< Avarchide
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Luigi Alamanni - Avarchide (XVI secolo)
Canto XXI
Canto XX Canto XXII

 
Or mentre questi e quelli in tale stato
han l’uno stuolo e l’altro ricondotto,
già il re Rion securo era arrivato
col miser Galealto a Lancilotto;
a cui nessun narrar l’acerbo fato
non s’avea per timor l’animo indotto;
però, qual nuovo inaspettato danno,
più doglioso gli apporta e crudo affanno.

Il qual sempre restato era, dapoi
che ’l suo diletto amico era partito,
lungo l’albergo che chiudeva i suoi,
fuor d’ogni fosso in solitario lito;
or quando scorge il re, con gli altri duoi,
ch’han gli occhi molli e ’l volto sbigottito,
e ’n fra lor l’aspra soma hanno divisa,
che sia quel, ch’era in ver, subito avvisa;

e gridò di lontano: “O signor miei,
è quel che scorgo qui, l’eletto amico,
che mi renda infelici e giorni e rei,
e ’l viver, lasso, al mio voler nemico?
Deh come volentier tosto morrei
pria che risposta aver di quel ch’io dico;
ch’io so, che ’l rio destin mi pose al mondo
per non lassarmi mai tempo giocondo”.

Risponde il re Rion: “Chiaro signore,
a quanto piace al cielo a noi conviene
quetamente adattar l’animo e ’l core,
e tutto in grado aver che da lui viene;
il gran re Galealto in sommo onore
ha del mondo schivate omai le pene,
e dell’alto Motor, Fattore e duce
gode lieto or lassù l’eterna luce.

E del possente e fero Segurano,
doppo aver lui mostrata alta virtude,
ucciso fu dalla spietata mano,
che troppo gran valor per esso chiude;
e ’l lassò al fin su l’arenoso piano,
con le membra reali scarche e nude
dell’armi vostre infino ad ora invitte
in mille parti già chiamate e scritte.

E se non era ancor la chiara aita
del famoso Tristan, che non fu parco
già mai di sangue suo, d’altrui rapita
questa spoglia mortal fora in Avarco;
ma mentre in altro affar tenne impedita
la schiera Iberna e noi pietoso incarco
di lui prendemmo, e con veloce piede
qui il conduciamo all’infelice sede”.

Poi ch’ha detto così, del peso scosso
ha sé medesmo e gli altri e posa in terra
il grave scudo allor di Sinadosso,
che ’l miser Galealto ascoso serra;
mentre ch’al discoprirlo era già mosso
l’afflitto Lancilotto, in cui fan guerra
tra loro ira, pietà, sdegno e furore,
e di pari ciascun gli ingombra il core.

E poi ch’egli ha la candida bandiera,
onde celato gìa, di sopra tolta,
e l’ha squarciata in vista orrida e fera,
le braccia intorno al caro collo avvolta;
indi con voce oltra l’usato altera
in tal duro parlare al ciel si volta:
“Deh perché mi serbasti, invida sorte,
vivo a cosa veder peggior che morte?

E’ questo il ben, che alcun predetto m’ave,
che da voi mi verria, crudeli stelle?
Ch’oggi danno sì amaro, acerbo e grave
mostrate a gli occhi miei spietate e felle,
che l’incarco terren più nulla pave,
ch’a i suoi brevi desir siate rubelle;
che tanto in un sol dì gli avete tolto,
che non vi resta omai da torgli molto.

Ma se de’ miei dolor fuste sì vaghe,
perché almen non volgeste in queste membra
l’armi nemiche e le medesme piaghe,
e ’l fin ch’ogni mortale in uno assembra?
Deh come del suo mal talor presaghe
son nostre menti, ohimé? Che mi rimembra,
che all’apparir dell’alba mi destai
tutto tremante di futuri guai.

E tu spirto real, ch’or sei nel cielo,
e che del mio dolor forse hai pietade,
non ti sovvien con che fraterno zelo
del guardarti d’altrui mostrai le strade?
Dicendo, ahi lasso, e sotto ascoso velo,
per non offender tue virtù sì rade,
che devessi schivar la cruda mano
del fatale avversario Segurano?

Ma il troppo tuo valor, la troppa altezza
del magnanimo cor t’indusse a questo,
per furarmi dal mondo ogni dolcezza,
e per lassarmi a me gravoso e mesto;
ma con quel cor, che sol piacerti apprezza,
ti promett’io, s’al ciel non fia molesto,
che tu potrai veder con chiara sorte
larga di te vendetta o di me morte.

Che nessun possa dir, che Lancilotto,
doppo il crudo partir di Galealto,
non aggia o il percussore o sé condotto
sotto aspro incarco di marmoreo smalto;
che ’l fil saldar, che dalla Parca è rotto,
sol si conviene a chi ne scorge d’alto;
che nel perder gli amici a noi promette
solo i pianti, le lodi e le vendette.

Il pianto avrai ma non da gli occhi miei,
ch’al generoso spirto si disdice;
ma da chi scorgerà gli acerbi e rei
casi del popol suo morto e ’nfelice;
le lodi altri ned io donar potrei
simili a quelle ognor che canta e dice
delle bell’opre tue l’alta memoria,
ch’ovunque cinge il mare empie di gloria”.

