< Avarchide
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Luigi Alamanni - Avarchide (XVI secolo)
Canto X
Canto IX Canto XI

 
Il fero Seguran con ratto piede,
poi che col suo Clodino era arrivato
ove ’l famoso Arturo in larghe prede
ha condotto Brunoro in basso stato,
al bisogno ch’avvien tosto provvede;
riconforta e rispinge in ciascun lato
quei ch’ei veda fuggirse, e ’n dolci modi
a chi gli altri sostien dà larghe lodi.

Il medesmo Clodin di far non resta,
rivolgendo il caval per ogni parte:
questi innanzi ricaccia e quelli arresta,
e che si spieghi egual l’ordin comparte.
Già rasserena il cor la gente mesta,
e le riveste il sen desio di Marte;
già il partito valor tornato addoppia
al bramato arrivar di questa coppia:

né più dolce di quella apparir suole
a i già lassi nocchier l’aura soave,
ch’han co i nodosi remi, al caldo sole,
lungamente sospinto il legno grave.
Già della fuga sua si scusa e duole
questo e quel cavalier, che l’onta pave;
ogn’uom purga se stesso e gli altri imbruna,
poi tutti insieme al fin la ria fortuna.

Ma il chiaro Seguran tutto consente,
ogni detto conferma e nullo ascolta:
ché in altra parte l’occupata mente
contra i crudi nemici avea rivolta.
Poi sprona il buon destrier dove la gente
vede più in arme lucida e più folta,
e tosto giunge ov’ il suo fato reo
gli fa incontra venire Itimoneo,

che Rifeo sacro della bella Acesta
ebbe di Somma in su l’erbosa riva.
Ferì l’asta al traverso della testa
la destra tempia, e della vita il priva.
Clodin, poi ch’ei partì, saldo non resta,
ma vicin quanto può sempre veniva,
e quasi a un tempo stesso seco uccide,
trapassandogli il cor, l’altero Ifide,

che di Alastore il biondo era figliuolo,
ove il Belgico sen la Schelda bagna.
e Brunor, che da i due va dietro al volo,
di questa vita Andremone scompagna
d’Eficle uscito, e ch’ebbe il natio suolo
ove ’l Neustrio terren vede Brettagna:
e ’l passò con la lancia ove la gola
dona vicin gli spirti alla parola.

Il gran Nero perduto, che non lunge
segue i passi di quei, truova Ippione,
e nella terza costa a destra il punge
e qual ramo abbattuto a terra il pone
ch’accusava ’l destin ch’ivi il disgiunge
dalla sua chiara e nobil regione
della ricca Lutezia, ove la Sena
d’antichi onori e di moderni è piena.

Il Selvaggio Rossan nel lato manco,
ove il loco riman d’ogni osso ignudo,
del possente Aretoo trapassò il fianco,
che no ’l poté salvar l’eletto scudo.
Cadde ivi il miserel languido e bianco,
né si mosse a pietà ’l suo fato crudo
della sposa infelice Artenopea
che ’ntra i Morini indarno l’attendea.

Doppo costui Grifon dell’Alto Passo
incontrò ’l grande Armorico Falcete,
nato non lunge all’Era, dove in basso
al suo padre ocean tragge la sete:
e d’un colpo nel cor di vita casso
nel legno il pose del nocchier di Lete.
Così d’Avarco l’abbattuta schiera
ritorna or più che mai feroce e ’ntera.

Ma non cede però dall’altra parte
d’un passo indietro il glorioso Arturo,
che col medesmo ardir, con l’istessa arte
come al suo incominciar resta sicuro
sostenendo il furor del nuovo Marte
come d’un picciol rio possente muro;
e volge il suo potere in ciascun loco
ove senta il bisogno o molto o poco.

Egli avea gran drappel sempre d’intorno
de i più famosi duci e cavalieri,
e disciolto da gli altri in ogni corno
va calcando di fuor tutti i sentieri;
e d’onde veggia uscir dannaggio o scorno
ivi addrizza spronando i colpi fieri:
e poiché l’ha ridotto al primo stato
torna il corso e la spada in nuovo lato;

sì che ’l sommo valor di Segurano,
quantunque noccia pur, non troppo sforza,
né d’Arturo e de’ suoi la pronta mano
può molto contra lui stender la forza.
L’uno e l’altro di lor sospinge in vano,
ch’eguale è d’ambedue la poggia e l’orza:
e ferendo di par ciascuna torma
non si scorge ivi piè che cangi l’orma;

in guisa che talor cruccioso il mare
veder si suol nell’orrida stagione
che di contrarie parti oda soffiare
l’austro piovoso e ’l frigido aquilone
in mezzo a i due furor saldo restare,
che quanto ha tolto l’un l’altro ripone,
ma pien di spuma al tempestoso assalto
con feroce mugir levarse in alto.

Ma poi che Seguran più d’una volta
d’oppressar l’avversario indarno tenta,
di Clodasso al parlar l’animo volta
e del pio Clitomede si rammenta:
e dove ei veggia men la schiera folta
e più largo il cammin, ratto s’avventa,
e ’n voce altera e di chiarezza piena
traversando il destriero i suoi raffrena.

