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Autobiografia (Monaldo Leopardi) Capitolo I

AL PROF. FILIPPO FERRI MANCINI

RECANATESE

AL CORTESE LETTORE



Se mi è lecito giudicare dalla benevola accoglienza che si è fatta agli articoli che di mano in mano si son venuti pubblicando sopra Gli Studi in Italia, spero mi si voglia risparmiar la taccia di prosuntuoso, confidando che un po’ di favore possa aspettarselo questo volume eziandio, dove quegli stessi articoli si contengono, raffazzonati alquanto e di qualche giunta accresciuti. Esso porta in fronte il nome d’un LEOPARDI, e ciò, mi sembra, gli è più che bastevole commendatizia. È vero che anche questo benedetto nome ormai comincia a suonar noia e diffidenza: tante sono le puerilità e le goffaggini e le stranezze che ci si vorrebbero gabellare da coloro che conoscendo, come dice in tal proposito un bizzarro ingegno, la propria miseria, cercano di passare il Lete arrampicati sulle spalle di un grand’uomo che li porti ai posteri; ma non è men vero che tra questa pubblicazione e quante altre si son fatte finora sui Leopardi, ci è sostanzial differenza. Di Giacomo, del quale si fa specialmente strazio, e il cui nome quando si vede sul frontespizio di qualche libercolo o in capo a qualche articolo di giornale, ci mette subito i brividi addosso1, qui si discorre incidentalmente, e in quanto egli ebbe relazione col padre; e anche in ciò si son dette cose, per lo più, niente o poco conosciute, od almeno almeno si è procurato di non lavorare sulla falsariga altrui. La trattazione è soprattutto intorno a Monaldo. Se non altro c’è un po di novità; e in tempi in cui nel campo della letteratura è difficile imbattersi in qualche spiga che sia sfuggita alla falce de’ tanti e sì sollerti mietitori, e agli occhi e alle mani della turba infinita degli spigolatori che ci hanno preceduto, non è piccola fortuna essersi avvenuto in un cantoncello di terra poco men che vergine e intatta.2

Il libro è naturalmente diviso in due parti: Autobiografia e Appendice.3

La prima contiene quel tanto di vita che il Leopardi lasciò scritta di se stesso, e il cui originale con servasi tuttora negli archivî della famiglia in Recanati. Della sua importanza dirà altri. Io dirò solo che a me sembra nello stesso tempo storia e romanzo: tanto è varia ed utile, tanto dilettevole e grave. Se gli articoli prenominati ebbero onesta accoglienza, il merito diasi tutto all’Autobiografia. Non mi piace farmi bello delle penne altrui, perchè poi non mi avvenga come alla malcapitata cornacchia.

Se anche l’Appendice abbia qualche importanza, giudichi egli il lettore. Io non saprei. Una cosa so, ed è che non ho avuto di mira altro che la verità. Talora forse, trattandosi di certe persone e di certe cose, sembrerà che avrei dovuto usare riguardi e prudenza, più che non ho fatto. Ma dopochè tutto quanto s’atteneva a quelle persone e a quelle cose, era già stato sciorinato al pubblico, il tacerne o il dissimularlo oltre all’essere prepostero, avrebbe stuzzicata vieppiù la curiosità, e alla narrazione dato sospetto di parziale. Il perchè, fatta qualche rarissima eccezione, ho presentato le cose nel loro aspetto, facendo solo qua e là qualche leggiero smussamento. Se ciò è colpa, mi s’imponga pur la penitenza.

E poichè ci siamo messi in via di confessare, aggiungerò che ho rifuggito a tutt’uomo dall’impigliarmi in rabbiose polemiche; che non ho voluto, e forse non avrei saputo, fare sfoggio di critica; che non ho stimato di dovere infarcire le mie pagine di erudizione, se non sempre difficile a pescare, spesso non facile a smaltire. Le quali cose se presso taluno de’lettori, ove pure ne abbia, mi varranno un po’ di grazia, innanzi ad altri, il so purtroppo, mi saranno fonte di vituperio e di strapazzo. Ci vuol pazienza: ma io ho creduto di dover così fare, perchè chi amasse pascersi di pettegolezzi, di sonnecchiare sulla critica, peggio poi se alta critica, d’ingolfarsi nel pelago dell’erudizione da lessici e da enciclopedie, può ben cavarsi la voglia altrove. Ce n’è già tanta dappertutto di questa roba, e tanta ce ne piove sovraccapo ogni giorno!