Poi ch’alquanto è sfogato, intorno chiama
Sinadosso, Galnese e ’l re Rione,
dicendo: “A cavalier di tanta fama,
cui soggiacea sì larga regione,
per chi perfettamente il cole ed ama,
e del tutto adempir sua cura pone,
non si dee di ministro adoprar mano,
che di sangue e virtù non sia sovrano.

Però vi prego umil, per quello amore
che sì chiaro di lui vi scalda il seno,
che noi non disdegnam rendere onore,
qual più si puote, al carcer suo terreno;
che sia ridotto al pristino candore
dalla polve e dal sangue ond’egli è pieno,
da noi medesmi e nessun altro sia
in tale uficio indegna compagnia”.

Poi ch’ha finito, il nobil Sinadosso
per preghiera degli altri a lui risponde:
“Quanto pon questi duci e quanto io posso
al dever vostro e nostro corrisponde”.
Così dicendo il bel drappello è mosso
con ricche urne dorate, ove con l’onde
bagna d’Euro il ruscel l’erbose rive,
del lungo guerreggiar già fatte schive.

E dove più profonda e chiara appare,
e men rotta da’ carri e da’ destrieri,
cerca intento ciascun la sua colmare
di quelli illustri e rari cavalieri;
indi a vedergli carchi ritornare
ingombravan le vie gli altri guerrieri,
che ripien di lugubre meraviglia
alzano inverso il ciel l’umide ciglia.

Poi giunti al padiglion fra terra e sassi,
pur di lor propria man fan ricco il foco
di tronchi e frondi, che in veloci passi
hanno accolti vicin d’intorno al loco;
pendente in mezzo ov’ampio vaso stassi,
in cui givan versando a poco a poco
tra mille erbe odorifere e sacrate
l’acque dal picciol fiume ivi portate.

Al qual d’alto romor fremendo in giri
fan le montanti fiamme orrida guerra,
mentre s’ode lontano alti sospiri
muover l’onda crollante ch’ei riserra,
in fin che ’n freddo loco si ritiri
vuol Lancilotto e si ripose in terra
tanto, che ’l suo calor termine prenda,
che la man di chi ’l tocca poco offenda.

Poi sopra mensa aurata collocate
le membra quasi incognite a chi vede,
fur le spietate piaghe pria lavate,
indi il corpo real dal sommo al piede;
sì ch’all’esser di prima omai tornate
le fattezze divine, ch’eran sede
d’ogni virtù immortal, si dimostraro
come fosser giamai nel viver chiaro.

Non poté fare allor l’invitto amico,
che con grave sospir non gli parlasse:
“Ov’era, alto mio re, l’amore antico,
ch’al me sempre seguir fra noi vi trasse?
Che dal nostro comune aspro nemico
almeno a mia cagion non vi ritrasse,
dicendo: ’Or sieno in me scolpite e fisse
quelle estreme parole, ch’ei ne disse’.

Ma dove me tenea l’aspra mia sorte,
che, qual sempre solea, non v’era a lato?
Ch’a mille Seguran dava io la morte
pria che lasso vedervi in tale stato,
o che le mie giornate eran sì corte,
come a voi l’ordinò l’acerbo fato,
sì che l’uficio estremo, ch’or fo a voi,
il faceva altra mano ad ambe duoi”.

Così lasso dicendo intorno intorno
l’abbraccia e stringe a sé la chiara fronte;
indi con vel di bei trapunti adorno
per onorate man nobili e conte,
che gli fu dato in quel felice giorno,
ch’egli abbatté le forze al nuocer pronte
del fero Ancaldo, che la bionda Isotta
sotto il suo crudo impero avea condotta;

che fra mill’altri don, gli fu cortese
di questo, ch’ei vorrebbe a più lieta opra
aver servato, in cui tutto il paese
dell’armorico regno pinse sopra;
come ha nell’ocean le braccia stese,
le quali or lassi nude, or tutte cuopra,
secondo il vario corso ch’ave in cielo
la sorella di quel che nacque in Delo.

Con quel dunque l’asciuga e puro e netto
d’ogni sangue e di polve tutto il rende;
poi tra le piume stese in aureo letto
sovra fino ostro e seta, esso distende;
l’asconde appresso dal mortale aspetto
da tappeto ricchissimo, che pende
da ciascun lato, in cui varia riluce
e di gemme e di perle altera luce:

là dove il ciel pareva e le sue stelle
ben distinte fra loro ad una ad una,
poco men che le vere ardenti e belle,
quando più scarca sia la notte bruna;
ma qual regina poi tra tutte quelle,
di candidi adamanti era la luna
cinta il volto divin, che ’ntero mostra
al pio Germano ed alla vista nostra.