Poi levata la man di pace in segno
ove Arturo vedea torna lo sguardo,
che già, per non si far di biasmo degno,
in fermar i guerrier non fu più tardo;
indi comincia a lui: “Se non sia indegno
il novel mio desire onde tutt’ardo,
poi ch’all’intera guerra oggi la fine
mostran negarne le virtù divine,

invittissimo Arturo, non vi spiaccia
ch’un de’ vostri migliori incontro sproni
a quest’arme ch’io porto, e pruova faccia
a cui Marte di noi vittoria doni;
e chi sia che de i due vinto soggiaccia
con morte o con prigion, non si ragioni
d’altro danno maggior che d’esser detto
men del suo vincitor guerrier perfetto.

E chi la palma avrà, l’arme e lo scudo
solo all’albergo suo lieto riporte,
e che ’l resto tra i suoi si torni ignudo
perché possan di lui pianger la morte,
ché non ben si convien l’animo crudo
contr’a chi giunse al fin d’umana sorte:
ma il desio di vendetta che ne preme
aggia il termine suo co i giorni insieme.

Venga dunque chi vuol fra tanti e tali
famosi cavalier d’invitto core
cui di spiegare al ciel candide l’ali
della vera virtude accende amore;
e chi desia con l’opere mortali
d’immortale acquistar fra i degni onore
non sprezze il mio chiamar, che raro è presta
così bella cagion com’oggi è questa”.

Quando ascolta il gran re l’altero invito,
con quei duci maggior che ’ntorno avea,
del cavalier che non più il core ardito
che poi pronta la mano aver sapea,
tacito resta, e sopra il verde lito
senza altrove guardar gli occhi tenea;
né gli preme il pensier nuova paura,
ma di quel che dee far dubbiosa cura.

E mentre è in tale stato, e che ciascuno
de i miglior cavalier sua voglia attende,
surge Gaven dicendo: “Se nessuno
di gir contro a costui l’impresa prende,
io, famoso mio re, sarò quell’uno
che d’intero servar la voglia intende
l’onor de’ vostri, e non fia indegna mano
d’ammorzare il furor di Segurano.

E per questa cagion forse la piaga
ond’io fui punto allor d’ascosa parte
m’ha il figliuol di Merlin con arte maga
salda in un punto e con divine carte,
per due volte mostrar che non si smaga
il valor che ministra il fero Marte;
e s’altro nuovo stral non venga ascoso,
farò il nome britanno oggi famoso”.

Poi ch’ha così parlato, altero chiede
che gli apportin la lancia, e già s’invia;
ma ’l saggio accorto re che l’ode e ’l vede
in troppo alto corruccio ne salìa,
e gli dice: “Cugin, dov’oggi siede
quel già lodato senno che solìa
esser sì largo in voi, ch’al vostro oprare
e vie più al vostro dir perduto appare?

Non v’accorgete voi, semplice, come
gite al nostro disnor con vostra morte?
Non è l’omero vostro a sì gran some,
come saria mestier, possente e forte.
Altre armi ha rotte, altre fierezze ha dome
l’invitto Segurano, e d’altra sorte
che le vostre non son, sì come mostra
con mille region la terra nostra.

Forse sperate in van che ’l crudo sdegno
che v’arma contro a lui di Claudiana
vi devesse portar con l’ira al segno
dell’alta sua virtude, a noi sovrana?
Non lascia il basso amor l’animo pregno
d’altro valor che di lascivia umana,
né scalda il suo vapor l’altero loco
in cui del quinto ciel s’accende il foco.

Pur devreste saver che Lancilotto,
che tanto più di voi nell’arme vale,
se mai seco a battaglia è stato indotto
assai gloria stimò l’essergli eguale.
Ricercar ne convien guerrier più dotto
e sostegno miglior d’un peso tale,
perch’impero o tesoro o nobiltade
non abbatte il furor di tali spade”.

Al verace parlar tosto Gaveno
il volere e l’andar tacito acqueta,
colmo di sdegno e di vergogna il seno
che ’l disegnato onor chi può gli vieta.
Ma già intorno al gran re preme il terreno
schiera di cavalier che ’n vista lieta
chiede, e per sé ciascun, d’aver l’incarco
contra ’l duce maggior di quei d’Avarco.

In tra i primi a venir fu Pelinoro,
Boorte appresso e ’l caro suo fratello
ch’avea d’ogni virtù largo tesoro,
io dico l’onorato Lionello;
Baveno, il pio cugin d’ambedue loro,
Florio il Toscan, de i Gotici flagello,
Nestor di Gave e ’l saggio Maligante
e quel del core ardito Gossemante.

Fu l’ultimo a venir pensoso e lento
di Lionese il nobile Tristano,
che quanto porta in cor più d’ardimento
tanto più ne i sembianti appare umano,
dicendo: “A chi vorrà lieto consento
che si vada a provar con Segurano;
ma quando manchi ogni altro, s’al re aggrada,
venga in rischio con lui la nostra spada”.

Quando sente il gran re la degna offerta
di tai nove guerrier che ’ntorno stanno,
de’ quai tutti ciascun l’impresa merta
senza molto timor di scorno o danno,
nella mente real dubbiosa e ’ncerta
l’abbondanza de i buoni apporta affanno,
che ben sa che d’un sol sì largo onore
dee di sdegno ingombrar degli altri il core.

