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Luigi Alamanni - Avarchide (XVI secolo)
Canto III
Canto II Canto IV

 
Poi c’ha tutte d’intorno ogni alto duce
le sue genti ordinate a schiera a schiera,
il vecchio re dell’Orcadi, in cui luce
dell’arte marzïal la norma vera,
comandato dal re tutti conduce,
ove lassa a man dritta la riviera
del picciol Euro, in loco aperto e piano
dalle piagge e da’ fossi assai lontano.

Ivi in due parti eguai tutto divide
il numero infinito de’ guerrieri:
questi a sinistra e quelli a destra asside,
assegnando tra lor larghi sentieri
sì che ben possa chi gli regga e guide
menar per entro insegne e cavalieri;
le genti della fronte spesse e strette,
l’altre che seguon poi più rare mette.

Tra quei dinanzi pon le più lunghe aste,
nelle spalle e ne’ fianchi ancor l’istesse,
ogni scudo nel mezzo, a fin che baste
de’ primi a sostener le forze oppresse:
d’arcieri e frombator le schiere vaste,
sciolte da tutti gli altri, ha intorno messe,
poscia di cavalier distese l’ali
in ciascun corno, l’une all’altre eguali.

Fu del sinistro duce il buon Tristano,
Gaven dell’altro, e così vuole Arturo;
gli arcier, ch’erano a piede a destra mano,
guidò quel giorno il buon re Pelinuro;
Lionello, il nipote del re Bano,
menò i compagni che dall’altra furo;
della destra i cavai menò Boorte,
Maligante dell’altra, il saggio e ’l forte.

Né men di questi fuor d’Avarco venne
il fero Segurano a guerra armato,
ma divisi in tre parti i suoi mantenne,
e con ordin men saldo in ogni lato.
Sopra i primi a venir l’impero tenne
Palamede, il possente nominato,
degli altri Seguran: la terza parte
conduceva Clodin, chiamato il Marte.

Palamoro il valente in guardia avea
di tutti i cavalier le larghe torme;
Verralto della Rocca conducea
de’ pedestri leggier le varie forme.
Or l’uno e l’altro campo si vedea
con ritenuto passo segnar l’orme,
apportando ciascuno a poco a poco
al suo speranza, e tema all’altro loco.

Di barbaresche voci e stran romore
empion l’aria, venendo, quei d’Avarco:
come i gru peregrini, che l’algore
temon del verno di tempeste carco,
allor ch’a ritrovar seggio migliore
fan sopra il mare il periglioso varco,
che delle lunghe file al gridar roco
risuona intorno ogni propinquo loco.

Il contrario parea di quei d’Arturo,
che tacendo venian col core inteso
in qual guisa il ferir sia più sicuro,
e possa l’avversario esser più offeso:
quale i saggi villan, che ’l campo impuro
ch’aggia di folte spine orrido peso
voglian purgar, che disegnando vanno
di schivarse all’oprar punture e danno.

Poi sì come sovente in cima a i monti
vien nebbia folta all’apparir del giorno,
che non pon di pastor gli occhi più pronti
l’avventar d’un baston vederse intorno;
tal la polve facea delle due fronti
ch’andava al ciel tra l’uno e l’altro corno,
pria ch’arrivati sieno in quei confini
ove scorger si pon chiari e vicini.

Spinge allora animoso il gran corsiero
Clodino, i suoi lassando, e fassi avanti;
e con voce alta minaccioso e fero
dice: “Ove sono i buon guerrieri erranti
onde il Britanno mar va così altero,
né vuol che d’altro si ragioni e canti?
Vengan meco a provar se in questa parte
parco del suo valor sia stato Marte.

E quantunque avvenuto sia talora
che di noi riportate aggiano spoglie,
fortuna il fece, che i men degni onora
e che contra virtude arma le voglie;
oggi è venuta, a quel ch’io speri, l’ora
che l’infedel l’antica usanza spoglie,
e di sé lasci libera la strada
sì che solo il valor cinga la spada.

Venga chi vorrà pur degli infiniti
cavalier d’oro ornati e di splendore,
ch’io veggia a pruova se saran forniti
di virtù dentro come d’arme fuore:
che non sempre adivien che sien vestiti
d’un medesmo color la fronte e ’l core;
e venga or, perché indarno attenderei
poi che saran mischiati i buoni e ’ rei”.