Un altro peccato mi si può rinfacciare, un peccato grosso assai, che quando ci penso, mi fa proprio vergogna, ed è che il più degli articoli appariscano tirati giù con fretta manifesta e quasi abborracciati; di modo che anche senza prender la lente ed aguzzar la vista non si dovrebbe durar fatica a cogliermi in fallo qua di un’omissione od inesattezza, là d’una certa ineguaglianza di forma e di stile.

A mia giustificazione od almeno a tentar di di minuire la mia mancanza io non addurrò che le molteplici mie occupazioni non mi hanno lasciato far le cose con più agio; che la necessità di dover consegnare al direttore del periodico per quella tal setti mana, spesso pel cotal giorno la tua parte di tributo, non è davvero una benedizione per un povero figlio di Adamo, e che certe cose si fa più presto a censurarle che a farle: di tutto questo io non addurrò niente, per chè mi si potrebbe rispondere con quel signore: «Le cose si fanno, o non si fanno.» Tuttavia non dispero di ottenere un pò di venia; e a non disperar del tutto mi è cagione il considerare che non si vorrà far torto al vecchio proverbio, Peccato confessato mezzo perdonato, e che non si negherà pur di concedere qualcosa, se non altro, al mio buon volere ed a quella pazienza che nè raramente nè in piccola dose ho dovuto mettere alla prova in ricerche ed investigazioni non sempre gratissime ed efficaci.4 E siccome non c’è confessione che valga, se non vada unita a buon proposito, per un’altra volta prometto, se a Dio piace, di fare un po’ meglio, ovvero, il che è più probabile e più sano, di non far nulla, e in tal modo si schiverà il pericolo di perpetrare la colpa di crescere la mole già troppo enorme degli scritti sciamannati e fastidiosi. E con tale intesa prendo commiato.

Roma 30 maggio 1883.

Alessandro Avoli.

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  1. Non credo necessario avvertire che non intendo parlare di que’ valentuomini, non moltissimi invero, ma neppur pochi, i quali sul Leopardi hanno fatto o stanno facendo studî serî e profondi. Io dico di quella miriade di ragazzini (ragazzini d’età o d’ingegno, importa poco) che avendo sì e no lette, e Dio sa se ben intese, dieci pagine degli scritti del Poeta, vogliono subito impancarsi e farla da dottori ch’è una vera pietà: insetti molesti, della specie degli àcari, li chiamò bellamente un altro ameno ingegno, il Viani, che si appiccicano addosso ai grandi, fidando d’essere creduti quasi partecipi delle qualità loro.
  2. Di coloro che dissero qualcosa di Monaldo, si è toccato in una noterella a pagina 178. Chi più ampiamente, a mio parere, avrebbe potuto svolgere un tale argomento, era il ch. prof. Piergili. Ma egli, non so perchè, si contento di darne solo una breve Monografia nella Nuova Antologia. Il Piergili certo avrebbe fatto assai meglio che non abbia potuto e saputo io, e presso gli amatori delle cose leopardiane, che pur gli debbono tanto, si sarebbe acquistato un titolo di benemerenza maggiore, se ci avesse dato più vasto lavoro.
  3. È un’Appendice, a dir vero, curiosa alquanto: lunga molto più che l’Autobiografia. Quando vi posi mano, non mi pareva che la materia dovesse crescermi così abbondantemente tra via: se no, le avrei forse dato altro nome.
  4. Donde e come abbia tratto il più delle notizie, legga, chi n’abbia vaghezza, le poche parole premesse all’Appendice (pag. 176-78.) Per debito di grato animo qui aggiungo i nomi de’ sigg. march. Gaetano Ferrajoli e cav. Gaetano Moroni, nelle cui ricche e sceltissime biblioteche ho potuto, per loro cortesia, consultar libri e periodici che invano ho cercato altrove.

Note

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