E poi che i suoi pensier seco rivolse
senza risposta far tacito alquanto,
con tai dolci parole al fine sciolse
il buon voler sotto cortese manto:
“Famosi cavalieri a cui Dio volse
d’infinite virtù donare il vanto,
ma sì pari in tra voi ch’Ei sol porrìa
per discerner il più trovar la via;

per non fare a nessun di tanti offesa
e perché ’l giudicar sovente è torto,
se la sentenza mia non vien contesa
da chi veggia di me più dritto e scorto,
direi ch’a sì onorata e dubbia impresa
fortuna sia che ne conduca al porto,
e mischiando in chius’urna i nomi vostri
chi deve esser di voi la sorte il mostri.

E ’n cotal guisa oprando, non ha loco
il cordoglio d’alcun che sia schernito,
né può l’alma scaldar d’orgoglio il foco
a chi più il suo valor senta gradito;
né l’intelletto uman, che vede poco,
dalla nebbia mortal viene impedito
come in me può incontrar, quantunque a tutti
mi stringa eguale amor, secondo i frutti”.

Quando ha il suo dir finito, il buon re Lago,
ch’al principio dell’opra era arrivato,
risponde: “Alto mio re, sì come vago
degli onori e del ben del vostro stato,
dirò con umiltà ch’io non m’appago
del moderato stil da voi lodato
di porre in man di dea cieca e fallace
quello in cui tal onor per noi si giace.

Or non direste voi di mente insana
chi fabbricar cercando un regio tetto
rimettesse al voler di sorte vana
quel che dell’opra sua fosse architetto,
né si eleggesse alcun d’arte sovrana
tra i migliori appellato il più perfetto?
Quanto è poi più da dir, chi in lei ripone
il pregio d’infinite e tai corone?

Affermo io sì che i nove cavalieri
tengon d’alto valor sì ben la cima,
che non porrian fallir d’essa i pensieri
e rendesse a qual sia la voce prima:
tutti saggi al consiglio, all’arme feri,
tutti di sommo ardir ciascuno estima;
pur non si truovan mai fra noi mortali,
come mostran di fuor, le cose eguali.

Ma perché a tanto re pesar devria
un sì grave giudizio in mezzo porre,
né gli saria sentenza utile o pia
per donare ad un solo a molti tòrre,
ho pensato in mio cor quest’altra via
ch’ogni ben ne dimostra, e non s’incorre
ove invidia col tempo, ira o disdegno
possa aperto in altrui stendere il regno.

Quest’è che nell’arbitrio si ripose
de i duci e cavalier che quinci semo,
i quai con voci a tutti gli altri ascose
nell’orecchie di voi sacro e supremo
mostriam colui che l’orme valorose
al lodato sentier d’onore estremo
più degno di stampar dette il pensiero,
e secondo il dever parlarne il vero.

E così non potrà l’avversa sorte
con l’ingiusto giudizio farne oltraggio,
né d’invidia o d’amor le luci torte
discovrire o covrir l’altrui vantaggio.
Quel si può veramente appellar forte
e senza dubbio aversi ardito e saggio
ch’al pubblico stimar cotale appare,
il qual rado o non mai si vede errare”.

Così disse il re Lago, e ’l sacro Arturo
in dolcissime note gli risponde:
“Il più fido nocchiero e ’l più sicuro
che si truove al varcar le mortali onde,
solo è il consiglio d’ogni affetto puro
che nell’antico senno il cielo infonde,
e tanto è più, se in nobil alma viene,
come al buon re dell’Orcadi n’avviene.

Or senza più indugiar si metta in opra,
che non gravi al nemico la tardanza
o ch’ei possa pensar che in noi s’adopra
della palma acquistar breve speranza
perché ’l sol già inchinante si ricuopra,
a cui poco cammin per oggi avanza,
pria che ’n guerra mostrarsi, o a pena giunto
il diparta del dì l’ultimo punto”.

Fatto adunque di lor cerchio onorato
che cingeva al suo centro il re sovrano,
si movea riverente d’ogni lato
chi d’onor sta più in grado a mano a mano.
Fu ’l primiero il re Lago, e ’n non celato
suon ma con alto dir chiama Tristano;
né vi fu doppo lui del chiaro stuolo
chi nominasse altrui che questo solo:

che non pure il valor, ch’era infinito
assai più ch’in alcun ch’ivi si truove,
ma il modesto suo cor tanto gradito
ogni buon cavalier d’amarlo muove.
Or già d’alto romore il vicin lito
si sente risonar lodando Giove
che d’eleggersi un tale allumò i cori
che difendesse solo i molti onori;

e fu il grido coltal che in un momento
del fero Seguran venne all’orecchie,
che fuor si dimostrò lieto e contento
che incontra tal guerrier se gli apparecchie:
ma tale in lui la forza e l’ardimento
per mille prove omai novelle e vecchie
esser sapea, che non sicuro in tutto
si tenea della palma in mano il frutto.

