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Già con le mille lingue intorno giva
e con le mille voci in alto grido
la dea veloce che col capo arriva
ov’alto abbraccia il vago empireo nido
e, dove ogni alma di speranza è priva,
col piè si posa nel tartareo lido,
e con l’ale cangianti or alta or bassa
di volar notte e dì non fu mai lassa.
Questa il danno d’Arturo, e spesso ancora
che sia morto o prigion racconta altrui,
e che sien seco poi di vita fuore
Tristan, Boorte e i miglior duci sui:
tal che veder si può sola in brev’ora
fuggir ciascuno, e non saper da cui,
di cor, di senso e di cosiglio scosso
come dal proprio folgore percosso.
e ’n fra gli altri all’orecchie era venuto
del vecchio re dell’Orcadi il romore,
che porge in altra parte fido aiuto
al sinistro suo corno, che ’l furore
mal regger può che gli è sopravenuto
di Verralto l’Ispan, ch’ogni migliore
tratto fuor degli arcier s’è innanzi spinto
e le schiere di lui n’ha intorno cinto:
le quai, nude d’un fianco di difese
d’altri simili a quelli o di destrieri,
son forzate a soffrir mortali offese,
riservando al dever gli ordini interi.
Ma il dotto vecchio in ciò mille aste prese
de’ più antichi guerrier più esperti e feri
che ritrovasse allor dall’alto lato
che dal corno ch’è a destra era guardato;
e per torto cammin più a loro ascoso
subito e d’improviso gli percuote:
tal che di sé fa il lito sanguinoso
chi non cerca al fuggir le vie più note.
Or mentre torna a’ suoi vittorioso
e gl’innalza lodando in chiare note,
vien volando Sorbante, che gli dice
la novella d’Arturo agra e ’nfelice,
e se sia vivo o morto ha posto in forse,
perché ’l peggio credea, ma dir no ’l vuole.
Senza risposta dare il buon re corse,
ché gli spirti ha smarriti e le parole,
e non doglia minor l’alma gli morse
che del morto figliuol pia madre suole;
e giugne al padiglione, ove ritruova
Serbin che di sanarlo è posto in pruova.
Or qual, pria che s’allume affatto il giorno,
il tenebroso giel l’aurora scioglie,
che rischiarar si veggion d’ogni intorno
le piagge e i colli, e rallegrar le voglie
si senton degli augei ch’al canto a torno
fan dolce risonare erbette e foglie,
e di mille bei fiori aprire il seno
si scorge al suo venir l’almo terreno;
tale ogni suo pensier chiaro diventa,
spogliato il brun nell’oscurato core.
Poi parla al grande Arturo, il qual tormenta
del raffreddato male aspro dolore:
“Non è di scettro degno chi non senta
dell’amaro talor ch’apportan l’ore,
ché questo solo i re perfetti face
e che ’l ben si conosce, e che più piace;
e tanto più che non dietro alla fronte
o in loco ove chi fugge non difende,
ma in quella parte che con forze pronte
tutto il resto ricopre e gli altri offende
v’è giunto il danno: e l’onorato fonte
dell’arte ch’al sanar le piaghe intende
qui con voi scerno, il quale ho già veduto
ritòr l’alme laggiù di grembo a Pluto”.
“Ah” - risponde il gran re - “giocondo padre,
ben rendo grazie al ciel che la viltade,
come san le nemiche e le mie squadre,
non m’han fatte lassar d’onor le strade:
ma desio forse d’opere leggiadre
oltre il dever di regia qualitade
con poca compagnia troppo mi spinse
ove il mio buon voler fortuna vinse.
Né mi duol del mio mal, né mi dorrei
d’esser per via cotal venuto a morte,
ma che per mia cagione i duci miei
sien, lassi, indotti a perigliosa sorte;
e volentier mia sorte cangerei
col famoso Tristan, col pio Boorte,
che per la mia salute in tale stato
lassai ch’io sarò sempre sconsolato.
E però prego voi, duce famoso,
che con quanti qui sono e fieno altrove
di trar quei due del loco periglioso
facciate per mio amore ultime prove:
e ’l candido stendardo, or sanguinoso,
che ’l buon re Caradosso al vento muove
non resti de’ nemici a lungo scherno
e del pubblico onor naufragio eterno”.
Così disse il Britanno, e con gran pena,
perché ’l sangue perduto e l’alta doglia
d’ardir non già, ma ben di spirto e lena
e del primo vogor le membra spoglia.
Risponde il re dell’Orcadi: “Serena
resti in voi col sperar ciascuna voglia,
ch’io ben v’obbidirò qual più si deve,
e bramate novelle avrete in breve”.
Tal parlando si parte, e con lui vanno
il cavalier Toscano e ’l buon Norgallo;
Meliasso e Mador l’istesso fanno,
e di tutti ciascun cangia cavallo,
ch’al fero battagliar sì acerbo danno
soffrir che perdonar si puote il fallo
ch’ei fero a i lor signor, ch’un sol non v’era
ch’aggia a crollare il piè la forza intera.