Al cominciar dell’alte sue parole
l’uno esercito e l’altro il passo tenne,
dando quella udïenza che si suole
a chi dir cosa ch’assai pesi accenne:
onde a molti d’Arturo ciò che vuole
agevolmente a conoscenza venne,
ma intra i primi a Gaven, che in umil preghi
chiede al gran re ch’al suo voler si pieghi;

e che il lasci provar le forze seco,
di che molti anni pria desire avea,
dicendo: “Egli è Clodin, l’animo cieco
contra virtude e pien d’invidia rea,
che in ogni mio disegno ha sempre meco
conteso a torto: e se mi concedea
della sorella sua le nozze amate,
or saria senza sangue questa etate.

S’io d’una vostra suora, ei di Clodasso
figlio è primiero, e del suo regno erede;
non è fra tutti i suoi di valor casso,
anzi in arme adoprare a nessun cede:
tal che non può stimar più indegno o basso
l’un che l’altro di noi chi ’l dritto vede;
resta sol che chi al Ciel fia più gradito
si veggia vincitor, l’altro schernito”.

Non volse a i giusti preghi contradire
il magnanimo re, ma gliel concesse;
così lieto Gaven con molto ardire
correndo verso lui la rena presse,
e dice: “A contentar vostro desire
vengh’io con l’armi, e con le voglie istesse
ch’io veggio e sento in voi, cui tosto spero
morto o vivo tener sotto il mio impero”.

Ben conobbe Clodin l’aquila d’oro
nel campo porporin ch’avea Gaveno,
e gli risponde: “Assai di voi m’onoro,
né per sangue di me v’apprezzo meno;
ma poco apporta al marzïal lavoro
bellezza, nobiltà, stato e terreno:
io cercava un di voi più ardito e forte,
come saria Tristan, come Boorte.

Ma pur senza sdegnarvi non rifiuto
di provar chi di noi più in arme vaglia,
senza sperar, vincendo, esser tenuto
molto in pregio maggior di tal battaglia”.
Or non fu in tempo alcun già mai veduto
per gran foco avvampare arida paglia
come in quel punto d’ira il fero Orcano
ardeva, al dir del cavaliero strano;

e gli risponde al fine: “In altra parte
e innanzi a questo dì so il troppo orgoglio,
quel ch’ogni cortesia da voi diparte
come i semi miglior da’ campi l’oglio.
Voi vi fate appellar da gli altri Marte,
s’egli è vero il romor ch’udir ne soglio;
e questo baste assai per dar risposta
alla vostra vanissima proposta.

Pur, poi che ’n pregio tal vi piace averme,
patteggiamo in fra noi la nostra guerra:
che send’io vincitor Clodasso inerme
lasse in forza de’ nostri oggi la terra;
se prigioniero o morto ritenerme
vi concedesse il Ciel, quanto si serra
di qua dal nostro mar si renda a voi,
e ’n Brettagna ritorni Arturo e i suoi”.

Risponde a lui Clodino: “Il più felice
di quanti io vidi mai fia questo giorno,
se ’l medesmo giurando afferma e dice
colui ch’è sopra voi di scettro adorno:
perché in sì grave impresa a noi non lice
obligar chi ne regge a danno e scorno;
ma tengo ferma speme che ’l mio padre
mi donerà se stesso e le sue squadre.

Fate il medesmo voi, poscia si vegna,
ogni indugio lassando, tosto all’opra:
che non senza cagion voglia sì degna
avrà svegliata in noi Chi sta di sopra”.
Così posto fra loro, alla sua insegna
torna ciascuno, e quanto puote adopra
d’accordare il suo re che induca l’alma
a commetter in lui sì grave salma.

Narra al suo Segurano e Palamede
Clodino il tutto, e lor soggiugne poi:
“S’aveste, alti signor, talvolta fede
in quel poco valor che giace in noi,
o se sperate mai qualche mercede
render al sommo amor ch’io porto a voi,
fate che ’l padre mio voglia d’Avarco
sopra gli omeri miei porr’oggi il carco.

E ’l farà veramente, se v’aggrada
di dimostrargli ben quanto Gaveno
sia più nobil che forte, e la sua spada
quanto sia della mia pregiata meno;
e che per tal sicura e breve strada,
potrà in pace riporre il suo terreno,
senza mettere in rischio oggi altramente
così bella, onorata e chiara gente”.

De’ due chiari guerrier, quantunque fosse
lor la nuova richiesta acerba e dura,
quell’alto supplicar gli animi mosse,
e di lui contentar prendon la cura;
e Dinadan, che ’l primo ivi trovosse,
mandan volando nelle regie mura,
che ciò narre a Clodasso, e ’l preghi appresso
che per meglio ordinar venga egli stesso.