Questa una fu dell’onorate prede
di Lancilotto già infinite allora,
ch’a forza vincitor l’ardito piede
pose in Benicco e ne ritrasse fuora
la vaga donna d’ogni grazia erede,
di cui chiara beltà larga dimora;
la vaga Claudiana, che poi volse
rendere al padre e premio non ne tolse:

la qual diè poi Clodasso per isposa
al fero Segurano, onde alfin nacque
dell’invido Gaven la lite odiosa,
che in altrui man vederla gli dispiacque;
or poi che dalla veste preziosa
il miser Galealto occulto giacque,
dal dolore incredibile condotto
gìo da gli altri in disparte Lancilotto

e lungo il rio dell’arenoso lito
duro seggio si feo pensoso e solo;
et or prigion s’immagina, or ferito
per le sue man tra ’l suo gradito stuolo
il forte Seguran; né sbigottito,
benché gli doni al cor travaglio e duolo,
l’ha il ritrovarse allor quell’arme tolte,
che trionfare il fecer mille volte;

che s’ei fosse mestier l’andare ignudo,
per vendetta cotale anco il faria;
che ’l suo più fino acciaro e ’l forte scudo
era l’invitto ardir che ’n seno avia;
ma rampognando il sol, l’appella crudo,
che si tosto ent’a ’l mar tuffato sia;
e gli par che l’indugio di una notte
tutte le sue speranze aggia interrotte.

E mentre d’uno in altro aspro pensiero
il dolore e ’l furor la mente guida,
scorge vicino il piè sopra il sentiero
della nutrice sua famosa e fida;
questa è la sua Viviana, a cui leggiero
fu ’l vedere il cordoglio, che s’annida
nell’alma invitta e che d’altrui sien prede
l’arme incantate pria, ch’ella gli diede;

che in sollecito core avea provvisto
di quanto uopo facea nel gran bisogno:
così dove sedea pensoso e tristo,
quasi imagine appar che venga in sogno;
e ’n volto amaro e di dolcezza misto
comincia: “O figliuol mio, cui solo agogno
veder sovra il mortal lieto e contento,
qual ti affligge di nuovo aspro tormento?”

A cui rivolto il figlio del re Bano
risponde: “Or non sapete, alma nutrice,
come il brando crudel di Segurano
fosse al mio Galealto agro e ’nfelice?
Et a me molto più; ch’ogni altro invano
accidente mortal chiaro e felice
per mio restauro può venirmi omai,
ch’io non spero altro più, che tragger guai.

Ma ben bramo dal ciel per somma grazia,
che innanzi al mio morir, ch’è lunge poco,
mi faccia don ch’io renda l’alma sazia
di sua larga vendetta in questo loco,
a fin ch’or chi ne strugge e chi ne strazia
non molto il nostro mal si prenda in gioco,
e che ’l mio dolce amico intenda scorto,
che qual vivo l’amai, l’amo anco morto.

Dogliomi io ben, che delle fatai arme,
che mi venner da voi, diletta madre,
non potrò, lasso, nell’aurora armarme,
e sorta averle all’opere leggiadre;
ma sia che può; ché non potrà vietarme,
se non solo il voler del Sommo Padre,
contra il qual nulla puosse, ch’io non vada
nudo e di vetro ancor porti la spada;

ch’assai mi basta il cor, ch’io porto in seno,
e l’onore e l’amor di Galealto,
che tanto pon, ch’io non gli apprezzo meno,
ch’arme incantate, al periglioso assalto;
e se pur ne morrò; sovra ’l sereno
accolta fia dal suo Fattore in alto
quest’alma afflitta con perpetua lode,
tra ’l chiaro stuol, ch’eternamente gode”.

Tal dice Lancilotto, a cui rispose
la nobil donna del famoso Lago:
“Il grave duol delle avvenute cose
vi fa di lamentar soverchio vago;
né ben conviene a menti gloriose
d’alcun futuro mal l’esser presago,
ma il passato soffrir costante e forte,
sperando all’avvenir più amica sorte.

Né temer già devreste, ov’io mi trove,
che vi mancasser mai l’armi pregiate,
né per vostra salute aite nuove,
onde al sommo d’onor salir possiate;
che com’io intesi l’infelici prove
di Galealto e come restavate
del ferro privo, ond’io vi feci adorno
quando varcaste il mar nel primo giorno;

tosto all’oscura tomba, dov’io tegno
l’incantator Merlino a me suggetto,
n’andai pregando, che voi fesse degno
d’altro acciar rivestire e più perfetto;
et ei, ch’ancor per me soggiace al regno
cieco d’amor, col più benigno aspetto,
che faceste ancor mai, mi disse: ’Donna,
che sete a’ miei pensier ferma colonna;

egli è gran tempo omai, che le mie carte,
e gli spirti miglior, che meco stanno,
mi mostraro e narraro a parte a parte
il presente di voi caduto danno,
perch’io fei fabbricar con divina arte
arme celesti, che virtude avranno
sopra quante mai furo e di beltade
non vide a loro eguali alcuna etade.

E nel nobile scudo fei scolpire
di Lancilotto poi la larga prole,
che dee di tempo in tempo riuscire
alta e famosa ovunque allume il sole,
perch’ei possa per lor gli sdegni e l’ire
temprar mirando e ciò che pesa e duole
far leve e lieto e ’l mal presente oscuro
rischiarar con l’onor ne’ suoi futuro.

