< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Nuovo viaggio per la costa della Guinea e naufragio
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Nuovo viaggio per la costa della Guinea e naufragio.



P
er giungere gradatamente ai particolari di questa parte della mia storia, voi dovete immaginarvi che essendo or vissuto quattro anni in circa al Brasile, e cominciando a prosperar tanto nella mia piantagione, non solamente aveva imparata la lingua portoghese, ma mi era stretto in conoscenza ed amicizia co’ miei confratelli piantatori, come pure coi trafficanti di San Salvatore, che era il nostro porto. Pertanto ne’ discorsi avuti con essi io gli avea frequentemente intertenuti de’ miei due viaggi alla costa di Guinea, del modo di trafficare colà coi Negri, e della facilità di procacciarsi su quella costa, in vece di merciuole di poco conto, siccome pallottoline bucate, giocherelli, temperini, forbici, accette, pezzi di vetro e simili, non solamente polve d’oro, droghe e legni preziosi di Guinea, denti di elefanti ec., ma Negri in gran numero per servigio del Brasile.

Questi miei amici stavano attentissimi ai miei discorsi su tutti gl’indicati punti, ma principalmente alla parte che riguardava la compra dei Negri, commercio che a que’ giorni non solamente non era molto innoltrato1, ma comunque fosse, veniva fatto da chi soltanto era munito di assientos o patenti dei re della Spagna e del Portogallo, e vietato a tutti gli altri, di modo che pochi Negri erano comprati, e questi ad un prezzo stragrande.

Accadde che dopo essere stato una sera di brigata con alcuni di tali trafficanti e piantatori, ed avendo parlato con essi diffusamente di queste cose, tre di essi venissero nella seguente mattina a trovarmi.

Costoro mi dissero che avendo ben pensato su i discorsi da me tenuti loro la scorsa notte, erano lì per farmi una riservata proposta; dopo avermi obbligato con parola d’onore alla maggior segretezza, mi narrarono esser loro intenzione di apparecchiare un vascello per la Guinea; posseder tutti al pari di me delle piantagioni che non mancavano di nulla fuorchè di schiavi; non potersi tirare avanti la coltivazione degli zuccheri, perchè non era permesso il vendere in pubblico i Negri quando erano menati al Brasile; non aver eglino bisogno d’altro, che di fare un viaggio per acquistare di questi Negri, condurli di soppiatto alla spiaggia, e ripartirli in comune fra le piantagioni degli armatori del divisato vascello. In una parola, mi domandarono s’io acconsentiva ad essere loro scrivano di nave per regolare la parte che si riferiva al traffico sulla costa della Guinea, e mi offrivano in ricompensa una parte uguale nel ripartimento dei Negri, e un’esenzione generale dal contribuire la mia porzione di capitale.

Questa, convien confessarlo, sarebbe stata una bella proposta da farsi a chi non avesse avuto da mantenere una piantagione sua propria, avviata considerabilmente sul prosperare, e dotata di un buon capitale. Ma quanto a me che aveva il mio fondo così bene incamminato e stabilito, cui non mancava altro che continuare ancora per tre o quattro anni, come aveva cominciato, e ritirare gli altri miei cento sterlini dall’Inghilterra; un fondo che dopo i suddetti tre o quattro anni e con questa piccola aggiunta non potea valer meno di tre o quattromila lire sterline, e sempre di più andando avanti; per me il pensare ad un simile viaggio era la più rea stranezza di cui un uomo, posto nelle mie condizioni, si potesse render colpevole.

Ma io, nato per essere il distruggitore di me medesimo, non potei resistere a tale offerta, più di quanto avessi potuto trattenere i miei primi disegni da vagabondo, quando i buoni consigli di mio padre furono perduti per me. In una parola, risposi loro che avrei accettata la proposta di tutto cuore, purchè avessero voluto prendersi l’incarico di vegliare su la mia piantagione durante la mia lontananza, e disporre di essa a tenore di ciò che imporrei anticipatamente pel caso ch’io andassi a naufragare. Obbligatisi a far ciò, autenticarono il dovere assuntosi con convenzioni in iscritto; io feci il mio testamento disponendo, in caso di morte, della mia piantagione e dei capitali che vi erano sopra, instituendo mio erede universale il capitano del vascello da cui ebbi salva la vita, come è stato narrato di sopra; obbligandolo per altro quanto alle proprietà indicate nello stesso testamento, ad usarne in modo che la metà della rendita rimanesse a lui, l’altra metà fosse spedita in Inghilterra.

In somma, io presi ogni possibile cautela per salvare i miei averi, e per mantenere in ordine il mio podere. Se avessi avuto una metà soltanto di questa prudenza nel vegliare al mio proprio interesse e nell’esaminare quanto mi conveniva di fare o di non fare, certamente non avrei abbandonato un sì prosperoso stabilimento e tutte le probabilità di vederlo migliorato sempre di più, per commettermi ad un viaggio, che recava seco tutti i rischi delle navigazioni, anche senza computare i tant’altri motivi per aspettarmi particolari disgrazie, mie assidue compagne.