Ritruova il vecchio re che in alto assiso
con quei che per età non veston maglia
e con le donne intorno, a mirar fiso
stava quel che seguia della battaglia
col cor tremante e l’animo diviso
d’ogni dolcezza: e come piuma o paglia
de i venti preda al tempestoso giorno
or alta or bassa si raggira intorno;

così fanno i pensier, che tema e spene
nella canuta mente cangia e muove:
ch’or per sé la vittoria aperta tiene
come se ’l promettesser Marte e Giove,
or si dipinge aver novelle pene
simili a molti già provate altrove;
e mentre questo e quello il sana e punge
Dinadan vede che correndo giunge.

Fecesi tutto pallido nel volto,
ch’ogni sangue ch’avea ricorse al core:
e se l’altro tardava a parlar molto
quasi cadea di subito timore;
ma lieto Dinadano a lui rivolto
disse: “Ottime novelle, alto signore,
vi port’io, che ’n voi sta ch’un giorno solo
purghe il vostro terren d’ogn’aspro duolo.

La gran lite ch’aviam riposta fia,
quando non spiaccia a voi, nella virtude
del buon vostro Clodin, ch’a guerra sia
con uom ch’ha di poter le forze nude:
quest’è Gaven, che la fortuna ria
vuol ch’a suo danno s’affatiche e sude;
e se vinto sarà, promette Arturo
lassare Avarco libero e sicuro,

con tutte l’altre ville e quel paese
ch’egli ha mai guadagnato sopra voi,
e ritornarsen poscia ad ali stese
oltra il Britanno mar con tutti i suoi:
ma se ’l Cielo a Gaven sarà cortese,
e le sue stelle irate contro a noi,
che gli darete Avarco, e quanto in mano
ritenete de’ Franchi e del re Bano,

ma ciò male esser può, che quella parte
ch’aggia il dritto e ’l valor per guida e duce,
come avem noi, può camminar senz’arte,
ch’al desïato corso si conduce;
or tutti i vostri, in publico e ’n disparte,
quasi allumati dalla eterna luce,
son di stessa sentenza, che vi piaccia
venir là tosto, e ’l tutto ivi si faccia”.

L’antico re di meraviglia pieno
si fece, udendo il subito consiglio;
poi con core e con volto assai sereno
disse: “Quando a Dio piace che ’l mio figlio
porga le spalle solo, e spanda il seno
al comun peso, al publico periglio,
non andrò contro a lui, che ’ndarno adopra
chi s’oppone al voler che vien di sopra”.

Poi volto a gli scudier comanda loro
di tosto aver l’usata sua lettica,
di fuor lucente di finissimo oro
cui gran fregio di gemme a torno intrica,
dentro scolpiti di sottil lavoro,
quanti ha nel maggio fior la terra aprica;
in essa da i medesmi si fa porre,
e per compagno vuole il re Vagorre,

suo germano ed amico, a cui l’etade,
sì come ancora a lui, la guerra vieta:
d’alto consiglio e pien di veritade,
e che rado smarrì la dritta meta;
poi ratti van per le più corte strade
ove la gente sua dubbiosa e lieta
l’attendea, per veder quale il fin sia
del desïato accordo ch’era in via.

Dall’altra parte, più impedito truova
Gaveno e più spinoso il suo sentiero:
né puote argomentar sì ben che muova
Arturo a contentare il suo pensiero,
che dicea: “Quanto è impresa dura e nuova
il tutto espòr, sotto l’infido impero
di fortuna, in un sol che in un momento
sia di mille e mill’anni il frutto spento?

Pur ripensando meco ch’assai pare
il valor sembra ch’ha di voi ciascuno,
e che più accorto e di più senno appare
Gaven dell’altro, e di furor digiuno,
e che da sangue e morte conservare
tanta e tal gente col periglio d’uno
è pur cosa degnissima, e richiesta
a chi d’alta corona orni la testa;

quando a gli altri parrà, contento sono
di rimettere in voi la lite nostra,
sperando in Quel che dal celeste trono
il verace cammino a’ servi mostra,
ché non vorrà lassare in abbandono
il ben di tutti noi nella man vostra.
Parli adunque Tristan, parli il re Lago
e quei de’ cui consigli oggi m’appago”.