Già dell’Orcadi il re con lieta faccia,
ove Arturo attendea, Tristano adduce,
che quasi un pio figliuol dolce l’abbraccia,
dicendo: “Ecco de i nostri il sommo duce.
Quanto ringrazio il ciel ch’oggi gli piaccia
di raccender per voi l’antica luce
del gran nome britanno e gallo insieme,
e di quanti son qui d’ogni altro seme!

Non si porrìa pensar parola degna
d’esser detta a Tristan per nuovo sprone,
se non che d’esser voi vi risovvegna
e del gran vostro Armorico leone,
e che di tai guerrier l’altera insegna
tutto il pregio e l’onore in voi ripone,
come in più di tutti altri ardito e forte,
per propria elezzione, e non per sorte”.

Qui finì ’l suo parlar, quando il re Lago
gli dice: “Oprate pur, caro figliuolo,
ch’ogni uom vi stimi desioso e vago
di seguir con la gloria il patrio volo,
come m’afferma il cor di voi presago
e ch’al voi nominar m’indusse solo.
Né ponete in oblio qual sempre fusse
il vostro genitor Meliadusse,

cui mille volte e mille in pruova ho visto
in battaglia di molti e ’n singulare,
e di ciascuna trar lodato acquisto
di fregiate ghirlande e spoglie rare:
sì come allor ch’ei fé doglioso e tristo
sentir di morte le punture amare
al gigante crudel della Montagna
che ’n perpetuo timor tenea Brettagna,

e quando egli scampò, ch’er’io presente,
i dieci cavalier già prigionieri
ch’eran di Pendragon la miglior gente,
presi contra il dever sopra i sentieri
da Cordipietra, che sì amaramente
ne pianse al fin con tutti i suoi guerrieri,
che fu quaranta: e tutto quello stuolo;
vietandomi il ferire, uccise solo.

Or d’un tanto troncon sì chiaro germe
devrà simile a quel producer frutto:
onde avem di veder speranze ferme
i nostri in gioia e gli avversari in lutto;
e pria ch’io senta queste membra inferme,
come fur, ritornar cenere in tutto,
potrò pur meco dir ch’anco non langue
degli antichi guerrieri il nobil sangue”.

Qui si tace abbracciandolo, e Tristano
in sembianza umilissima risponde:
“Grazie infinite al sommo Dio sovrano
rendo che ’n voi di me tal speme infonde,
invitto Arturo; e ’l prego poi che ’n vano
non la faccia cader qual secca fronde,
ma simile al desir ch’io porto in core
a questa armata man presti valore.

A voi gran re dell’Orcadi, prometto
ch’a tutto ’l mio poter del chiaro padre
seguirò l’orme ognor, con caldo affetto
d’egual mostrarmi all’opre sue leggiadre:
ma non si puote andar contro al disdetto
di Chi ne invia le sorti o illustri od atre,
tal che fia com’a lui più vegna a grado
lo smarrir o ’l trovar di quelle il guado.

Basta, che mentre avrò l’arme e la vita
in ricercare onor non sarò lasso;
e perch’io scorgo alquanto scolorita
già la luce del sol che scende in basso,
ne sforza il tempo ch’ove altero invita
il fero Seguran rivolga il passo,
senza timore aver di tal battaglia,
se ’l cielo al buon voler le forze agguaglia”.

Mentre così diceva, uno scudiero
del magnanim’Arturo, Alcandro detto,
gli presenta un fortissimo corsiero,
tra mille ch’ei ne pasce il più perfetto:
ben membruto a ragione, alto e leggiero,
d’animo invitto e fero nell’aspetto,
di candido colore, e tutto intorno
di vaghissime ruote il manto adorno.

Giunto ov’è il buon Tristano a terra scende,
et a lui reca in man l’aurata briglia:
ridente in vista il cavalier la prende,
tutto ripien di dolce meraviglia,
e grazie al suo gran re larghe ne rende
con voce umile ed inchinate ciglia;
indi al montar non mette staffa in opra,
ma d’un salto leggier gli salta sopra.

Il medesimo Alcandro gli presenta
il suo scudo maggior di sette scorze,
di così saldo acciar ch’ei non paventa
ostinato furor di umane forze:
ove il leone aurato s’argomenta
con l’unghie di mostrar ch’abbatta e sforze
ciascuno altro animal che con lui perde,
posto in seggio real di color verde.

Il fino elmo da poi sì duro e greve
ch’era troppo a ciascun, gli pone in fronte,
per la forza e per l’uso a lui sì leve
che di men non avea le membra pronte.
Sopra l’alto cimier, carco di neve
d’argentato color surgeva un monte,
nella cima del quale in più d’un loco
si vedean fiamme uscir d’ardente foco.

Porgeli i guanti, e l’asta poi sì grossa
che nullo altro dell’oste la sostiene,
fuor che sol Lancilotto, che di possa
de i miglior cavalier la palma tiene.
Prendela il buon Tristano, e poi che scossa
l’ha in giro alquanto per veder se bene
corrisponde a ragion la cima al basso,
rivolse al suo gran re la vista e ’l passo,

dicendo: “Alto signor, col voler vostro
all’impresa onorata addrizzo il piede,
in cui spero adeguar col valor nostro
quella avuta di me sì larga fede;
e s’altro non potrò, l’erboso chiostro
fia del mio sangue sì famoso erede
che non potrà mai dir che indegno fusse
il core almen del buon Meliadusse.