Or le prendete adunque e dite a lui
che non gli può mancar chiara vendetta;
ché fia cotal, ch’ogni alta gloria altrui
s’udirà al par di lei, bassa e negletta;
e si conforti in contemplar de’ sui
la regia stirpe, dalle stelle eletta
per alzar con la spada e col consiglio
al quinto e sesto ciel l’aurato giglio’.

Così dicendo allora il gran profeta
il desiato don mi pose in mano;
et io quanto esser puosse di ciò lieta
grazie gli rendo con sembiante umano;
e volando ove l’aria è più quieta,
e ’l seren dalle nubi più lontano,
quale il fulgure ardente in basso cade,
ho segnato al venir l’altere strade.

E per quant’io v’apprezzo e per suo nome
con tutto il mio desir grazia vi chieggio,
che del passato omai le dure some
scarcar vi piaccia e non temer di peggio;
ché se ben pria che ’mbianchin queste chiome,
il vostro ultimo fin venuto veggio,
sarà con tale onor quel breve tempo,
ch’assai dolce vi fia partir per tempo.

Ma se voleste voi restando in pace,
dentro al patrio terren menar la vita,
trapassar si porria quel che vi face
di questi anni la via corta e spedita;
ma cercando d’onor l’accesa face,
come il vostro volere ognor v’invita,
me lasserete e i vostri in larga doglia,
richiamando di voi la sciolta spoglia”.

Così diceva e ’l fero Lancilotto
risponde: “Assai mi fia, madre pietosa,
che ’l cielo infino a qui m’aggia condotto,
s’io posso vendicar la morte odiosa
del caro amico e poi mi spinga sotto
là, dove ogni mortal perpetuo posa;
e di vita aggia un’ora questa salma,
pur che viva in onor poi sempre l’alma”.

Qui si tacque egli ed ella oltra seguendo
gli dice: “Poi ch’a voi questo non piace,
col voler di lassuso in grado il prendo
presta al tutto soffrir col core in pace;
e ’l ferro invitto in poter vostro rendo,
ché sia al chiaro desir guida verace;
e così ragionando stende a terra
l’arme, cui simil mai non scese in guerra.

Quando venne al buon duce lo splendore
a percuoter la vista, che l’abbaglia,
sentì tanta dolcezza il tristo core,
che in estrema allegrezza se ne saglia;
e più raccresce in lui l’ardente amore
di tosto ritrovarse alla battaglia;
e tutte ad una ad una in man si prese
le parti altere del celeste arnese.

Guarda l’elmo onorato, ove il cimiero
d’una crinita stella ardea d’intorno
di bel piropo, ch’avanzava il vero
quando il ciel più seren si mostre adorno;
allor che minacciar provincia o impero
di danno intende o di novello scorno,
ché ’l popol tra temenza e meraviglia
alza divoto al ciel l’umide ciglia.

La pesante corazza appresso prende,
che di finissim’oro ha largo fregio,
in cui davanti un sol lucido splende
di fiamme avvolto di colore egregio,
e i raggi ardenti d’ogn’intorno stende
tra carbonchi e topazi d’alto pregio,
e sì vaghi al mirar, che mostran bene,
che da divin martel tal’opra viene.

Tutte l’altre arme poi, che son difesa
delle braccia e del resto infino al piede,
con mente allegra e di dolcezza accesa,
qual desiato don, meneggia e vede;
e l’apprezza cotal, che non gli pesa,
ch’or sia dell’altre Segurano erede;
ché tanto a queste son le prime eguali,
quanto son le terrene alle immortali.

Poscia il brando celeste in mano ha preso,
e del foder gemmato ha tratto fuore;
troval di tempra tal, che mal difeso
ogni incanto saria dal suo furore;
né di lui si spaventa al grave peso,
cui non men convenia, che ’l suo valore;
e già vorria vicin, com’ha lontano,
il crudele avversario Segurano.

Il duro scudo alfin possente e greve
con ardente desio leva da terra,
com’un altro faria la scorza leve
d’arido salcio, ch’Aquilone atterra;
in cui di fino acciar cerchio non breve
cinque scorze durissime riserra,
le quai regger porrien contra le prove
delle folgori asprissime di Giove.

Dentro d’argento e d’or tutte coverte
eran le ornate pelli, onde s’appende
al collo o al braccio, dove a guerre incerte
di lancia o spada il cavaliero intende,
con fermissimi chiodi in esso inserte,
e di ciascun de’ quai la fronte splende
di rubin, di diamanti e di zaffiri
da abbagliare il veder di chi gli miri.

Di fuor sovra l’acciar commessa d’oro
guarda la stirpe sua l’altero duce,
distesa intorno in sì sottil lavoro,
che bisogna al mirar del sol la luce;
ivi son quei miglior, che primi foro,
i quai virtude invitta riconduce
alla insegna real del giglio aurato,
per difetto d’altrui già in basso stato.

Ivi scorgea ne’ suoi gli eterni onori,
e le chiare opre loro al mondo sole;
né pure in Gallia i guadagnati allori,
ma i Germani anco, ove men scalda il sole,
congiunta co’ più illustri imperadori
di tempo in tempo la felice prole;
ma poi ch’al regno Sassone discese,
ritornò in Gallia al suo natìo paese.