Allora il re dell’Orcadi risponde:
“Famoso Arturo, il più sovente Dio
nel cor de i buon con la sua gratia infonde
di ciò che può giovargli alto desio;
del contrario volere opra ch’abbonde,
cieco dell’intelletto, il crudo e ’l rio,
quale è Clodasso; e per dir vero il dico,
non per biasmare a voi chi v’è nemico:

tal ch’oltra ogni disegno nostro umano
sendo l’occasïon se stessa offerta,
devria creder ciascun che non sta ’n vano
sì breve strada a sì gran lite aperta,
e che ’l pio Redentore il suo cristiano
popol, che ’l segue per la via più certa
e ch’a ragion combatte, in guardia prenda,
non quel ch’ogn’altro e la sua luce offenda.

Poi rivolgendo gli occhi a quel che puote
nel futuro veder colui ch’è saggio,
nessuna tema l’alma mi percuote
che mi mostre in Clodino esser vantaggio,
come ancor pare a voi, ma d’egual dote
fornito appare il nobile paraggio.
Facciasi adunque, e s’aggia larga speme,
perché mezzo è prigion colui che teme”.

Il medesmo affermò Tristan, dicendo;
“Quantunque aggia più d’un che ciò potria
far non men che Gaven, pur non intendo
dirne il contrario che già detto sia;
poi son cotai che vincitore attendo
quel che più di fortuna amico fia:
ma contr’a Segurano o Palamede
vorrei più forte man, più fermo piede”.

Disse il medesmo il saggio Maligante,
Boorte e Lïonello ed altri molti;
nel campo allor, che ferme avea le piante,
già si veggion cangiar pensieri e volti:
riconfortano i vili il cor tremante,
pensando di periglio essere sciolti,
i più forti hanno invidia, sdegno e duolo
che di tanti l’onor giaccia in un solo.

Già gli araldi reali in ogni parte,
hanno a tutti silenzio imposto e pace;
già l’uno e l’altro re viene in disparte,
e di comune accordo a ciascun piace
che Gaveno e Clodin, chiamato il Marte,
debban fra lor donar certo e verace
fine alla lor quistion, prima che ’l giorno
faccia all’occaso suo fosco ritorno.

Mosse il primiero il valoroso Arturo,
e in alta voce al Ciel rivolto disse:
“Padre il cui gran Figliuolo unico e puro
avvolto in uman vel fra noi già visse,
e ritrasse nel Ciel dal centro oscuro
chi le divine membra al legno affisse,
Te chiamo testimon, per Te prometto
dal mio lato servar quanto s’è detto:

che se fia ’l tuo voler ch’oggi Gaveno
sia per man di Clodin prigione o morto,
ch’abbandonando il Gallico terreno
ratto ricercherò ’l britanno porto;
e che tutto il mio campo terrò a freno,
sì che fatto non vegna oltraggio o torto
mentre che ’l suo Clodino a guerra fia,
ma sì come un de’ miei sicuro sia.

E s’io fallassi in ciò, la Tua pietade,
che fu sempre infinita, cange stile,
e di nuda giustizia apra le strade,
facendo il mio poder negletto e vile:
e sotto forza altrui le mie contrade
sian di barbare genti albergo umìle,
e così in basso caggia ogni lor gloria
che nulla unqua di noi viva memoria”.

Dall’altra parte un sacerdote allora,
che lunghissima avea barba e capelli,
della sacrata gregge ha tratti fuora,
senza difetto alcun, due vaghi agnelli:
l’un è sembiante alla più bianca aurora,
l’altro ha più della notte oscuri i velli;
e dove è più ’l terren di polve scarco
gli pose innanzi al vecchio re d’Avarco:

che, recatasi in man la spada antica
che per memoria ancor non vuol lassare,
ove più folto lor la testa intrica
risegò il pel che fra le corna appare,
e ’l fece intorno della schiera amica
a i cavalier più cari dispensare;
indi, tenendo al Ciel le luci fisse,
in devoto sembiante così disse:

“Giove, che de’ mortali e de gli dei
padre ciascuna età verace appella,
né senza te gli effetti buoni o rei
può di lassù produrre alcuna stella;
e tu, lucente sol, che cagion sei
di cangiar le stagion di questa in quella;
e voi, notturni dei, signor di Lete
che i difetti fra noi punir solete:

siate voi testimon, servate voi
quel ch’io prometterò, che per voi giuro
che, s’oggi il mio Clodin de’ giorni suoi
vedrà in man di Gaveno il fine oscuro,
ch’Avarco e tutto quel ch’è sotto a noi
e già fu del re Ban torni d’Arturo;
e mentre il re d’Orcania in guerra fia
da gli altri miei guarrier securo sia,

e s’io gli mentirò, veder poss’io
preda questa città d’arme e di foco,
la pia consorte, i figli, il popol mio
servi de’ lor nemici in chiuso loco:
ed io fra loro in lungo essilio e rio
mi consume di doglia a poco a poco,
né ardisca a voi drizzar lamenti o preghi,
e s’io ’l facessi pur, nessun si pieghi”.