Così spronando insieme, molta gente
trovan dietro tornar che ’l campo lassa
per la fama del re trista e dolente,
di timor colma e di speranza cassa;
ma il saggio re dell’Orcadi altamente
va ciascun confortando ovunque passa:
“Più che mai vivo fosse è il grande Arturo,
e di mortal periglio omai securo.
Ritorniam, cari figli, alla battaglia;
ch’ora è il tempo migliore in cui si mostre
che con ragione al ciel volando saglia
il grido illustre delle glorie vostre,
e che senta il gran re che non si smaglia
il tenace valor dell’armi nostre
per breve colpo, e sopra lor non puote
la nemica fortuna o le sue ròte”.
In tai voci va innanzi, e ’ncontra molti
che d’indietro tornare hanno cagione,
ch’han le membra impiagate e stanno avvolti
di sanguinose righe su l’arcione.
Questi tutti consola, e gli ha rivolti
co’ suoi ministri al proprio padiglione,
il qual largo abbondava d’ogni aita
che convegna a curar piaga e ferita;
e ’n fra gli altri Abondano e Brallen trova
che dal fero incontrar fur posti a piede:
dà lor fresco corsiero e lancia nuova,
e d’ogni arme perduta riprovvede.
col dir da poi che in tal miserie giova
già s’avvicina dolce Palamede,
Segurano e Tristan sono e Boorte
in perigliosa ancora e dubbia sorte;
e ritruova in quel punto ch’a Tristano
il possente caval con l’empio strale
Estero ucciso avea, l’empio Germano,
sì che d’indi ritrarse arte non vale:
ma mentre tiene il grave scudo in mano
dell’offese d’ogni uom poco gli cale,
perché con quello ogn’impeto sostiene
e d’arme e di corsier che ’ncontra viene.
Par nell’alpi nevose orso selvaggio
tra cani e cacciator serrato e cinto
dritto appoggiato al più robusto faggio,
con denti ed unghie alla difesa accinto,
ch’or quel mastin che lascia il suo vantaggio
or l’ardito villano a morte ha spinto,
e ch’or quel ferro aguto ed or quell’asta
con le setose braccia or tronca or guasta.
Tale il chiaro Tristano or quello ancide,
or, ch’aggiunger non può, del destrier priva:
tal che più non si truova chi s’affide
di presso andar quanto la spada arriva,
ma con sassi e con dardi gli conquide
del dorato leon l’imagin viva
con quello alto romor che ’ntorno suona
qual or grandine folta i tetti intuona;
e ’l pensan di stancar; che potea forse,
ma con lunga stagion, loro avvenire:
e ’l scampò, che l’Iberno i suoi soccorse
e passò il suo disegno al rivenire.
Già co i buon cavalier l’Orcado accorse
gridando: “Or dee temer di mai perire
il mio chiaro Tristan mentre il suo Lago
non ha varcato ancor di Stige il lago?”
Così detto oltra passa, e col drappello
quanti intorno a lui son per terra stende:
questo cade impiagato e morto quello
e d’un colpo medesmo molti offende;
e ’n breve adopra che lo stuol rubello
ch’era pria vincitor vinto si rende,
e del cacciare altrui la primiera arte
or in tosto fuggir tutta diparte.
Non gli segue il re Lago e ’ndietro riede,
e destrier nobilissimo appresenta
al buon Tristan, che di famose prede
ebbe dove l’Alliera Era diventa
al tempo che d’Albin l’ultimo erede
e l’Alvenica prole rendé spenta
già il terz’anno davanti, e chiuse il passo
al soccorso maggior del re Clodasso.
Salta in esso Tristan, che gliel conduce
dell’Orcado il scudier, detto Alansone.
Or gli par racquistar del sol la luce,
assedendo il guerrier nel nuovo arcione,
e dice al vecchio re: “Signore e duce
foste del mio voler d’ogni stagione;
or sarete dell’alma e della vita,
ch’oggi meco riman per vostra aita”.
Mwentre parlan così, Florio rivolto
vede in contrasto rio dalla man manca
nel medesmo sentier, non lunge molto,
del lor famoso re l’insegna bianca,
e grida: “Alti guerrier, tra ’l popol folto
veggio trista crollar, qual vinta e stanca,
l’alta guida reale, e biasmo eterno
ne sarà di soffrir sì ontoso scherno”.
Così detto spronando ardito è mosso,
e di quanti altri son giunge il primiero;
e trova il valoroso Caradosso
d’aspro stuol circondato iniquo e fero:
Palamede e Safar gli sono addosso
con Matanasso e ’l perfido Agrogero,
e chi la fronte e chi le spalle offende,
chi scotendo l’insegna l’asta prende.
Del misero nocchier la vela pare
lo qual ferìo sì subita tempesta
ch’a tempo in basso non la può piegare,
ma di contrari venti in preda resta:
ch’or da poggia percossa alta gonfiare,
or dall’orza abbattuta esser molesta
si può vedere all’arbor ch’ella abbraccia
con le piaghe di cui se stessa straccia.