Così detto altamente, al gran nemico
colmo di bel desio la fronte volge.
ciascun ch’è ’ntorno dello stuolo amico
tra speranza e timor l’animo involge:
qual uom sia più tra lor nell’arme antico
e ch’ha veduto più seco rivolge
del fero Seguran, tacito in seno,
il sapere e ’l valore ond’è ripieno.

L’esperienza poi, che ’l tutto insegna,
più che nell’avversario era in lui molta,
e cangiato avea ’l core in cui più regna
il voler giovinil ch’al furor volta;
né tale era però che ’n lei si spegna
de’ verdi anni miglior la forza accolta,
ma del cerchio mortal premea quel punto
ove ’l senno e ’l vigor va insieme aggiunto.

Fu d’infinito ardir, come il mostraro
le palme innumerabili e i trofei;
orgoglioso il faceva il sangue chiaro
ch’ei pensava venir da i primi dei:
perché l’unico Febo, non pur raro,
onde il sommo Giron discese e quei
che fer poi lui, pensavan della prole
esser nati quaggiù del proprio sole.

Era il giovin Tristan dall’altra parte,
non pervenuto ancor ne i cinque lustri,
spronato da i desir che ’nfonde Marte,
e dal volere eguar gli antichi illustri.
Ben tutta conoscea la forma e l’arte
qual più deggian seguire i duci industri,
mai d’usarle sdegnava, e la virtude
sol nell’invitta spada esser conchiude.

Ma l’intrepida forza era in lui tale
che d’altrui sormontava ogni altra cura,
tanto ch’a Seguran per quella eguale
il poteva stimar, chi ben misura;
ma come sempre avvien ch’or scende or sale
in chi brama or la speme or la paura,
il britannico stuol, che ’l vede accinto,
or dell’una or dell’altra era dipinto;

e riguardando il ciel dicea: “Signore
ch’addrizzi con ragion sempre ogni torto,
rendici il pio Tristan con lieto onore,
e resti Seguran prigione o morto.
Se pur di lui pietà ti stringa il core,
non sia con onta nostra e disconforto,
e ’l devoto pregar tanto ne vaglia
che sia pari tra lor l’aspra battaglia”.

E non men di costor l’oste d’Avarco
di contrarie preghiere il ciel percuote:
pur d’assai men timor l’animo ha carco,
ché sa quanto l’Iberno in guerra puote.
Ma perché quel dell’arme è dubbio varco
troppo suggetto alle volubil ruote
della cieca fortuna e disleale,
il timor della speme aggrava l’ale;

e tanto più , che la rovina importa
di tutto insieme il perder Segurano,
perché solo è di lor sostegno e scorta
il suo lunge vedere e la sua mano:
senza le quali ogni fidanza è morta,
e lo scampo di poi s’aspetta in vano.
Così ’l soperchio pubblico periglio
no ’l lassa rimirar con lieto ciglio.

Or già in mezzo a lo spazio s’appresenta
Tristan che tra’ due campi era lassato,
ch’a Marte sembra ov’ha più l’alma intenta
d’insanguinare il braccio a guerra armato;
indi al nemico suo che no ’l paventa
appellando dicea: “Benché invitato
abbiate oggi il miglior, viene il più rio
che sia fra tutti i nostri, e son quell’io.

Ma pur, qual’io mi sia, più danno assai
che timor, Seguran potrete farmi;
e quantunque mai sempre vi pregiai
sovr’ogni altro guerrier che cinga l’armi,
non però mai formato vi stimai
oltra ’l corso mortal di saldi marmi
o d’altra tempra inusitata e nuova,
e mi fia gran piacer di farne pruova.

Or vi movete adunque, né sdegnate
un giovin cavalier tra i molti eletto:
ch’anco producer può la verde etate,
pur che non spiaccia al ciel, maturo effetto”.
Il forte Seguran, ch’altre fiate
l’avea veduto altrove giovinetto
e del padre sapea l’alta prodezza,
come il merito appar, molto l’apprezza,

e risponde: “Tristan, troppo m’aggrada
contra un tal cavalier di tal valore
e di tal nobiltà muover la spada,
e ’n nuovo rischio por l’antico onore:
però ch’anch’io per la medesma strada,
degli anni giovinetti al primo fiore,
col gran re vostro padre in pruova fui,
e qual proprio figliuol parti’ da lui.

Debb’or dunque gradir ch’avvegna sorte
ch’oggi a quella d’allor fra noi s’agguaglie:
ch’io non cerco di voi né d’altrui morte,
ma pregiato lodar delle battaglie.
Or vegniamo a veder chi sia più forte
e più salde le piastre aggia e le maglie;
e se qui dee finir la gloria nostra
o rivestirse ancor la spoglia vostra”.