Detto così, nella sagrata gola
all’uno e l’altro agnello il ferro mise.
Il sangue in alto distillando vola
per le vene maggior ch’erano incise;
e mentre la fral anima s’invola
dalle tremanti mambra in terra assise,
con l’anfora che tiene aurata e tersa
puro ed annoso vin sovr’essi versa;

onde alcun fu ch’a rimirare inteso
divoto il Ciel pregava tra ’l suo core:
“Così veggia io di simil piaghe offeso
riversar con lo spirto il sangue fuore
chi primo avrà contra il dever disteso
il sacrilego braccio e pien d’errore
per disturbar la guerra che in un solo
la pace apporta a così grande stuolo”.

Poi che tutto ha compito il re Clodasso,
i Britanni guardando e’ suoi d’Avarco
dice: “All’albergo mio rivolgo il passo,
poi che d’ogni dever mi sono scarco:
ch’io non potrei soffrir vedermi, ahi lasso,
già di tante miserie e d’anni carco,
in sì mortale impresa e ’n tal periglio,
senza soccorso altrui, sì caro figlio”.

E chiamato Vagorre, fan portarse
nell’ombrosa lettica che gli attende,
e quanto più poteo ratto disparse
da quel loco fatal che ’l cor gli offende.
Or già si vede in mezzo appresentarse
chi del campo ordinar la cura prende,
che fu il buon Maligante e Palamede,
e ciascuno il vantaggio al suo provvede.

Fanno in prima purgar di sterpo e sasso
e per tutto adeguar l’eletto loco;
poi misuran lo spazio a passo a passo,
dividendo il confin tra ’l molto e ’l poco,
che non troppo al principio, o nel fin lasso
l’incontro sia, poi che già spento è ’l foco
che più riscalde il corso, ma in quel punto
ch’al suo sommo vigor ciascuno è giunto.

Van l’arme visitando in ogni lato,
se raddoppiata viene ove s’allaccia,
se l’elmo è fermo assai, s’egli è fidato,
se crolla in testa o se la vista impaccia;
se la maglia è ben forte, e tien guardato,
ove piastra non sia, sotto le braccia:
prendon la spada appresso, e guardan come
truovin sicure in lei le guardie e ’l pome.

Il medesmo ch’all’uom fanno al destriero,
cominciando dal piè fino alla fronte:
se ben ferrato sia, saldo e leggiero
da non gravare al gir le voglie pronte;
se ’l fren dritto di lui tenga l’impero
e non troppo s’abbasse o troppo monte,
e se ciò che ’l governa e che ’l sostiene
armato sia di fuor come conviene;

se la testa è col petto d’arme ornata
quanto è ’l bisogno e con ragione assisa,
se la sella è ben posta e ben serrata
da non temer di seggio esser divisa;
se l’una e l’altra staffa è ben locata
tra ’l lungo e ’l corto in assai forte guisa:
e van tutto guardando, come deve
chi ponga sopra sé fascio sì greve.

Poi di scudo possente a tutte prove
il petto al suo guerriero armò ciascuno:
Gaven d’oro v’avea l’uccel di Giove
in campo porporin che volga al bruno;
de’ medesmi color ch’all’aura muove
la fronte annosa, e non contenta d’uno
secol di vita, il sempre verde pino
ombreggiava lo scudo di Clodino.

Già presenta a Gaven la nobil asta
il magnanimo Arturo in tai parole:
“Bench’ad alma real senz’altro basta
la virtù sola ch’ella onora e cole,
che si dee mantener candida e casta
d’ogni difetto uman qual puro sole;
pur dirò questo ancor, che vi sovvegna
d’esser quale a tal opra si convegna:

e che in mille e mill’anni la fortuna
non vi porria trovar cagion più chiara
del nome vostro alzar sopra la luna,
e d’ornare e giovar la patria cara;
e che per vostra man serena o bruna
fia la sorte di noi, dolce od amara:
non sia ingannata in voi la somma fede
d’uom che di tanto onor vi face erede.

