebbe prorotta agli ultimi eccessi. Pensai di fuggire, e se adesso mi trovassi in quelle circostanze credo che lo farei, ma allora intesi di sagrificarmi deliberatamente al bene della patria. Passai la notte nel palazzo del Comune e aspettavo il nuovo sole come l’ultimo della vita, quando sul fare del giorno il mio ministro venne tutto lieto ad annunziarmi che la distribuzione era incominciata e il pane avvanzava. In conclusione tutto quell’esercito era di duemille uomini appena. Ricevuti i viveri partirono tutti alla volta di Roma. La strada e il campo restarono sparsi di pane, carni, biade e foraggi, e molli di vino non potendosi credere quale sciupo facesse quella colonna in un paese vergine, ricco, e inesperto. I soldati commisero gravi disordini nella campagna ma non tutti impunemente. Non credo che se ne ammazzassero alcune centinara come fu detto, ma alcuni senza meno pagarono con la vita la propria impertinenza. Il popolo odiava i Francesi implacabilmente, e incoraggito dai proclami incauti del Governo, li ammazzava quando poteva anche senza ragione e per gusto.

Nei giorni successivi passò qualche altra truppa, ma non alloggiò qui, almeno in numero considerabile. Si annunziò l’arrivo e la pernottazione di ventimila uomini tutti in un colpo, che si aspettarono da un giorno all’altro, e vennero mai. Era uno strattagemma per tenere le popolazioni in timore, ma questo strattagemma costò 20 mille razioni di pane che ammuffirono nei magazzeni. Alli tredici o quattordici, o quindici del mese, non ricordo il giorno preciso, passò Napoleone Buonaparte allora Generale in capo dell’armata francese in Italia. Passò velocemente a cavallo circondato da guardie le quali tenevano i fucili in mano col cane alzato. Tutto il mondo corse a vederlo. Io non lo vidi perchè, quantunque stassi sul suo passaggio nel Palazzo comunale, non volli affacciarmi alla Fenestra giudicando non doversi a quel tristo l’onore che un galantuomo si alzasse per vederlo. Non so se feci bene, ma mi pare che questo tratto in un giovane di vent’anni possa servire a indicare il carattere.

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