Il fero Palamede, in sé sdegnato
che gli contenda il ciel così bell’opra,
quanto puote il braccial del destro lato
percote ch’alla man poco vien sopra:
gettala come ramo inciso al prato,
ma Caradosso allor la manca adopra,
e con quella ritien sì ben che basta,
dell’insegna real la sacrata asta.
Torna il crudele, e quella ancora incide:
onde co’ tronchi soli il re infelice
che dalle chiare man lassi divide
l’abbraccia ancora, ed altamente dice:
“In fin che l’alma questa spoglia guide
d’abbandonar tal segno si disdice”.
Ma nella fronte Palamede il fere
e con l’asta imbracciata il fa cadere.
Pensa l’Ebrido in sé chiaro guadagno
e per sempre famoso aver quel giorno,
quando il fido Toscan del suo compagno
al soccorso arrivò di fede adorno
gridando: “Alto signor, troppo mi lagno
di ritrovarvi all’ultimo soggiorno:
ma mi consola il fin, ch’è stato in guisa
che non ne fia già mai la gloria ancisa”.
Così dicendo, corre a Palamede,
che per l’insegna aver s’inchina a terra;
e nell’elmo abbassato in modo il fiede
che con l’incarco suo tutto l’atterra.
L’altro che del caval si trova a piede,
tosto si rappresenta a nuova guerra,
e come fu leggiero a meraviglia
del Toscano al destrier prende la briglia;
e ’ntorno ad ambe mani il gira e scuote,
e per torgli ogni tempo non s’arresta:
né l’Italo guerrioer ferire il puote,
ché scudo del destrier gli fa la testa.
Pur di punta sì spesso il ripercuote
dal volto in basso in quella parte e ’n questa
che non lunga stagion durar potria,
non trovando al suo fin novella via:
ma sol con la sinistra il morso tiene,
e con la destra man ripiglia il brando
che sostenuto pria dalle catene
avea lassato gir per terra errando;
e tra ’l capo e la gola, ove non viene
l’acciaro, a fin ch’ei possa al suo comando
ben la testa crollar, gli pon la punta
ove al sommo spirar la canna spunta.
Stilla il sangue lontano, e l’arme tinge
di color porporino a chi l’offende.
Il percosso caval per doglia spinge
se stesso in alto, e dritto si distende:
poi tre volte per l’aria allarga e stringe
l’un piede e l’altro che levato pende,
indi col suo signor tutto in un monte
stampa il terren con l’impiagata fronte.
Ma perché ’l suo cader saggio antivede
il famoso Toscan rimase sciolto,
né prima in terra fu che surse in piede
di dolor, d’ira e di disdegno avvolto
e dice: “Or come mai più Palamede
potrà senza arrossir mostrare il volto
tra i miglior cavalier, s’è il maggior fallo
che si conti al guerrier dare al cavallo?
E non potreste voi, né quanti stanno
dell’Ebridi nebbiose all’aer fosco,
appagar il corsiero onde il Britanno
l’altr’ier fu largo al suo fidato Tosco.
Ma non sarà per voi minore il danno
il ritrovarse a piede in guerra nosco,
ché sol con questa man, non col destriero,
di guadagnare onor securo spero”.
Così detto s’appressa al loco dove
abbracciando l’insegna morto giace
il re famoso, e lì mirabil prove
l’uno e l’altro guerrier di nuovo face.
Questo onore e pietà, quell’altro muove
della spoglia acquistar desio rapace,
questo altezza di core e pia bontade,
quel valor naturale e feritade.
E così per cagioni assai diverse
l’uno e l’altro è magnanimo ed ardito.
Già l’Ebrido il primier, che ’l tempo scerse,
sopra la destra spalla avea ferito
il gran Toscan che mai si ricoperse,
che tanto dall’ardore ha il cor rapito
di far del suo caval vendetta chiara
ch’al danno che gli vien poco ripara;
tal che l’osso traverso, il quale appeso
co’ tenaci suoi nervi il braccio tiene,
fu di picciola piaga alquanto offeso,
e punte sopra lui le anguste vene.
Il Toscan lui percote ove sospeso
lo scudo alla sinistra in alto viene,
e per forza ch’avesse anch’ei non falla
d’esso impiagar nella contraria spalla;
e lo scudo ferrato gli divise
in fin dove a quel loco ricopria.
L’altro una punta alla visiera mise
ch’alle luci arrivar dritta venia:
ma dove ambe le ciglia in uno assise
per inarcarse poi prendon la via
giunse il colpo nel mezzo, e dentro passa
e ’l volto sanguinoso intorno lassa;
ma però che non gìo profonda molto
e che il loco per sé non è mortale,
non gli fa tanto mal, che a lui rivolto
di punta anch’ei, quanto la forza vale,
nella sinistra parte il collo ha colto
ove il più rigid’osso in alto sale:
et venne adentro assai, ma non che vaglia
a dar fine o imperdir quella battaglia.