Alto apparia ’l magnanimo Ruberto,
che del famoso Angiero scettro avea,
in arme, in senno ed in valore esperto
sì, che i crudi vicini a fren tenea,
e ’l popol lasso e de’ suoi beni incerto
col medesmo suo sangue difendea;
che liberando quel d’acerba sorte,
trionfò de’ Normanni con sua morte.

Indi il minor Ruberto d’esso usciva,
che regnò tra ’l Pirene e la Garona,
e ’l saggio Odon, che per bontade schiva
dell’onorata Gallia la corona;
ma non già quel, che la quieta Uliva,
per acquistar cipresso n’abbandona;
ché mantenendo il pria gustato onore,
lungo il fertil Sesson tra l’arme muore.

Di cui giovin rimaso il grande Ugone
contra i nemici suoi fu ardente foco;
ch’ora al gallico re temenza pone
dispogliandol talor di più d’un loco,
or gastigando il rio cognato Otone,
ché ’l legame del sangue stimò poco,
quando al Neustrio terren la chiara Sena
feo del sangue German vermiglia e piena.

Di costui nato poscia Ugo il secondo
che ’l popol per onor Capeto appella,
ch’ebbe il destin più amico e più giocondo,
e più cortese in ciel ciascuna stella,
lì si vedea; ch’all’affannato mondo
riportava l’età fiorita e bella,
levando i gigli d’or negletti e bassi,
colpa de’ suoi rettor di virtù cassi,

degenerato essendo il divin seme
del glorioso erede di Pipino
doppo il volger duo secoli e che preme
con loro il terzo al mezzo suo cammino.
E quale al freddo ciel nell’ore estreme
porta dolce restauro nel mattino
il risurgente sol, non punto meno
venn’ei bramato al gallico terreno:

ma perché rare volte o mai non viene,
che sia in ciascun mortale il veder sano,
ivi era sculto come a lui conviene
muover contra i più rei l’arme e la mano;
abbatte il Lotteringo e ’n vita il tiene
con la sposa e i figliuoi cortese e piano,
poi tra ’l popol miglior di lui contento
prende il reale scettro e ’l sacro unguento.

Poi nell’anno secondo fa il figliuolo
Ruberto coronar, lui vivo ancora,
per far lieto di quel l’amico stuolo,
che ’n gelosa temenza ne dimora;
questi il sommo Fattor dell’alto polo
con sì devoto cor mai sempre adora,
ch’al buon popol fedel fu vero essempio
di coltivar di Dio l’eletto tempio.

Doppo costui venia chi ’l chiaro nome
tra ’l legnaggio real primiero porta,
ch’oggi sostien d’onor famose some
et a chi spira al ciel si mostra scorta;
fu questi Enrico, che le forze ha dome
al Normanno drappel, ch’alla via torta
trasse la spada indarno e cinse l’elmo
contra il duce illustrissimo Guglielmo.

Del medesmo seguir gli alti vestigi,
giunta alla sorte lor la virtù vera,
gli onorati Filippi e i gran Luigi
potean vederse in gloriosa schiera,
l’un doppo l’altro; in cui gli oscuri stigi
non potero adombrar la fama altera,
come roder del tempo i crudi tarli
non potero il valor de i quattro Carli.

Lì si scerne in Valese e in Orliense
il sacro arbor real con sommo onore
i rami avere e le sue frondi estense,
poi riducerle in sé con chiaro amore;
quelle in Filippo il settimo, che spense
più d’una volta l’anglico furore,
queste in Luigi l’ultimo, ch’a freno
tenne primier l’Insubrico terreno;

de i buon duci del qual mostrava uscire
la famosa ava sua, qual certa erede;
e chi a gran torto gliel volea disdire
menar prigion tra le famose prede,
e più volte calcar con molto ardire
l’alpi nevose altissime si vede,
or contra il chiaro Veneto, or per torre
le discordie a Liguria e ’n pace accorre.

Di sacra maestà la fronte cinta
si vedea doppo lui giungere al regno
il gran genero suo; quel che l’estinta
bontà ridusse al pria lassato segno;
quel ch’ogni alta virtù già in terra accinta
per fuggirse da noi per giusto sdegno,
con le bell’opre sue quaggiù ritenne,
e lieta e felicissima mantenne.

Il celeste Francesco era costui,
che del nome onorato fu il primiero,
come il primiero ancora appar de’ sui
di valor, di bontà, d’animo altero;
ivi il saggio Merlino avea di lui
più che d’ogni altro bel pinto l’impero;
e di più dotta man più bei colori
adombravano iv’entro i rari onori.

Vivo ancor l’alto suocero, apparia
scacciar sovente le nemiche squadre;
e mentre la sua vece sostenia,
fare in consiglio e in arme opre leggiadre;
né pur la gioventù, ch’allor fioria,
ma l’età ferma ed ogni antico padre
nel senno e nel valor di sì bell’alma
del suo verde sperar locò la salma.