Così detto, il caval pronto e leggiero
per lo spazio acquistarse indietro volta;
fa ’l medesmo Tristano, e del sentiero
poi che parte dicevole s’han tolta,
si volge l’uno e l’altro cavaliero,
e fermato lontano intento ascolta
in fin che ’ntra le orecchie gli rimbombe
desiato fremir di chiare trombe:

il qual poi che tre volte i colli e ’l cielo
di spaventoso grido avea percosso,
l’uno e l’altro di lor con sommo zelo
di sì chiara vittoria il corso ha mosso;
e féro al sol con polveroso velo
de’ bei raggi splendenti il lume scosso,
e la frondosa fronte e l’ampie spalle
mugir d’intorno alla famosa valle.

Al mezzo del cammin l’incontro duro
quanto fosse null’altro si ritruova,
e nessun è che più d’un saldo muro
pur il piede o la staffa cange o muova.
Il possente corsier che donò Arturo
al suo caro Tristan d’ottima pruova
ben parve allor, ch’e’ non si abbassa o piega
ma doppo il greve urtar più il corso spiega;

ma quel di Seguran, ch’al fiero intoppo
ha ’l vigore smarrito, il passo arresta:
e perch’al suo poter fu l’altro troppo,
nell’arenoso suol batte la testa.
Ma ’l suo signor, com’era avvinto e zoppo,
col freno e con gli spron tanto il molesta,
tanto il batte, l’affligge, punge e serra
che, mal grado di lui, l’alza da terra,

e gli grida: “O famoso mio Podargo
che di sì altere palme ho spesso cinto
quando del sangue tuo prodigo e largo
senza mai soggiacere eri dipinto,
quale or t’assal mortifero letargo
che fuor d’ogni uso tuo t’ha in basso spinto,
se allor reggesti a più feroci mani
che non porriano aver mille Tristani?”

E con tal rampognare il torna in piede,
più che mai pien d’ardir, veloce e forte;
rivolgel poscia ove il nemico vede
già pronto a ritentar novella sorte:
che poi che d’aquilon famose prede
rotte in mille tronconi in giro attorte
le due lance saliro al ciel volando,
fan l’aria lampeggiar col terso brando;

e spingendo i destrier, l’un l’altro dona
nel punto istesso e nel medesmo loco
sopra il forte elmo, ch’aggravato suona
di faville ripien di vivo foco:
e per modo a ciascun la testa intuona
di stordimento egual, che furo un poco
senza noiarse in pace, e tosto poi
ritornaro i suoi spirti ad ambeduoi,

e vergognosa in sé la coppia sente
più d’ogni creder suo forte il nemico.
Ma il fero Seguran troppo è dolente
che ’l giovine valor regga all’antico,
e diceva in suo cor: “Veracemente,
che questi il quinto cielo ebbe più amico
al primo nascer suo che ’l chiaro padre,
che pur solo abbattea le molte squadre”.

E con questo pensier più mosso ad ira
e di vittoria aver con più desio,
sopra il loco medesmo in alto tira
colpo che ben venìa spietato e rio;
ma ’l pio Tristan, ch’al suo cader rimira,
col dorato lion si ricoprìo,
sopra cui vien la spada di tal forza
ch’offese dell’acciar la quarta scorza.

Né rimase al suo scudo il resto sano,
ch’anco l’ultime tre tutte piegaro,
e sentì dentro al braccio e nella mano
l’armorico guerrier dolore amaro;
e dubita in fra sé ch’al sovrumano
poder di Seguran non fia riparo
s’altra percossa ancor simile attenda
pria che lui gravemente non offenda:

e con forza maggior che mai battesse
la siciliana incude aspro ciclopo
l’elmo di nuovo al fero Iberno presse
sì ch’averlo sì buon gli venne ad uopo;
però ch’allor senza suo danno resse
al più grave furor che prima o dopo
potesse sostenere, e mostrò in parte
quanto sia da pregiar l’incantat’arte,

che per ordin sacrato di Merlino,
col favor delle stelle, fabbricato
fu da i più dotti spiriti, e ’l ferro fino
nelle stigie riviere era temprato:
ché mentre Seguran caro vicino
della Fata del Lago in dolce stato
seco si ritrovò, quest’elmo tale
fu di lei don che mai non ebbe eguale.

Fu lo scampo di lui dunque in quell’ora,
che ’n fin sopra la sella in due diviso
il fero busto dell’Iberno fora,
ch’esser per altra man deveva anciso.
Riman tutto smarrito, e cade fuora
dell’alta sede il naturale avviso:
ma non lunga stagion, ché l’alma chiara
sforzò se stessa, di vendetta avara;

e qual nodoso ramo, uscendo fuore
dal tronco estremo e che ’l cammino ingombra,
che con ambe le mani il viatore
torce in traverso, e ’l suo passaggio sgombra,
che poi ch’è rilassato in tal furore
al seggio torna ove solea far ombra
che chi a dietro riman sì ben percuote
che mal reggersi in piè sovente puote:

tal lo spirto di lui sì basso spinto
dal possente ferir sopra il cimiero
più che fosse ancor mai d’orgoglio cinto
disdegnando risurge ardito e fero;
e ritruova Tristan che s’era accinto,
per ritrar della palma il frutto intero,
ad un colpo novel, che se ’l giungea
nel disegnato fin posto l’avea.