Or così già vicin l’un l’altro vanno
che la spada al ferir non ha più loco:
pongon a i ferri man ch’al fianco stanno
con vie più periglioso e breve gioco.
In più d’un lato omai percossi s’hanno,
sì ch’al termino gir mancava poco;
ma il cvalier Norgallo, che veduto
ha l’insegna cader, quivi è venuto.
Corse con quel furor che ’l buon nocchiero
ch’aggia visto cader talor percossa
o d’austro o d’aquilon da spirto fero
la fida antenna dal sostegno scossa,
ch’or quinci or quindi va pronto e leggiero,
ora il grido adoprando or la sua possa,
in fin che risarcito o ben renduto
al suo loco primiero ha il danno avuto.
Urta col suo caval senz’altra cura
il fero Palamede, ch’a piè trova:
cadde ei riverso, e ’l non aver paura
né ’l valore infinito assai gli giova;
ma come era gravato d’armadura
di tosto rilevar si mette in prova,
con quella più snellezza che faria
battuto lioncel che sciolto sia;
e rivolto al Norgallo dicea: “Come
non vi punse vergogna d’assalire
un solo a piede, e ch’ha le forze dome
dal lungo affaticare a dal ferire,
con tal destriero? e dove or cade il nome
ch’io solea per lo mondo altero udire
del cavalier Norgallo, ch’a mie spese
ho provato villano e discortese?”
Risponde l’altro a lui: “Non sempre è l’ora
d’usar la cortesia, né in ogni parte:
ch’ove del suo signore il ben dimora
deve il guerrier leal provare ogni arte,
com’or debb’io: che ’n fin ch’io scerna ancora
l’insegne del mio re per terra sparte
per drizzarl’indi e tòrle d’altrui mano
poca cura mi fia l’esser villano;
ma doppo tale impresa in ciascun loco
spera il basso Norgallo a Palamede
di far veder che ’n questo e in ogni gioco
all’Ebrido valor di nulla cede;
e che di cortesia lo scalde il foco
quando il vuol la stagion potrà far fede,
come in più d’uno assalto mostrò assai,
ch’al suo dovuto onor non fallì mai”.
E ’n questo dir di nuovo anco l’atterra,
ma non cerca però di porlo a morte;
e ’l buon Toscano sciolto d’aspra guerra
non lassa indarno gir la chiara sorte,
ché le man porge ove negletta in terra
l’insegna si giacea priva di scorte:
e per salva condurla il passo muove,
quando nuova tempesta vien d’altrove,
ché tornato è l’ardito Segurano
con Arvino il fellone e ’l Ner perduto,
Grifon dell’Alto Passo e ’l suo Rossano,
a cui il tolto vigore è rivenuto
del colpo acerbo che dall’aspra mano
avea di Maligante ricevuto;
e de i quattro guerrier fu tal l’intoppo
ch’a due stanchi a mal sani era pur troppo.
Fu il famoso Toscan primo percosso,
che già in alto stendea la bianca insegna,
della qual resta d’improviso scosso
perché nullo ha timor ch’altri sorvegna:
e quale abeto da radice smosso
da Borea al freddo ciel, quando più regna,
per l’urto crudo del fellone Arvino
si ritrova giacer col capo chino;
e quantunque temesse, così steso
e battuto com’era, in braccio stretta
la chiara insegna, si ritrova offeso
da così grave stuol ch’a lui si getta
che sostener non può ’l soverchio peso,
e l’anima già al cor s’era ristretta
quasi per dipartirsi vinta e frale,
che ’l lodato desio seguir non vale.
Così novellamente in forza torna
il famoso stendardo a i gran nemici.
Qui dell’antico orgoglio alza le corna
e l’arme Iberne sacre e vincitrici
Seguran chiama, e di tal spoglia adorna
la man crollando ne’ suoi liti amici
della Val Bruna la impromette a Marte
con altre palme assai quivi entro sparte.
Ma allor che più si gloria alteramente
e ch’a i Britanni ancor minacce aggiunge,
ecco il fido Boorte, che già sente
de’ suoi l’angoscie e furiando giunge;
e di colpo al traverso sì possente
il braccio al predator percote e punge
che gli fece cader, ch’ad altro bada,
l’acquistato trofeo sopra la strada;
al quale il buon Toscan, che già risorge
dal tenebroso duol, vedendol presso,
quanto più tosto può la man riporge
e già spera scampar portandon’esso:
quando vien da traverso, ove non scorge,
chi l’ha più ch’ancor mai di nuovo oppresso,
ché Rossano il Selvaggio il ripercuote
sì che più rilevarsi allor non puote.