Giunta poi la stagione, ove il ciel volse,
poi ch’al quarto suo lustro era il natale,
porlo al gallico impero e ’n man gli accolse
degli indorati fior l’asta reale;
il magnanimo re l’arme s’avvolse,
e del chiaro desio spiegando l’ale,
per non lassar de’ suoi l’antica forma,
nell’italico seno stampò l’orma.

Lì si scorgea per lui l’Elvezio, invitto
giudicato dal mondo infino allora,
con le dure falange essere afflitto
e di vita e d’onor privo in un’ora;
ché difendendo il mal negato dritto
di chi Eridan, Tesino ed Adda irrora,
l’altrui gran torto e ’l suo voler superbo
ebber qual convenia lor fine acerbo.

E ’l famoso Francesco in arme fero,
come in pace a’ miglior soave e piano,
di Marte esercitando il sommo impero
ben mostrava d’ogni altro esser sovrano;
ch’or questo suo stancando, or quel destriero,
or’ ch’avea ’l piè da lunge, or prossimano
or d’una schiera, or d’altra, or prima , or dopo,
come al bel guerreggiar veniva da uopo.

Né appresso il faticar di quanto è ’l giorno,
si rivedea la notte essere in posa;
ma col ferro real tra’ suoi d’intorno
non meno oprar nella stagione ombrosa,
fin ch’al secondo sol di raggi adorno
colse l’intera palma gloriosa,
quando apparia la terra a maraviglia
dell’avversario sangue esser vermiglia.

Doppo il qual largo onor; cortese epio,
come verso i figliuoi l’annoso padre,
ogni offesa maggior posta in oblio
si mostrò amico alle nemiche squadre;
le quali in porto al suo terren natio
dalle fere tempeste oscure ed adre
feo secure menar, senz’altro affanno
fuor ch’al primo di Marte avuto danno.

Cinger si scorge poi la forte sede
di fossi inghirlandata e d’alte mura,
ch’avea d’inespugnabile tal fede,
ch’alla forza mortal vivea sicura:
ma quando il re magnanimo ivi assiede,
non conosciuta pria sente paura,
s’ che se stessa e l’insubre suo duce
sotto al gallico impero riconduce.

A lui quanti han gl’italici terreni
principi illustri e chiare libertati,
venir qui si vedean d’amor ripieni,
come al vero signore i servi grati,
queste mandar degli adeguati seni
di virtude e di senno i più pregiati,
come al pio difensor dell’alme vaghe,
ché del viver disciolto altri s’appaghe.

Et ei con quello amor tutti gli accoglie,
che ’l buon voler d’altrui fa il sommo Giove;
e raffrenando in sé le avare voglie,
ché spesso al vincitor vittoria muove,
contento sol delle sue antiche spoglie
non vuol l’armato stuol drizzare altrove,
poi ch’al sommo pastor di Pietro erede
con dovuta umiltà s’inchina al piede.

Poi nel belgico sen poco oltra appare
con le schiere a bataglia e con l’insegne
indarno il suo avversario richiamare,
di marziale ardor le voglie pregne;
e quello il passo indietro ritornare
qual lupo ove il leon vestigio segne,
che per più angusta via spinosa e fosca
spesso intorno ascoltando si rimbosca.

Poco oltra anco apparia, dove il Tesino
va il terreno irrigando erboso e molle,
quando il fato maligno e ’l rio destino
della intera virtù la palma volle;
da l’un lato apparia ’l valor divino,
che ’l famoso Francesco in alto estolle,
dall’altro l’empia ed invida fortuna,
ch’ogni forza ch’avea contr’esso aduna.

Sopra l’alto corsier di ferro adorno
con la lancia arrestata sembra un Marte,
e facendo a’ nemici oltraggio e scorno
si vedea questa urtare e quella parte;
poi ’l fugace de’ suoi sinistro corno
ratto insieme ripon con bellica arte,
e con l’istessa man vie più d’un duce
delle nemiche squadre a morte induce.

Ma non potendo al fin l’estrema possa
sostener lasso e solo, ond’egli è cinto,
dell’alma invitta ogni viltade scossa,
si vedea ’n altrui forza, ma non vinto;
ché di contraria sorte alta percossa
il naturale ardire non ha più estinto,
che faccia unto liquor l’ardente fiamma,
ch’al suo primo arrivar vie più s’infiamma.

Indi aggiunto alto senno alla fortezza,
e l’onesto soffrir con degnitade,
nel crudo vincitor l’empia durezza
rompe e truova il cammin di libertade;
in cui di vendicar l’usata asprezza
onorate ritrova e belle strade,
consentendo pietoso il giogo torre
a gl’italici campi e i lacci sciorre.

E ’l vicario di Cristo e quella soglia,
in cui primo sedeo l’antico Piero,
poi ch’esser vede vergognosa spoglia
del Germano infedel, del crudo Ibero,
il medesmo re, di chiara voglia
ripieno il giusto core e d’amor vero,
le pie galliche insegne a Roma stende,
e dell’iniquo stuol libera rende.

Ivi sculto era ancor più d’una volta
l’empio avversario suo del terren gallo
esser fugato e con la gente folta
a gran danno e disnor pagarne il fallo,
e ’ndarno sempre aver con pena molta
sforzato muro in esso, argine o vallo;
e tenerse felice, chi potea
rifuggendo schivar la morte rea.

