Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XXXVII | Capitolo XXXIX | ► |
XXXVIII.
Trattati che precederono le mie nozze.
Alli 15 del mese di giugno cade ogni anno la festa di s. Vito protettore della nostra città, e in quest’anno assistendo io con gli altri alla Messa solenne nella sua chiesa, fissai lo sguardo nella Marchesa Adelaide, Figlia del Marchese Filippo Antici. Uno sguardo chiamando l’altro, passai tutto il tempo della funzione osservando quella giovane e sentendo che mille pensieri passavano nella mia testa. Feci malissimo, perchè nella casa di Dio si deve essere occupati soltanto nel venerarlo, ma troppe cose ho fatte male nel corso della vita. Alli 18 di quello stesso mese cadde la Festa del Corpus Domini, e accompagnandone io la processione, ebbi sempre avanti la giovane medesima. I miei occhj non si staccarono da lei e la testa incominciò a girarmi tanto, che non sapevo pensare ad altro. La giovane era promessa ad un conte Castracane di Cagli, ma si vociferava la sconclusione di quel trattato per esserne scontenta la sposa. La casa Antici abbondante di Figlie e non ancora arricchita come poi, dava piccola dote; e fra quella famiglia e la mia, a fronte della amicizia attuale, esisteva un astiarello antico di cui dirò dopo la ragione, ma un giovane di vent’anni passa sopra a ben altri riflessi, se si sente un po’ riscaldato. Io lo era già oltremodo, e lo fui di più la sera dello stesso giorno, nella quale, andai con qualche pretesto in casa Torri per incontrarvi Adelaide, e vederla un’altra volta. Pensa, pensa, già si sa come doveva finire. La matina dei 21 vado a trovare il cavaliere Carlo Antici fratello della giovane e amico mio grande sino dall’infanzia, e gli chiedo se il trattato Castracane è sconcluso. Egli me lo confidò ed io lo pregai di domandare alla sorella se mi voleva per suo marito. Questi soli fatti brevi e semplici precederono il trattato del mio matrimonio, e molti che supposero una antecedenza di intrighi e amoreggiamenti si ingannarono. Alli 15 di giugno del 1797 ero libero e sciolto come un ucello, e alli 21 mi ero intricato nelle panie da me medesimo ed avevo già offerta la mano.
Non mi aspettavo che nell’accettarla si esitasse, ma così fu. Il conte Borgogelli di Fano capitano di una compagnia di soldati, era stato qui in guarnigione, ed essendosi offerto sposo alla giovane Antici, si aspettavano l’assenso e la donazione di una zia di Lui per procedere nel trattato. Il Cavaliere Carlo me lo aveva taciuto accortamente, ma la giovane dichiarò che in pendenza di quelle risposte non poteva disporre di sè. Mortificato e punto da questa semi ripulsa avrei voluto dimenticare perfino il nome di lei, ma quando una passione predomina, tutte le altre gli fanno largo. Trovai che quella rispondeva saggiamente, trovai che un tratto di onestà non doveva levarle l’affetto mio, trovai cento altri argomenti e ragioni, e risposi, aspetterò. Quantunque pochi momenti di dilazione mi sembrassero secoli passati sulle spine, aspettai poco perchè la promiscuità della Patria, e quindici o vent’anni di meno, mi davano molto vantaggio sul mio competitore ancorchè fosse un cavaliere degnissimo. Non ricordo come si finisse con lui, ma fra due o tre giorni ebbi l’assenso definitivo, e si trattò di partecipare questi concerti alle nostre rispettive Famiglie. Il consenso degli Antici fu pronto perchè quel trattato non aveva per essi alcuna spina, ma per parte dei miei congiunti temevo alcuna opposizione, minore bensì di quella che incontrai effettivamente.
Fino quasi dai giorni di sant’Ignazio, i miei antenati fondarono in Recanati un collegio di Gesuiti, dotandolo con sufficienti beni, e riservandosi il regresso alla proprietà della sostanza per il caso in cui il collegio venisse disciolto. Questo caso si verificò nel 1773 con la soppressione gesuitica, e la mia Famiglia reclamò l’osservanza del patto, ma il papa Clemente XIV di santa e infausta memoria, non volle intendere di restituzione, dichiarando con un suo motoproprio, che generalmente quanto al restituire i beni, la Compagnia si riteneva come non estinta «Tamquam non fuisset extincta». Qualche volta questi moti del Papa sono un poco convulsivi, ma pure bisogna starci. Dispiacque assai il perdere una sostanza del valore di circa scudi quarantamille, ma forse dispiacque più che all’appoggio di alcune pretese regolarità camerali tutti i beni del collegio si diedero in enfiteusi perpetua al Cardinale Antici, preferendolo alla Famiglia nostra che li domandava almeno con questo titolo. Ho amato e stimato troppo quel Cardinale per accagionarlo di alcuna parte in questa ingiustizia, ma il detentore delle sostanze proprie si guarda sempre di mal’occhio, e da allora in poi la famiglia mia aveva conservato sempre un po’ dispetto verso gli Antici.