E l’avrebbe anco ucciso, se non fora
che ’l famoso Boorte, che ciò vede,
giunse al soccorso alla medesim’ora,
e ’l Selvaggio crudel su l’elmo fiede:
sì che in sella, qual fu, poco dimora,
che come il buon Toscan si trova a piede;
ma ben tosto si drizza, e ’l braccio stende,
e ’l vessillo ch’egli ha nel mezzo prende,
dicendo: “Somme grazie alla mia sorte
rendo, ch’or così a piè m’aggia sospinto,
et alla spada ascosa di Boorte
che m’ha, nol vedend’io, battuto e vinto:
ch’or mi trov’io più commodo e più forte
contra il Toscano, et al guadagno accinto
dell’onorato pregio, ch’a cavallo
era impresa impossibile acquistallo”.
E ’n questo ragionar con forza il tira
il fer Pannonio, né il Toscano il lassa:
e ’n tal modo ciascuno ad esso aspira
che la spada riman pendente e bassa.
Sol con urtarse insieme ardente d’ira
l’uno e l’altro di lor le membra allassa,
e col piede offendendosi tal volta
par la guerra fra loro in lotta volta.
Gira intorno Boorte il suo destriero
e si duol che giovar non può al Toscano,
che di due fatto essendo un corpo intero
l’un senza offender l’altro aiuta in vano.
Ma intanto il gran Norgallo cavaliero
che Seguran teneva indi lontano
fu percosso talmente al destro braccio
che gli diè per alqunto acerbo impaccio.
Così libero allor l’altero Iberno
contra il chiaro Boorte il corso move,
qual tempestoso noto a mezzo il verno
il giorno suol, che poi la notte piove;
e contra il buon Norgallo d’alto scherno
parole usando, ch’ha battuto altrove,
il percote al traverso in guisa tale
che ’n piedi il suo destrier restar non vale,
che insieme col signor si trova a terra,
e ’l sinistro suo lato sotto preme.
Ma tosto dall’incarco si disserra
di Gave il buon guerriero, e nulla teme;
e ’n verso Seguran si stringe a guerra
e di vincerlo ancor nodrisce speme,
e ’l ginocchio or trovando ed or la coscia,
gli dà spesso cagion di nuova angoscia.
Ma il forte Seguran, che d’alto fere
e ’l può in lochi impiagar troppo mortali,
sovra il lito sovente il fa cadere:
ma più tosto rivien che s’avesse ali;
pur gli manca il vigor, cessa il potere
e gli spirti già son debili e frali,
sì che non molto ancor gito saria
che morto o prigionier, lasso, venia;
perch’oltra Segurano, il Ner Perduto
et Arvino il fellon gli fan battaglia,
e Clodin già volando era venuto,
e nessuno è di lor che non l’assaglia:
e l’antica difesa e ’l saldo aiuto
ch’avere intorno suol di piastra e maglia
era mancato assai, perché ’l terreno
in più luoghi n’avea coperto il seno.
Ma Terrigano il grande e Gracedono,
Galindo e Marabon della Riviera
tutti al miser Toscano intorno sono,
e tolta gli han la candida bandiera,
e lui quasi di vita in abbandono
avea lassato la crudele schiera;
e Rossano il Selvaggio iva superbo
dell’alta spoglia e del suo danno acerbo.
Resta il Norgallo ancor sopra il destriero,
ma per tutto impiagato in cotal guisa
che dal più basso piè sovra il cimiero
ogni armadura avea da sé divisa.
Pur quanto può col buon volere intero
che dall’avversa man non sia conquisa
quella insegna real, né il suo Toscano
resti oppresso con quella, opra la mano;
ma niente era o poca, ogni sua aita,
ché in grado venne al fine esso e Boorte
che nullo han quasi più spirito e vita,
perch’ambo al dipartir cercan le porte.
Ma non essendo ancor tutta compita
in lor dal ciel la destinata sorte,
con più veloce gir che strale o vento
ricondusse Tristano in un momento;
e seco ha Gossemante il core ardito,
Blomberisse, Sicambro e ’l suo Blanoro:
ma quel di cor più acceso e più spedito
sprona il forte corsiero innanzi a loro,
e con simil furor quando ferito
si sente in caccia dal mastino il toro
urta il gran Seguran, che mal conduce
col vantaggio ch’avea di Gave il duce;
e con l’urto il ferisce nella fronte,
sì ch’esso e ’l suo destrier percosso resta,
di forza tal ch’a duro scoglio e monte
saria, come a lor fu, greve e molesta:
e qual platan maggior ch’adombre un fonte
sveglier suol da radice atra tempesta,
senza l’assalitor sentire a pena
si ritrovò disteso su l’arena.
No ’l cura più Tristan, ma il passo piega
ove scorge l’insegna in forza altrui:
et al fero Pannonio che la spiega
dà colpo fero, e non pur guarda a cui.
Cade il meschin, né di lassarla nega,
perché senso vital non resta in lui:
ché ben che fosse ancor lo spirto vivo
del movente vigor rimase privo.
Non è il chiaro Toscano in tale stato,
se bene è molto fral, che ciò non veggia,
né tanto ogni poter gli era mancato
che di tosto ritorla non provveggia.