Nè di Pallade in lui mostrava ascosa
l’arte onorata e la sua verde Oliva,
ma sì vaga, sì bella e speciosa,
che nel colle più aprico o ’n caida riva;
ogni Musa, ogni Grazia, qual la rosa
in seno al dolce april seco fioriva;
e dolcemente si vedeano intorno
spirargli amor d’ogni virtude adorno.

La nobil Gallia si vedea per lui
di toga ornata e del solare alloro
avanzar di savere i vicin sui
nel greco e nel latino ampio tesoro;
e contra i colpi e ’l vaneggiar d’altrui,
come l’annoso pino all’Austro e ’l Coro,
tener ben ferme le radici prime
dell’alte leggi del Fattor sublime.

Al collo gli avvolgea le braccia caste,
e ’l bianco manto suo la pura fede,
quasi dicendo:”Alcun non mi contraste
di lui fermar d’ogni mio regno erede”;
e per ciò ben chiarir, l’essempio baste
di quel ch’ivi vicin sculto si vede;
in cui vien l’avversario, il quinto Carlo,
disarmato e soletto a visitarlo.

E lui poste in oblio l’aspre contese,
i ricevuti oltraggi e l’odio antico,
essergli d’ogni ben largo e cortese,
com’unico germano e caro amico;
e qual trionfator del suo paese,
che più volte calcò fero nemico,
il menò sicurissimo in quel loco,
ove ogni bene oprar conobbe poco.

Assedea doppo lui l’altero figlio
Enrico invitto, al nome suo secondo,
ch’a i tre lustri compiti, l’aureo giglio
di famosa vittoria fea fecondo;
e dell’aquila cruda il fero artiglio
che parea minacciar l’afflitto mondo,
sol mostrandosi al Rodano feo tale,
che più tosto che quello adopra l’ale.

Non molto andata ancor la verde etade,
l’Alpi oltra varca al più nevoso verno,
e del serrato passo apre le strade
con suo sommo valore ed altrui scherno;
scaccia il nemico e rende le contrade
furate allora al gallico governo,
e sgombrando le nubi oscure et adre
chiaro e quieto il ciel dimostra al padre.

Squarciata poi la mal tessuta pace,
duce rimena ancor l’armate schiere,
ove in tra i Pirenei la terra giace,
che ’l Nerbonese mar porria vedere;
torna indi poi contra l’ardente face,
che parea sormontar l’ultime spere,
della guerra mortal, ch’aduna insieme
il belgico, il germano e l’anglo seme.

E così giovinetto, ove Matrona
le piagge erbose dolcemente bagna,
ove il fren saggio accoglie, or’oltra sprona,
ove più aperto il sen dia la campagna;
e ch’a tema o furor non s’abbandona,
il vecchio imperadore in cor si lagna,
e ch’egli aggia alla fin s’accorge in vano
di Fabio l’occhio e di Marcel la mano.

Onde all’estremo andar forzato appare
d’altra novella pace a consentire,
con promesse a lui dure ad altrui care,
ma con mente fermata di fallire:
poscia ivi al ciel tra l’anime più chiare
l’alto parente suo vedea salire
il grande Enrico, con la pietà stessa,
che debbe in nobil core essere impressa.

Doppo il cui lagrimar, l’invitto core
i danni andati a vendicar s’appresta,
e dell’anglico stuol contra il furore
la già indormita spada altero desta,
e l’adopra cotal che ’n sì poche ore
ogni salda muraglia afflitta resta,
che dir puote: “In tal fato l’arme cinsi,
che in un momento venni, vidi e vinsi”.

Poi che ridotto al pristino suo impero
ivi apparia il gran lito de’ Morini,
non men pietoso mostra il suo pensiero
a chi fuor sia de’ gallici confini:
sentendo in preda dell’ogoglio fero
di chi indotti gli avea gli aspri vicini
il buon duce Romano afflitto e solo,
qual germano il soccorre o qual figliuolo.

E ’l difende e mantien da quello istesso,
che gli devria donar contr’altri aita;
ahi crudo cor, dal suocero, ch’oppresso
il tenea, lasso, e’ suoi nemici invita;
e poi che al miser padre avea permesso,
che tolta fosse l’insidiata vita,
la medesma pia figlia e i suoi nepoti
d’ogni paterno ben fea cassi e vòti.

Ma il magnanimo Enrico del suo sangue,
e de’ suoi gran tesori è sì cortese,
ch’ei riduce a salute il quasi esangue
chiaro corpo illustrissimo Farnese;
poi l’alma libertà, che morta langue
pur dal ferr’empio delle Ispane offese,
ritornar viva fa, integra e serena
tra l’alme mura della etrusca Siena.

Tal che quanti hanno dei le tirrene onde,
quante ninfe e driade ha il terren Tosco,
ornando quei le sue salate sponde,
queste il chiaro cristallo e ’l verde bosco,
ciascun divotamente a Giove infonde
preghi, che mai non sia più ch’allor fosco
del buon re Gallo all’onorata voglia,
sì che tutto il terren da i lacci scioglia.