Ma io fui affascinato; onde obbedii ciecamente ai dettati della mia fantasia anzichè a quelli della mia ragione. Per conseguenza, allestito il vascello, fornitone il carico, somministrato tutto quanto era fermato ne’ patti dalle parti interessate meco in tale viaggio, andai a bordo in trista ora al primo di settembre del 1659, lo stesso giorno in cui otto anni addietro fuggii da’ miei genitori ad Hull, ribellandomi alla loro autorità e facendomi giuoco del mio proprio vantaggio.

Il nostro vascello di circa centoventi tonnellate portava sei cannoni e quattordici uomini, non compreso il capitano, il servo di lui e me. Non avevamo a bordo altro carico di mercanzie, che merci opportune al nostro commercio coi Negri, cianfrusaglie soprattutto, come pallottoline bucate, pezzetti di vetro, specchietti, coltelli, forbici, accette e altre simili cose.

Nello stesso giorno che venni a bordo, spiegammo le vele, indirizzandoci verso la parte settentrionale della nostra spiaggia con l’idea di stender bordo verso la costa dell’Africa. Quando fummo a circa dieci o dodici gradi di latitudine settentrionale (pare che tal fosse il metodo a quei giorni di far simile traversata), avemmo bellissime giornate, soltanto stranamente calde per tutto il tempo in cui ci tenemmo da presso alla nostra costa fino al momento che arrivammo all’altura del capo di Sant’Agostino; donde mettendoci al largo perdemmo di vista la terra, e governammo come se fossimo diretti all’isola Fernando de Noronha e le sue pertinenze, tenendoci a nord-est ¼ nord (un quarto di greco verso tramontana) e lasciandoci a levante quelle isole. In questa traversata passammo la linea nel tempo incirca di dodici giorni, ed eravamo secondo l’ultima nostra osservazione a 7 gradi e 22 minuti di latitudine settentrionale, quando un violento turbine od oragano ci tolse quasi i sensi del tutto. Venuto dal sud-est (scirocco) passato quasi al nord-vest (maestro) si fermò al nord-est (greco), donde infuriava sì tremendamente, che per dodici giorni continui non potemmo se non derivare, e fuggendo dinanzi ad esso lasciarci trasportare ove il destino e il furore del turbine ci spingeva. Non ho bisogno di dire che durante questi dodici giorni io m’aspettai ad ogni istante di rimanere sommerso, nè da vero fuvvi alcuno nel vascello che sperasse di avere salva la vita.

In tale stato d’angoscia avemmo, oltre al terrore prodotto dalla procella, uno de’ nostri marinai morto di febbre maligna, un altro ed un mozzo portati via da un’ondata. Verso il duodecimo giorno, essendo alquanto rimessa la burrasca, il capitano, misurata la nostra posizione meglio che potè, trovò di essere a circa 11 gradi di latitudine settentrionale, ma lontano dal capo di Sant’Agostino per una differenza di 22 gradi di longitudine occidentale; onde a questi conti eravamo arrivati verso la costa della Guiana, o sia parte settentrionale del Brasile, oltre il fiume delle Amazzoni e verso l’Orenoco, detto comunemente il Gran Fiume. Principiò quindi a consultarmi sul partito da prendersi, perchè il vascello avea molte falle, ed era sì mal andato, ch’egli credea ne convenisse tornare addietro per cercar direttamente la costa del Brasile.

Io fui di parere affatto contrario; e guardando insieme su la carta della costa marittima dell’America, conchiudemmo non esservi terra abitata ove avessimo potuto ripararci, finchè non avessimo raggiunto l’arcipelago delle isole Caraibe. Risolvemmo pertanto di veleggiare verso le Barbade; il che avremmo potuto ottenere facilmente, così almeno speravamo, in una quindicina circa di giorni veleggiando al largo per evitare i frangenti del golfo o baia del Messico; mentre ne sarebbe stato impossibile l’eseguire un viaggio alla costa d’Africa senza qualche soccorso così pel nostro vascello, come per noi.

Con questo proposito cangiammo direzione volgendoci ad uest ¼ di nord uest (un quarto di maestro) verso ponente, a fine di raggiugnere qualcuna delle nostre isole inglesi, ove ci confidavamo di trovare assistenza; ma il destino avea determinate diversamente, perchè quando ci trovammo alla latitudine di 12 gradi e 18 minuti, ne sopravvenne da ponente con lo stesso impeto della prima burrasca una seconda, da cui fummo tratti sì fuor della via d’ogni umano consorzio che, ov’anche le vite di noi tutti si fossero salvate dall’onde, eravamo in pericolo di essere divorati dai selvaggi, anzichè nella possibilità di rivedere i nativi nostri paesi.