Gite con fermo core alla battaglia,
né lo abbasse timor, né l’alzi spene;
e doppo il primo incontro, se vi assaglia
con furïoso passo a vele piene,
sostenetevi alquanto, e non vi caglia
del vano onor che da i men saggi viene:
ma come stanco sia, pronto e leggiero
vi dimostrate allora, e prode e fero.

Movete adunque, che ’l favor divino
non v’abbandonerà, per quel ch’io spero”.
Così diceva, e già nel suo vicino
popolo esercitava il sommo impero
Tristano e Seguran, sì che ’l confino
disegnato a’ guerrier rimanga intero:
tenendo ogn’uomo a fren che innanzi gisse
per cagione schivar di nuove risse.

Fan che ciascuna parte a terra stenda
lo scudo o l’asta, per più amico segno;
né fra tutti è più alcun che ad altro intenda
ch’a veder cui di lor dimore il regno.
Questi di speme par che l’alma incenda,
quei mostra di timor non dubbio segno:
e tra lor ragionando in diversi atti
chi condanna e chi loda i giusti patti.

Poi che fu il campo vòto d’ognintorno,
questo e quel cavaliero in mezzo appare,
di sembianti colori e d’arme adorno
come d’ambo il valor si mostra pare.
I possenti corsier raspando intorno
e rimordendo il fren, non pon restare,
e i pennuti cimier che in alto stanno
minacciano al nemico o morte o danno.

Tosto che ’l marzïale alto romore
delle sonore trombe il segno diede,
l’uno e l’altro guerrier, con più furore
che ’l folgore dal ciel che i monti fiede,
va per mostrare il primo suo valore
che nell’incontro della lancia siede:
che fu cotal che in mille pezzi andaro
i tronchi al cielo, e tardi ritornaro.

Fu il colpo di ciascun sì acerbo e crudo
che i due cavalli in piè restaro a pena;
Gaven rompe a Clodin l’aurato scudo,
con assai gran periglio e molta pena:
che ’l saldo ferro, che ’l trovava ignudo,
chiara vittoria e d’ogni gloria piena
gli potea dar, s’un punto solo allora
fosse integra rimasa l’asta ancora.

Ma Clodin fere a lui la spalla destra
ove col braccio in alto era congiunta;
e gli facea nell’arme alta finestra,
se ben dritta venia l’aguta punta.
Ma la fortuna, al suo voler finestra,
la torse in fuor come fu al mezzo giunta;
ma il ferro ruppe che tenea coperto
ov’il braccial più in alto viene inserto;

e per quanto spazio quella mano
con la medesma parte ebbe impedita.
Ma l’onor, ch’ogni infermo rende sano,
alla battaglia seguitar l’invita:
trae fuor la spada, e non la trasse in vano,
che quella di Clodin vede apparita
già contra lui, che sopra l’elmo il fere
e l’ornato cimier gli fa cadere;

e fu ’l colpo cotal, che con la testa
al collo del destrier tutto piegosse,
l’altro, che ’l vede a tale, ivi non resta,
ma raddoppia a gran forza le percosse,
spesse assai più che grandine molesta
al buon villan che le sue spighe ha scosse:
ma vinto dal furor sovente falla,
e gli dà su lo scudo o su la spalla.

Ma, riprese le forze, il buon Gaveno
con quanto ha più poter ver lui s’avventa:
drizzasi al loco ove lo scudo ha meno,
e in ogni modo d’impiagarlo tenta;
e d’una punta al fine il trova a pieno
ove più l’alma avea, che gisse, intenta:
e se quel doppio acciaro era men forte
Clodin poco lontana avea la morte.

Pur no ’l difese tanto che la spada
tra le sinistre coste, che nel petto
son poste in alto, non facesse strada,
ma di picciol periglio e gran sospetto:
perché Clodin, pensando ch’ella vada
più oltre assai di quel che fu l’effetto,
non vuol perder più tempo, e pon da parte
la ragion del ferir, lo schermo e l’arte;

e qual fero leon dal cacciatore
che ferito si senta, oltra si getta,
non men che della vita, o d’altro onore
pien di caldo desio d’alta vendetta:
e senza accorgimento, a gran furore
la spada ad ambe man tenendo stretta,
di tre colpi il ferì, ma tutti in vano,
e troncata alla fin gli uscì di mano.

Né per questo restò, ma con le braccia
quanto più forte può nel mezzo il serra,
e crollando e scotendosi procaccia
dal possente corsier cacciarlo a terra.
Non sa Gaven ciò che in quel punto faccia,
ché con la spada far non gli può guerra,
e sì oppressato e cinto si ritruova
ch’arme o senno adoprar poco gli giova.