Non molto lunge a questo sculto appare
il medesimo Enrico sovra il Reno
l’invittissimo esercito menare,
e dell’alma Germania il largo seno
d’ogni furor tirannico sgombrare,
e dell’empio signor, romperle il freno;
e dall’infide braccia riconduce
l’uno e l’altro di lei famoso duce.

E lassando i suoi campi e ’l patrio nido,
si vede in fuga aver l’infermo volo
del magnanimo Gallo al primo grido
di Giove il fero uccello afflitto e solo,
mentre quel trionfante sovra il lido
di Mosella e di Mosa il franco stuolo
rimena; al cui valor non fu securo
ferro, foco, montagna, argine o muro.

Scolpito ha intorno l’uno e l’altro frate,
il secondo Francesco e ’l chiaro Carlo,
quel furaron le Parche, congiurate
di coronare Enrico e ’n cielo alzarlo,
quest’altro giunto a più perfetta etate
tosto il tolse colui che potea farlo,
con soverchio dolor del padre pio,
del gran germano e del terren natio.

i quai tutti vivean con ferma speme
di veder sormontare il suo valore,
e di render più illustre il divin seme,
e più splendido far l’aurato fiore,
come seppe il terren che Mosa preme,
che mal contrasta al giovine furore,
qual ben descritto lì potea vederse,
che ratto al suo venir le strade aperse.

Né il gran vate divino ivi entro ascose
del frutto femminil le piante chiare;
del gran Francesco la sorella pose
sovra quante fur’ alme altere e rare;
e quale i minor fior le vaghe rose,
le vincea tal, che in tutte l’altre avare
parean le stelle; che versaro in lei
quanto bene al mortal donan gli dei.

Scritto avea nella fronte a lettre d’oro,
l’alma Regina, che i Navarri affrena;
cingela Apollo del suo sagro alloro
in vista più che mai lieta e serena;
non lontan poscia a così bel tesoro
si leggea ’l nome pio di Maddalena,
di Francesco primier progenie degna,
che nel scoto terren non molto regna.

Da tutte l’altre poi solo in disparte
il nome alto surgea di Margherita,
ove il saggio scultor ripose ogn’arte
in mostrarla a ciascun vaga e gradita;
né lasserien le stelle alcuna parte
in farla oltra ’l mortal rara e compita
di virtù, di valor, di cortesia,
saggia, casta, gentile, onesta e pia;

e che merti con l’opre drittamente
d’esser chiamata poi figliuola e suora
di Francesco e d’Enrico, onde sovente
l’uno e l’altro di lei se stesso onora;
mostrava in vista dalla bassa gente,
che sol false ricchezze e ’mperi adora,
andar sì lunge con la nobil’alma,
che quel tutto era a lei negletta salma.

E quanto al ciel poteva assimigliarse
col giovare a’ mortai de’ ben ch’avea,
tanto in vista parea beata farse
questa del secol suo terrena dea;
e perché nel mirare, a gli occhi apparse
di Lancilotto allor, ch’ella devea
regger d’Avarco il suo nativo regno,
dimostrò di dolcezza aperto segno.

Poi si vede lasciar dov’Arno bagna,
dell’alma Etruria il più fiorito nido
la real Caterina e s’accompagna
col grande Enrico al gallico suo lido;
dal cui sommo valor non si scompagna
virtù, senno, onestade ed amor fido,
che la fanno al gran re pregiata e cara,
a tutto il mondo poi lodata e chiara.

E su ’l mar provenzale accor si vede
dal gran suocero suo, dal pio consorte,
come d’alta bontà suprema erede,
e degna al tutto di celeste sorte;
l’altera nobiltà, che ’ntorno assiede,
par che ’n suo cor mirando si conforte
di speranza immortal, che da lei scenda
chi ’l gallico terren beato renda.

Et ella in vista alteramente umile
secondo i merti lor ciascuno appaga;
poi de’ verdi anni suoi passato aprile
larga prole produce ornata e vaga,
che del paterno onor l’antico stile,
come intagliato avea la man presaga,
immiteria cotal, che ’l grido fora
dal vecchio Atlante al nido dell’Aurora.

Lì si vedea, mentre ch’Enrico al Reno
con l’armato suo stuol gran cose adopra,
ella regger per lui di Gallia il freno,
né temere il furor, che a lei vien sopra;
ma il Belgico crudel d’orgoglio pieno
rispinge indietro dalla spietata opra,
e le pria per insidia avute spoglie
per magnanima forza a lui ritoglie.

Poi con la gran bontà, che sia commista
con la dolcezza pia, che lega i cori,
de’ maggiori e minor gli animi acquista,
sì che i privati e pubblici tesori
di riversarle in sen nessun s’attrista,
più che fa il buon de i trionfali allori;
et ella adorna di benigno aspetto
quanto può mostra loro il regio affetto.

Di tali onor de’ suoi rimira ornato
il divin Lancilotto il forte scudo,
con l’alma lieta e rende grazie al fato,
ché di lunga memoria no ’l feo nudo;
e certo in core omai, che vendicato
saria del chiaro amico il caso crudo,
poi che si corca il sol nell’occidente,
ov’è il suo Galealto andò dolente.

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