Ma il forte Seguran nel destro braccio,
mentre ch’alza la spada, il colpo stese,
e ’l finissimo acciar qual vetro o ghiaccio
dal taglio micidial poco il difese,
che ’ntorno si schiantò: pur tanto impaccio
diede al furor che molto non l’offese,
quantunque pur del sangue ch’indi uscìo
sopra l’arme apparisse un picciol rìo;

e la spada e la man si china a forza,
che non può contrastar, sopra la coscia:
e se non che ’l buon cor troppo si sforza
la natura cedea forse all’angoscia.
Ma il vivo spirto ogni dolore ammorza
che ’l corpo offenda, e si può creder, poscia
che rilevato il brando si riserra
verso il crudo nemico a maggior guerra;

il qual rivolto a lui: “Chiaro Tristano,
ben devreste apparar”, dicea, “per pruova
ch’al maturo valor s’oppone in vano
l’ancor giovine forza e l’età nuova;
e quanto e come alla possente mano
la lunga esperienza in arme giova,
e non basta l’ardir, s’e’ non si mesce
col senno poi, che ’l suo migliore accresce”.

Non risponde Tristan, ma d’una punta,
quanto più salda può, truova lo scudo
ove il nero dragon la lingua spunta,
tinta di verde tosco e ’n vista crudo:
passal tutt’oltra, e sopra ’l braccio giunta
trapassa il ferro come fosse nudo,
e di sangue irrigò tutto il sinestro
non men ch’ei prima a lui facesse il destro;

poi disse altero: “E Seguran comprenda
quanto al giovin poter sia il senno frale,
per saldo contrastar, ch’ei non l’offenda
ove più del saper la forza vale”.
Qual vipera mortal che ’l sole accenda
quando del suo cammin più in alto sale
si fece il cavalier mentr’ode e sente
non più il braccio impiagarse che la mente;

e con sì gran furor muove il destriero
e ’n così angusto giro l’ha rivolto,
che ’ntricandosi i piè sopra il sentiero
si truova steso, e ’n fra l’arene avvolto:
e quantunque il cadere al gran guerriero
tutto il suo destro lato offese molto,
pur l’industria e ’l valor sì ben raccoglie
che del peso ch’avea tosto si scioglie.

Ritorna in alto, e più che mai s’accinge,
richiamando il nemico, a nuova guerra:
né il cor tema gli agghiaccia o ’l volto pinge,
di gir contra un corsier soletto in terra.
Alza il percosso scudo e ’l ferro stringe,
e per la sua vendetta il passo serra;
ma il pio Tristan, come levato il vede,
con un salto leggier si mise a piede,

dicendo: “Io non so ben se ’l senno antico
mi devesse insegnar tòrre il vantaggio,
e se chi sia cortese al suo nemico
è da i vostri dottor chiamato saggio;
ma sia che vuol, che per fidato amico
più l’onor sempre che ’l profitto avraggio”.
A cui l’altro risponde: “E ben si deve,
che quel vive immortale, e questo è breve;

non intend’io, Tristan, che ’l senno mostre
altra via che di lui, ch’è ’l sommo bene:
ma che regga col fren le voglie nostre,
che non passino il fin ch’altrui conviene;
e più al giovine cor, che indarno giostre
sovente contra il cielo, e che si tiene
di sormontar cotal sotto al cui regno
non pur l’arme portar sarebbe degno;

qual v’avverrìa se ’l vostro cor credesse
potere or contr’a me gran tempo stare”.
Così dicendo, sì vicin gli presse
l’orme, che ’l può col brando ritrovare,
e con forza cotal poi l’elmo oppresse,
in cui tutto il furor volea sfogare,
che tardando lo scudo a ricoprirlo,
come il disegno fu, venne a ferirlo;

tal che, se la sua tempra era men fina,
fòra la guerra lor condotta a riva.
Squarciollo al mezzo, ma non tanto inchina
ch’offesa entro ne sia la parte viva.
Come al robusto pin la neve alpina
fa la cima avvallar di forza priva
piegò la fronte il cavaliero allora,
ma le rileva poi senza dimora;

e col proprio furor ch’orso impiagato
che addosso al cacciator rabbioso vada,
in fronte a Seguran l’istesso lato
ov’ei percosse lui drizza la spada:
ma l’altro, che ’l sentia d’ira infiammato,
ratto al greve calar chiude la strada,
l’aurato scudo suo levando in alto
contr’a chi romperia marmoreo smalto.

Ma lo spietato colpo tal discese
che per mezzo il dragon proprio ha partito,
che ’n diverse maniere, ad ali stese,
ingombrò il seno all’arenoso lito:
e ’l braccio, che di punta prima offese,
novellamente ancor restò ferito,
ma non tanto però, che le sue forze
la percossa ch’avea di nulla ammorze.

No ’l curò Seguran, ma lieto grida:
“Or sarò più leggier senz’esso incarco,
e mi basta la spada amica e fida
al securo passar per ogni varco”.
Così dicendo, il gran valor ch’annida
men che mai d’adoprar si mostra parco;
ma quanto fosse ancor più ardito e fero
verso il suo percussor calca il sentiero.

E ’l buon Tristan nell’arme si riserra,
e col cor alto alla sua gloria intende:
onde ardea più che mai cruda la guerra,
cotal l’ira e l’onor ciascuno incende.
Questi il possente scudo avea per terra,
il rotto elmo di quel poco il difende:
così tanto agguagliata era la sorte
ch’ogni uom forse di lor correva a morte.