L’aspra necessità pure il consiglia
che debba usare anch’ei l’istessa forza;
e nel modo medesmo a lui s’appiglia
e di trarlo di sella assai si sforza.
L’uno e l’altro di lor lassa la briglia,
sì che ponno i destrieri a poggia ed orza
gir come aggrada lor, ma sono intenti
co i piè ferirse e co i tenaci denti.

Pur cercando le groppe rivoltarse
per ritentare al fin sorte novella,
venner di troppo spazio a lontanarse
i due buon cavalier ch’erano in sella:
né volendo, ostinati, abbandonarse
anzi con maggior possa in questa e ’n quella
parte, mentre ciascun sospinge e preme,
ristretti più che mai, caddero insieme;

e fur sì accorti allor, che nessun piede
nelle staffe di lor sospeso resta.
Né con altro romor la piaggia fiede
la quercie antica cui la scure infesta
del pastor ripercuote in fin che vede
rovinar d’alto la frondosa testa,
onde il bosco rimbomba, e n’ha spavento
ogni vicino uccello ed ogni armento;

che i due buon cavalier premon la terra,
senza vantaggio avere in quello stato:
se non che ’l destro braccio aggrava e serra
a se stesso Clodin, che da quel lato
stampò la rena, e l’altro a nuova guerra,
o fosse il suo sapere o fosse il fato,
avea la miglior man di sopra sciolta,
che gli fu nel cader ventura molta.

E perché già la spada avea gettato
fin nel primo abbracciar, che l’impedìa,
va cercando, ove l’elmo era allacciato,
s’ei potesse trovar di sciorlo via;
e quantunque di guanto ei fosse armato,
sì che la man non molto l’obbedia,
tanto va pur tentando a poco a poco
che mettea l’avversario in dubbio loco.

Ma Clodin quanto può si scuote, e muove
i piè, le braccia e l’insidiata fronte,
e se mai l’ebbe a maggior uopo altrove,
ivi tutte sue forze aveva pronte;
ma in tutto ciò di nulla mai rimuove
Gaven che si faria lo scoglio o ’l monte:
che gli slaccia al fin l’elmo, e con furore,
a mal grado di lui, gliel trasse fuore.

Ma nel tirar ch’ei fé, dal braccio sciolse,
onde il premea, Clodin, che ’l tempo vede
e con leve destrezza indi si tolse
e in un momento pur si trovò in piede:
poi con passo sollecito ricolse
la spada di Gaven che ’n terra siede.
L’altro risurge anch’ei tristo e smarrito,
che mezzo il suo sperar vedea fallito;

e tanto più che la sua spada in mano
scerne dell’avversario che l’attende
tosto il possente scudo, poi che in vano
nella pedestre pugna al collo pende,
s’adatta in braccio, e stando a lui lontano
l’elmo già di Clodin con man riprende
per le dorate fibbie onde s’allaccia,
perch’officio di spada almen gli faccia:

e s’invia verso lui con largo passo,
stimando nel suo cor vantaggio avere,
ché tosto ha rotto il brando, o ’l braccio lasso,
chi sopr’elmo ben fino e scudo fere;
e spera anco nel sangue, che già in basso
pur tra l’arme talor vedea cadere,
e non poca speranza anco gli presta
scernergli a’ colpi suoi nuda la testa.

Clodin, che nel medesmo s’accorge
e si sente le forze assai mancare,
né gran speranza alla vittoria porge
il brando, che non sa dove adoprare
(sì ben coperto il suo nemico scorge
d’arme ch’è tutta intera e senza pare):
ond’ei misura i colpi in tal maniera
che la spada ch’egli ha dimori intera.

Or mentre che fra lor girando vanno
e migliore stagion ciascuno aspetta,
Druschen, che s’assedea con quei che stanno
fuor d’ogni schiera che sia tarda e stretta,
ma che sciolti e leggier la guerra fanno
sol di fromba, di dardo o di saetta,
tra’ quali ei fu il più dotto, e fu signore
presso a Valenza, al fiume Goldamore;

non perché di Clodin pietà il movesse,
o lo scampare i suoi d’aspra ventura,
ma d’invidia compunto, infido elesse
trar con l’arco Gaveno a morte oscura:
così tacitamente l’orme impresse
per la gran calca, e quanto puote ha cura
di gire a quei d’Arturo sì coperto
che ’l disegnato colpo andasse certo.