Un’altra circostanza aveva disposti i miei congiunti poco a favore della giovane che io volevo sposare. Quel conte Castracane, del quale ho parlato venne qua per conoscere Amalia Antici sorella maggiore di Adelaide, ma vistele ambedue, la seconda gli piacque più e la prescelse. Amalia era giovane carinissima, e amabilissima, e la specie di torto fattosi a lei risvegliò la compassione e l’interesse di tutto il paese, ma principalmente dei miei congiunti che avevano un cuore grande quanto una piazza. Mia Madre dunque e i miei zii mi proposero di sposarla, e lo desiderarono ardentemente, io però non essendone innamorato, lo ricusai, ed essi mi lasciarono in pace, ma restarono poco contenti, e molto meno inclinati ad amare quell’altra la di cui preferenza aveva eccitata la compassione loro per questa.
Tali essendo le disposizioni degli animi, manifestai al mio zio Ettore la scelta fatta della sposa, e lo pregai di palesarla a mia Madre e agli altri zii, e di ottenere il consenso loro. Egli mi fece conoscere che questa scelta non mi era utile per la tenuità della Dote, ma concluse nella mia persistenza mia madre ed eglino non avrebbero fatta opposizione. Fin qui le cose andavano passabilmente, ma in pochi giorni si manifestò nei miei congiunti una opposizione a quelle nozze tanto costante e decisa che ne restai disperato. Amando la mia sposa con tutto l’ardore della gioventù, sentendo tutta la forza della parola già data, e conoscendo che la giovane aveva lasciato per me un altro partito, il ritirarmi era impossibile, ma amando pure e rispettando sommamente la Madre e i congiunti mi mancava affatto la forza per venire ad un fatto decisivo con la loro contradizione. Vissi alquanti giorni una vita di morte, senza cibo, senza sonno, straziato lacerato dall’amore e dalla disperazione, e non so come sarei uscito da quello stato di pene, se un’imprudenza commessa dai miei congiunti non mi dava il coraggio di disgustarli. Supplicarono il Papa perchè mi sottoponesse all’economato, e al tempo stesso i miei zii mi citarono per vedere annullata la donazione che dei loro beni avevano fatta al maggiorascato domestico innanzi al mio nascere. Non so di chi si servisse il Diavolo della discordia per inspirare ai miei parenti quella opposizione e quella ostilità aliene affatto dal carattere loro dolcissimo, ma questi atti legali, non meritati da me, che infine volevo la sorella di quella offertami già da loro, mi incoraggirono a resistere, e decisi che il mio matrimonio avrebbe luogo senz’altro. In questi trambusti mio fratello restò d’accordo con me, e lo stesso fece il mio zio Ernesto il quale svizzero nell’osservanza della sua parola, disse che non avendo ricevuti disgusti da me non aveva ragione di darmene. Al prozìo canonico Carlo già vecchio di 83 anni, non partecipai queste amarezze domestiche per non affligerlo, e perchè ero certo che la mia prima parola lo avrebbe sempre persuaso in mio favore.
Intanto fra gli Antici e me si era parlato di tutto fuorchè della Dote, ed io credevo che mi darebbero almeno nove mila scudi, quanti, a nome del cardinale Antici, si era detto di darmene allorchè volevasi che io sposassi Amalia; ma la cosa andò diversamente. Il padre sentendo questa mia supposizione restò sorpreso dichiarando essere contento se il cardinale suo fratello, dasse di più, ma avere egli sempre creduto che domandandogli io la Figlia dovessi prenderla con la dote assegnatagli di scudi seimila che era già nota, e che sola poteva darle. Egli aveva ragione. Mi rivolsi dunque al Cardinale, ma questo, con un diluvio di parole cordiali, mi rimandò al Padre, dicendo non essere incombenza sua il dotarne le figlie. Egli pure aveva ragione. Il balordo ero stato io promettendo la mano senza parlare di quattrini, e ne pagai la penitenza, ricevendo solamente seimila scudi parte in cedole, parte in moneta erosa, senza uno scudo fino. Quelli seimille scudi furono equivalenti appena a tremille scudi veri di argento.