Ma gli araldi reali, il saggio Amaso
ch’è di sangue britanno, e ’l pronto Attoro
che per Clodasso er’ivi, al duro caso
gli scettri ch’hanno in man gettan fra loro,
dicendo: “Cavalier, già nell’occaso
ha rattuffate il sol le chiome d’oro,
né conviensi a guerrier por l’arme in opra
come il notturno vel l’aria ricuopra.

Ciascuno è cavalier d’alta virtude,
l’uno e l’altro è dal ciel di pari amato:
e non vuol che ’l valor che ’n voi si chiude
sia di sì nibili alme oggi privato.
Noi comandiam ch’alle percosse crude
sia posto ultimo fin per ogni lato
con quel poter ch’avem, cui chi disdice
chiamarse disleale in guerra lice”.

A quel grave parlare il piè ritiene
e raffrena ciascun l’ira e la mano,
che san quale ha disnor chi contraviene
al pubblico vietar del re sovrano.
Or tosto d’ambedue quete e serene
si fér le menti, e ’n parlar dolce umano
l’un l’altro loda, e con amica gloria
sopra il nemico suo pon la vittoria.

Ma il chiaro Seguran seguendo poi
dicea: “Tropp’oggi ho il cor lieto e contento,
onorato Tristan, vedendo in voi
che pur non sia scemato non che spento
l’onor paterno, che tutti altri eroi
si lasciò indietro, e ch’io col piede intento
segui’ qual duce e padre, e poi col core
gli fui sempre vicin col sommo amore:

il qual vogl’io per sempre che si stenda
in voi mentre vivrò, se non vi spiace,
quantunque questa mano oggi difenda
colui che contro a i vostri guerra face.
Ma il ciel sa ben con quanta doglia offenda
il grande Arturo, e detto sia con pace
d’ogni altro re, che tutti solo eccede
di quanto al sol la pia sorella cede.

Ma seguir mi conviene ove il destino
m’ha mostrato ’l cammino e ’l troppo amore,
a cui per contrastar più che divino
valor convienne, e d’adamante il core.
Or sia che può, che nella mano inchino
lui sempre e tutti voi con sommo onore,
pregando il ciel ch’altra cagion mi vegna
di far guerra per lui di lui più degna.

E perché ’l mondo sappia ch’a battaglia
non ho per odio alcun fatto l’invito,
ma bramando provar di quanto vaglia
il guerrier ch’è tra’ vostri il più gradito,
questo aguto pugnal che rompe e smaglia
qual sia ferro più duro in alcun lito
vi prego in nome mio prendiate in dono,
con memoria immortal che vostro sono”.

Così detto gliel porge, ch’avea intorno
il ricchissimo albergo di fin oro,
di rubin tutto e di smeraldi adorno
e d’altre gemme con sottil lavoro.
Quel sembra attorto della Copia il corno,
queste i frutti ch’avea mostran fra loro;
in cui di lettre aurate scritto appare:
“Tal abbonde il guerrier di virtù rare”.

Il cortese Tristano allegro il prende,
il bel dono e ’l suo cor lodando molto;
poi la larga cintura onde gli pende
la fortissima spada s’ha disciolto,
la qual non men di quel tutta risplende
di lucente tesoro in essa avvolto,
e quanto in atto può soave e piano
all’avversario suo la pose in mano,

dicendo: “E ’n nome mio portando questa
vi potrà sovvenir che la semenza
del buon Meliadusse avrete presta
in ogni vostra altissima occorrenza
non men ch’aveste lui, se ben non resta
della infinita sua chiara eccellenza
minima dramma in lei; pur, come sia,
di potervi onorar brama ogni via”.

Così detto, si torna ove aspettato
con sommo desiderio era da tutti,
ma più dal grande Arturo, ch’abbracciato
l’ha dolcemente, e non con gli occhi asciutti,
e dice in alta voce: “O dì beato
che dell’arbor gentil sì chiari frutti
e di sì gran virtù sì raro mostro
producesti in onor del secol nostro”.

I duci, i cavalier, la plebe ignota
come a cosa immortal gli stanno intorno:
ivi s’accoglie ogni uom, lassando vòta
la piazza star tra l’uno e l’altro corno;
ogni atto, ogni suo detto ascolta e nota
e come da Pluton faccia ritorno
il miran tutti poi che dalla mano
scampato il pòn veder da Segurano.

Nella tenda real cortese il mena
Arturo, ove il dì chiaro si vedea.
Chiama Serbin, che gli saldò la vena
dal sangue che nel braccio discendea;
indi alla mensa di vivande piena
il suo caro Tristan, che non volea,
sopra la stessa sua dorata sede
con dolce forza e ’n belle lodi assiede.

Cercan gli altri poi tutti il proprio albergo,
e ’l sofferto del dì passato affanno
già con soave oblio lassansi a tergo,
poi che l’esca gioconda gustat’hanno;
indi d’arida paglia al lasso tergo
quanto più dolce pon, riposo fanno.
Il medesmo adivien dentro in Avarco
al popol d’arme e di sudore scarco.

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