Torna il prode Tristan dall’altro lato
là dove di Clodin la schiera aspreggia,
tutta sopra i destrier, Boorte a piede,
che come morto omai pur nulla cede;
ma in guisa di leon che fu ferito
dall’insidioso arcier, che a pena puote
reggerse in piedi, al qual cingano il lito
di robusti pastor novelle rote,
ch’or l’artiglio ora il dente adopra ardito
e sempre il più vicin di vita scuote,
tal che sol di lontan si latra e grida
ma di appressarlo poi nessun s’affida;
tale al chiaro Boorte avviene allora,
poi ch’ad altro cammin gìo Segurano.
Ma come al peregrin la chiara aurora
che smarrito si trove in lito strano,
così dolce gli vien nell’ultim’ora
il bramato tornar del pio Tristano,
il qual col minacciare a tutti face
quel ch’a schiera di storni augel rapace,
che ciascun ch’era in cerchio indi si toglie,
e diverso dagli altri il cammin prende:
e ’n tante parti il nodo si discioglie
che libero Boorte e salvo rende.
Ma il buon Tristano or questo or quel raccoglie,
e questo e quello in un momento stende
nell’arenoso sen ferito o morto,
l’un sopra l’altro gravemente attorto;
perch’oltra al popol molto e senza nome
ha impiagato in un braccio Arvino il fello
e fatto ha del destrier posar le some
a Terrigano il grande appresso a quello,
e quasi ha di Clodin le forze dome
col brando che gl’intenebra il cervello:
Galindo, Marabone e ’l Ner Perduto
quasi insieme in un fascio era caduto.
Or mentre il buon Tristan fa l’alte prove
già ritorna il re Lago e ’l figlio Eretto,
che largo il corso in quella parte muove
con onorato e nuovo drappelletto
ch’aveva in fino allor sudato altrove
contra il popolo a piede stando a petto,
Matanzo il Brun, Patride al cerchio d’oro
con Alibel di Logre e Pelinoro.
Fur quei doppo Tristan come si vede
doppo un gran terremoto ch’aggia scosso
alto edificio e che d’antica sede
per la infinita forza sia rimosso,
che ’l secondo che vien ciò ch’era in piede
di lui restato ancor non ben percosso
del tutto abbatte; e se minor ben sia
non men danno o timore al popol dia.
Così non meno intorno ebbe spavento
di lor che di Tristan la gente fera,
che si fugge indi come nebbia al vento
e lassa omai la candida bandiera.
Già ricondotto appare in un momento
ogni destriero all’abbattuta schiera,
e rimessi a caval Florio e Boorte,
come quasi furati all’empia morte.
E mal d’essi ciascun più puote aitarse,
che questo, allor che ’l crudo Segurano
col fero colpo all’improvviso apparse,
sopra l’omer sinistro cadde al piano,
sì che sempre ebbe poi le forze scarse
tutto quel lato e la medesma mano,
perché fu tratto fuor della sua sede
l’osso del braccio ch’alla spalla assiede.
Dietro anco poi dalla sua destra parte
in tra la costa settima e la sesta,
che quasi al busto umano il mezzo parte,
ebbe larga ferita e ben molesta
dall’infido Alco, che in ascoso Marte
l’insidiosa lancia ivi entro arresta:
per la qual distillò sì largo il sangue
che ne divenne al fin frale et esangue.
Ma mentre che ’l desio della vendetta,
il bellicoso ardor, l’ira e l’onore
lo scalda in mantener la spada stretta
nullo impaccio il premeva né dolore:
or raffreddato il tutto, e che l’eletta
real bandiera di periglio è fuore
e che sta in pace l’animo turbato,
sente con grave duolo ov’è impiagato,
tal che sopra il caval si regge a pena.
Il medesmo adivien di Florio ancora,
ch’ha il destro piè ferito ove la vena
di tutte altre maggior si mostra fuora:
la soleretta omai di sangue è piena,
e la pena spasmosa cresce ognora;
pur contento d’aver la cara insegna
soffra con alto cor ciò che n’avvegna:
or lassando il re Lago con Tristano
tutti gli altri compagni, ha seco solo
Patride, che reggeva il buon Toscano,
et ei Boorte suo come figliuolo.
Così sen vanno, e con parlare umano
esaltando di lor la gloria a volo
l’Orcado al suo bramato padiglione,
che poco era lontan, Boorte pone;
e mandato con Florio il suo Patride
col cavalier di Gave si discende,
e ’n man recato alle sue genti fide
di medico appellar cura si prende.
Ma perché nel passar da lunge il vide
Lancilotto, e chi sia non ben comprende,
in fin che dall’albergo ove discese
che sia Boorte pur credenza prese;
e ’l fido Galealto immantenente,
ch’era poco lontan, doglioso appella:
“Fratel” - dicendo - “la presaga mente
annunzia a’ miei pensier trista novella,
che quel sia il mio Boorte veramente
ch’appena si reggea sopra la sella,
dal compagno condotto, e sia ferito
o delle membra almen forte impedito;
e nel suo padiglione è già disceso,
ove non è il fratel, lasso, o Serbino
che possa al male onde si trove offeso
impor rimedio col voler divino.