Intanto accostandosi il tempo delle nozze, e persistendo la opposizione dei miei congiunti, la mia buona Madre prese un giorno a pregarmi di abbandonarne il pensiero, e lo fece con tanto calore che mi si inginocchiò avanti di me. Non so se quella sua tanta insistenza era giusta, nè come avrei dovuto cavarmi da quell’intrigo, ma so che dovevo morire piuttosto che disgustare, e disubbidire mia madre. Io mi misi in ginocchio avanti di Lei, e gli baciai la mano, e restai fermo nel mio proponimento. Sciagurato! Senza questo fatto potrei gloriarmi di non avere disubbidito alla madre nelli quarantacinque anni che ho vissuti con Lei e non avrei portato per tutta la vita un castigo severissimo di quella colpa. Iddio avrebbe cambiato il suo cuore, e diretti gli avvenimenti al bene di tutti, ed io non proverei il rossore di avere resistito alle preghiere di mia madre genuflessa avanti di me.
Stabilitosi il giorno del matrimonio, e ordinatesi le publicazioni consuete, volevo prevenirne il mio vecchio prozìo, ma egli andando in chiesa alla Messa vi sentì l’annunzio delle mie nozze. Quell’uomo carissimo, in luogo di dolersi della mia preterizione, venne subito a rallegrarsi con me, e sentendo allora per la prima volta le opposizioni domestiche disse che tutti avevano torto, e io solo avevo ragione. Sento ancora vergogna indicibile perchè questo zio amatissimo apprese come uno del popolo la notizia della mia risoluzione ma prima io gliela avevo occultata per non disgustarlo, e in quella mattina uscì di casa senza che io potessi prevederlo.
Riuscendo vano ogni tentativo per ottenere il consenso di mia Madre e de’ zii, giudicai che fosse male a proposito condurre la sposa in casa, tanto per risparmiare affanno ai congiunti che amavo, e rispettavo sempre, quanto perchè la sposa istessa non dovesse trovarsi amareggiata entrando in una casa nella quale tanti non la volevano. Presi dunque un appartamento nella città di Pesaro e risolvei di recarmi immediatamente colà, coll’animo di restarvi o poco, o molto, o sempre. Il tempo e le circostanze avrebbero dato consiglio.
La sera delli 26 di settembre precedente al giorno nuziale si scrissero i capitoli matrimoniali in casa Antici con le formalità consuete, e con l’intervento dei parenti, e di tutta la nobiltà. Della famiglia mia vi intervenne il solo prozìo, perchè mia Madre e li miei tre zii Pietro, Luigi, ed Ettore si opponevano a quelle nozze, e il zio Ernesto, e il mio fratello che le approvavano si mischiavano poco di formalità, e non si curavano di intervenire a queste funzioni. In quella sera stessa, col mezzo del mio Precettore ed amico D. Giuseppe Torres, feci sapere a mia Madre e alli zii, che se essi lo permettevano, nella matina seguente prima di partire per Pesaro avrei condotta la sposa a baciargli la mano. Essi in principio lo ricusarono, e non per eccesso di ostilità, ma perchè non si fidavano del proprio cuore e temevano di non sapersi condurre in coerenza del contegno già assunto. Inoltre sentivano estremo ribrezzo di trovarsi in faccia quella giovane che avevano tanto respinta, e me che avevano contradetto con tanta costanza. Era più ribrezzo che ostinazione, e questo ribrezzo diviene sommo e insuperabile quando fra le parti che controvertono non si parla della cosa che forma l’oggetto della questione. Ogni giorno di silenzio aumenta la difficoltà di romperlo, e questa contumacia divide con barriere di bronzo quegli animi che un colloquio amichevole avrebbe riuniti prontamente. Noi per verità, nel tempo di quelle turbolenze, ci vedemmo sempre, e sempre fummo ad una mensa istessa, ma eccettuato il colloquio narrato con mia Madre, mai si parlò delle nozze. Una parola avrebbe forse fatto argine a tanto disordine. Nulladimeno, fatta riflessione migliore i miei congiunti risposero che non avrebbero ricusato l’atto di rispetto offertogli da me.