Tosto ch’è giunto al loco disegnato,
che ’l possa rimirar di dritta parte,
la faretra prendea ch’ei porta a lato,
fabbricata in un corno con molt’arte
d’un capro alpestre in tra i gran gioghi nato
del Pireneo, che l’Aragonia parte
dal terren Gallo: e ’n cava pietra assiso
con l’istessa sua man l’aveva ucciso.

Or quella adunque, di grandezza pare
a quanto un uom le braccia stenderia,
da Conon fatta riccamente ornare
come arnese più caro si potria,
loca a’ suoi piedi; e fassi innanzi stare
gente ch’a quei di là cuopran la via
di poter lui vedere, e basso in terra,
l’un ginocchio posando, la disserra:

e ’l più saldo, pungente e duro strale
tra molti che vi son traeva fuore,
pennuto in basso di finissim’ale,
onde più dritto è l’impeto e maggiore.
Truova poi l’arco, che non ave eguale,
di fortezza infinita e di valore:
che fuor che Palamede e Segurano
ogn’altro cavaliero il tende in vano.

Questo con salda mano al mezzo prende;
indi pon dello stral la ferma cocca
su la rigida corda, e quella stende
fin che col ferro la sinistra tocca:
poi con la destra, ch’al destr’occhio pende,
doppo aver ben mirato a pieno scocca;
e con tanto furore il corso prese
ch’a mille il sibilar l’orecchie offese.

Il minacciante stral volando gìo
tra gente e gente, d’incontrar bramoso:
giunge dritto a Gaveno, a cui ferìo
la destra coscia dove periglioso
non pure è il loco, ma mortale e rio,
tra mille nervi e mille vene ascoso;
ma l’arme, e prima il Ciel, gli furo aita
ch’ei non perdesse subito la vita:

però che ’l fino acciaro assai sostenne
che non andasse il colpo adentro molto.
Fece il voler divin che ’l ferro tenne
sentier, passando, d’ogni danno sciolto.
Tosto giù il sangue sotto l’arme venne,
e di tal doglia in un momento avvolto
fu il misero Gaveno, e tanto acerba,
che non reggendo il piè cadde su l’erba.

Restò meraviglioso e sbigottito
Clodin, che ’l suo nemico a questo vede:
poi ben tosto s’accorge che fallito
avea ’l suo campo la pomessa fede.
Getta la spada in terra, e ratto è gito
là dove l’altro lamentando siede;
e come quel ch’ha pur reale il core
assai seco si duol del suo dolore,

dicendo: “Io mi vi rendo prigioniero,
che facciate di me quel ch’a voi piace
infin che si ritruovi il certo e ’l vero
dell’atto crudelissimo e fallace:
e s’io poi come giudice e severo
non fo quanto a giustizia si conface,
a voi mi voto eternamente servo,
con meno onor che fuggitivo cervo”.

Ancor volea seguir, se ’l grande Arturo
non venia ratto, e di dolor ripieno
non dicea fero e con sembiante oscuro:
“Gitene pur con la vittoria in seno
da scelerato cavaliero impuro
colmo d’invidia, d’odio e di veleno,
di fede avverso e di bontà nemico,
di tradimenti e d’ogni vizio amico”.

Così, senza aspettar risposta alcuna,
fa riportar Gaveno in miglior parte:
ove d’intorno a lui ratto s’aduna
Serbino e Pellican con la lor arte.
Taurino ancor, che ’l corso della luna
con l’altre stelle in cielo accolte e sparte
ottimamente osserva, ivi si truova,
e di quanto può in sé ciascun gli giova.

Serbin con dolce forza la saetta
tutta intera col ferro ha tratta fuore:
guardala, e di velen la truova netta,
di che prima dubbioso aveva il core;
poi la coscia disarma e spoglia in fretta
per veder ben la piaga ove dimore.
Premela intorno, e poi col ferro tenta
e di trovarne il fondo s’argomenta.

Certo, che nessun nervo offeso avìa
né infino all’osso il colpo è penetrato,
disse lieto a Gaven: “Di morte ria
non solo oggi assecuro il vostro stato,
ma pria che ’l sole a mezzogiorno sia
sarete in guisa san, che vendicato
di vostra stessa mano esser potrete
dell’oltraggio inuman che sostenete”.

E mentre ancor dicea, già Pellicano
i prezïosi unguenti ivi gli apporta:
stendegli intorno con salubre mano,
e la ferita acerba riconforta.
Taurino, al ciel mirando umile e piano,
con sacri detti ogni dolor ne porta;
indiin erboso, chiuso e fresco loco
il lasciar dalla turba lunge un poco.

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