Or se mai fusse a pietose opre inteso,
dimostratevi a lui dolce vicino,
sì che l’alta virtù dell’erbe vostre
in sì gran cavaliero oggi si mostre”.
Tosto il buon re dell’Isole lontane,
che di verace core amò Boorte:
“Non fien” -dicea - “vostre preghiere vane,
che ferma speme ho in Dio di torlo a morte”.
Indi un fascio prendeo di rare e strane
radici insieme, e di diversa sorte,
che dalle apriche piagge fortunate
di celeste possanza avea recate;
ché, se creder si debbe, ivi ne nasce
non sol per risanare ogni aspra piaga,
ma per far ritornar com’era in fasce
qual uom più curvo la vecchiezza smaga,
e ’l vogor rapportar che spira e pasce
in cui già morte con la falce impiaga,
e sì di sua ragion chiuder le strade
che perpetua a i mortai faccia l’etade;
et a lui, ch’era il re, dove s’adora
non men che in altra parte Apollo e Giove,
sacrate offerte ne faceano ognora
le genti tutte, con mirabil prove.
Così volando alla medesim’ora
il chiaro Galealto il passo muove
e dove era Boorte tosto giunge,
il qual grave dolor più che mai punge.
Come suol nell’april dolce la pioggia
venir talvolta a i verdeggianti prati
che fur, mentre che Apollo in alto poggia,
nella stagion miglior troppo assetati;
tal si feo lieto in disusata foggia
il buon re Lago e gli altri ivi adunati
intorno al cavalier, la cui gran doglia
non gli fé mai cangiar parlare o voglia:
se non che come ei vide Galealto
con lietissimo viso a sé l’accolse,
poi dice: “Or fia contento il duro et alto
cor che di sdegno il nostro fato avvolse
al vostro Lancilotto, e ’l feo di smalto
contra il dir nostro ch’ascoltar non volse,
poi che molti impiagati con Arturo
vede, e l’oste de’ suoi sì mal securo.
Or crescerà la gloria alle sue palme,
che fatto è vincitor l’empio Clodasso,
e de i Britanni omai le più chiare alme
e de i Galli e de i Franchi ha viste in basso,
l’altro stuol carco di dogliose salme
ch’ancor resta di qua dal mortal passo:
il qual sempre dirà che Lancilotto
all’estrema miseria l’ha condotto”.
Seguiva ancor, ma l’Orcado, che sente
che l’ira e ’l ragionar danno gli apporta,
ruppe il parlar dicendo: “Veramente
alla vostra salute apre la porta
fortuna omai, poi ch’alle forze spente
v’ha mandata dal ciel sì fida scorta
come il re fortunato, il cui valore
alle Parche allungò più volte l’ore.
Altra vita miglior qui il tempo chiede
che di tarde spiegar l’altrui querele”.
E Galealto allor dal capo al piede
il fa spogliar, che nulla parte cele;
indi ogni piaga sua tentando vede
non con men saggia man ch’a lui fedele:
poi con sugo ch’avea d’intorno bagna,
per cui subitamente il sangue stagna.
Appresso feo di più d’una radice,
senza chiamare alcun, minuta polve;
e posta in esse, ogni dolore elice
e ’l suo putrido umor secca e dissolve.
Poi con dolce parlar si volta e dice:
“O famoso Boorte, or che v’assolve
d’ogni periglio il cielo, a quel ch’io sento,
darò risposta al vostro pio lamento,
dicendo ch’a ragion si mosse a sdegno
il chiaro Lancilotto, avendo scorto
il superbo Gaven d’invidia pregno
col favor del suo re contr’esso sorto:
che ’n cor famoso e sovra ogni altro degno
troppo si trova aver doglia e sconforto
il fedelmente oprar, che mai non smaga,
se d’ingrato volere altri l’appaga;
né si può quando vuolsi al duro morso
con le forze richieste por la mano,
come il destrier nel suo primiero corso
il tosto raffrenar si prova in vano.
Crederò ben fra me ch’alto soccorso
si può sperar dal figlio del re Bano,
ché ’l vostro mal, la debita pietade
avrà svegliata omai la sua bontade;
et io, tornando a lui, s’ancor si trova,
qual io non credo già, d’animo duro,
m’ingegnerò con mia preghiera nuova,
con mostrargli de i nostri il tempo oscuro,
ch’omai spoglie ogni sdegno, e l’arme muova
al bisogno maggior del grande Arturo:
ch’al magnanimo spirto non s’aspetta
contra nemico tale altra vendetta.
E se ciò non potrò, tenterò poi
che col suo buon volere io vegna al meno
co’ miei guerrier, se pur mi nega i suoi,
a trarvi il mal che vi trovate in seno:
e faccia il ciel ciò che vorrà di noi,
ch’a me basta partir di gloria pieno,
e per tòr tali amici d’aspra sorte
assai dolce mi fia l’istessa morte:
perch’avvegna ora o poi, dal ciel m’è dato
di por fine alla vita in questo lido,
ché ritornar fra’ miei mi nega il fato,
come concede al nome eterno grido.
Cotale al nascer mio l’alto Nifato
predisse a i cittadin del patrio lido,
che sovra quanti avea vati e profeti
intendeva del ciel tutti i segreti”.
Allora il re dell’Orcadi l’abbraccia,
poi con tenero amor la man gli prende
e dice: “Io prego il ciel che largo faccia
delle due cose sol quella che ’ntende
al vostro onor, che d’Affrica ove agghiaccia
l’iperboreo cammin già il volo stende,
e più oltra anco andrà; ma il vostro fine
il corso agguaglie alle virtù divine.
Ma fia certo di voi bell’opra e degna
se ’l duro Lancilotto pregherete
ch’a questo uopo più grave a’ suoi sovvegna
e d’Avarco espugnar gli nasca sete,
perché si dica poi che la sua insegna
spaventata aggia sol l’onda di Lete
che senza il suo apparir già vicin’era
non men ch’oggi ne sia d’Orone e d’Era;
né stando in ozio sol voglia vedere
in periglio e ’mpiagata schiera tale.
Non può alla guerra Arturo provvedere,
col piè ferito e con dolor mortale;
non si può Maligante sostenere,
percosso anch’esso di pungente strale;
né il misero Toscano ha miglior sorte
ch’or possiate discernere in Boorte.
prendasi guardia pur che non si toglia
il poterne aiutar lo ’ndugiar troppo,
ch’un punto sol l’occasione spoglia
e ’l più veloce corso rende zoppo,
né ritorna poi indietro all’altrui voglia
ma fugge innanzi più che di galoppo:
sì che chi cura tien del miglior tempo
comince il bene oprare ognor per tempo.
E voi, per quello amor che senza pare
a lui sempre portaste, et egli a voi,
non gli lassate il cor tanto indurare
che d’onta e di dolor s’uccida poi.
Mostrategli il sentier che dee pigliare
per alzare il suo nome e salvar noi;
e so che ’l vostro dir gli fia più a grado
che d’ogni altro il consiglio unico o rado:
che nulla penetrar più adentro suole
in giovin core e di virtù seguace
che d’amico fedel dolci parole
che provengan d’amor puro e verace.
Or da voi sol, qual lo splendor dal sole,
ne può sovra arrivar salute e pace,
se vorrete, alto re, sì com’io spero,
tutto il poter di voi spiegare intero.
E se pur dentro a sé voto o promessa
gli vietasser per noi l’arme vestire,
fate ch’al men da lui vi sia concessa
la gente sua, che voi debba seguire,
come diceste, e con la vostra istessa,
che non men di valor mostra e d’ardire:
ch’io son sicuro in me che giunte insieme
faran tosto fuggir chi caccia e preme.
Poi quantunque di voi l’invitta spada,
l’animo e la virtù sia chiara molto,
fareste al nostro ben più larga strada
se dell’arme di lui veniste avvolto:
perché ’l volgare stuol sovente bada,
non men ch’all’opre, al conosciuto volto,
e voi sapete bene a che ridotto
talor l’oste d’Avarco ha Lancilotto.
Or se da voi verrà grazia cotale,
sarà per voi rinato il re Britanno,
e renderavvi onor più che mortale
come a ristorator d’ogni suo danno;
e la gloria di voi sarà immortale,
né i secoli maggior l’offenderanno.
Perché ne fia memoria in tante carte
che chi divora ogni uom non v’avrà parte”.
Qui si tacque il re Lago, e Galealto,
in cui col vero onor pietà si mesce,
risponde: “Se quel cor più che di smalto
o di tigre crudel non mi riesce,
o Lancilotto o me tosto all’assalto
potrà veder chi ’l dolor vostro accresce.
Dio vi dia larga speme”, e ’n tal saluto
al padiglion s’addrizza ond’è venuto.
Ma non molto è lontan che ’nsieme trova
con Lamoral di Gallia Persevallo,
e gli dan di pietà materia nuova,
ch’ambe feriti son sopra il cavallo.
Quel nella destra coscia si ritrova
un troncon rotto che non venne in fallo
dal fero Palamede, d’una lancia,
onde la fronte avea pallida e rancia;
il fratello è nell’omero ferito
di durissimo stral dal lato manco.
L’uno e l’altro di lor resta impedito,
e del sangue che versa afflitto e bianco.
Ratto a ’ncontrargli e doloroso è gito,
e confortando assai gli segue al fianco;
poi ritrovato il lor comune albergo
de’ due stanchi corsier gli toglie al tergo.
Poi sopra irsute pelli gli distende,
e con discreta man trae d’ambeduoi
il troncone e lo strale onde gli pende,
indi spoglia a ciascun gli arnesi suoi.
Appresso il sugo e le radici spende
come a Boorte pria; partendo poi
come il più tosto può fece ritorno
ove avea Lancilotto il suo soggiorno.