Ci trovammo in tali strette, e continuava a soffiare il vento tremendamente, allorchè la mattina di buon’ora uno de’ nostri marinai gridò ben forte: Terra! ed appena fummo corsi fuor della nostra camera nella speranza di vedere almeno in qual parte del mondo fossimo, il vascello urtò contro ad un banco di sabbia. La violenza della sua fermata fu tanto forte, che il mare gli salì sopra con formidabile violenza, a tal che per un comune istinto ci ritirammo tutti dietro al castello di poppa, per ripararci dagli immensi sprazzi dell’onde.

Non è cosa facile per chi non siasi trovato in un simile caso il descrivere o concepire la costernazione d’uomini ridotti a tal punto. Non sapevamo affatto nè dove fossimo, nè su qual terra saremmo trasportati, se in un’isola o in un continente, se in un paese abitato o disabitato; e poichè il furore del vento imperversava tuttavia, sebbene un poco più mitigato di prima, non avevamo grande speranza di governare il vascello per molti minuti senza che andasse in pezzi, semprechè il turbine, ciò che sarebbe stato una specie di miracolo, non voltasse ad un tratto da un’altra banda. In una parola, noi ci sedemmo guardandoci in faccia gli uni con gli altri, aspettando a ciascun momento la morte, e preparandoci tutti di comune accordo per l’altro mondo, perchè in questo ci restava omai poco o nulla da fare per noi. Il nostro conforto del momento, e tutto il conforto che avemmo, si fu che il vascello non era per anche andato in pezzi, e aggiungasi la notizia datane dal capitano, che il vento cominciava a sminuire.

Pure, ancorchè fossimo convinti di questa lieve diminuzione, il vascello si era troppo saldamente fitto entro la sabbia che non ci rimaneva più speranza di rimetterlo al mare. In sì spaventosa condizione non avevamo altro partito fuor quello di salvare le nostre vite come meglio avremmo potuto. Prima della burrasca avevamo a poppa una scialuppa, ma sfondatasi contro al timone e infrantesi le corde che la teneano, andò a sommergersi o il mare la trascinò lontano da noi. Su questa pertanto non si poteva sperare. Ne avevamo un’altra a bordo; ma non sapevamo bene come lanciarla in mare; pure non vi era luogo a discutere, perchè ci aspettavamo ad ogni minuto che il vascello si spezzasse, e qualcuno dicea che era già spezzato.

In tale istante di disperazione l’aiutante del vascello diè di piglio alla scialuppa, e fattosi aiutare dagli altri marinai, congiuntamente la fecero saltare dal di sopra dell’anca del vascello nell’acqua. Dopo esserci lanciati tutti entro di essa (eravamo rimasti in numero di undici), la lasciammo andare mettendoci alla mercede di Dio e del mare infuriato; perchè, se bene la burrasca fosse considerabilmente diminuita, pure il mare andava alto a coprire la spiaggia, e potea ben esser detto den wild zee (mare selvaggio), come gli Olandesi chiamano il mare in burrasca.

Allora la nostra posizione si fece sempre più deplorabile, perchè vedevamo chiaramente divenuto sì grosso il mare che la scialuppa non ci potendo tenere, saremmo rimasti inevitabilmente annegati. Non vi era il caso di veleggiare perchè non avevamo vele, nè, se ne avessimo avuto, avremmo potato far nulla con esse. Remigammo dunque verso terra, benchè col cuore depresso come uomini che andassero al patibolo. Comprendevamo ben tutti che, appena la scialuppa sarebbe più vicina alla spiaggia, anderebbe in mille pezzi per l’urto del mare. Pure raccomandammo fervorosamente le nostre anime a Dio, poi affrettammo con le nostre mani medesime la nostra distruzione, spingendo con troppa gagliardia la scialuppa verso la spiaggia contro cui già la spingeva lo stesso vento.

Quale spiaggia si fosse, se scoglio o banco di sabbia, se montagna o pianura, non lo sapevamo. L’unica ombra di speranza che ragionevolmente potea rimanerne, si era quella d’incontrarci in qualche baia o golfo o foce di fiume, entro cui potessimo per gran ventura introdurre la nostra scialuppa, metterla a sottovento e forse navigare in un’acqua più tranquilla. Ma non v’era alcuna apparenza di ciò, e quando fummo più vicini alla costa, la terra ci si mostrò più spaventosa del mare.

Dopo aver remigato, o piuttosto esserci lasciati trasportare dal vento per circa una lega e mezzo, come congetturammo, una furiosa ondata simile ad una montagna ci corse alle spalle, e ne fece presentire compiutamente il colpo di grazia. Ci venne addosso con tal furore che, capovolta la scialuppa, ci disgiunse da questa come gli uni dagli altri, dandone appena il tempo di dire: Oh Dio! perchè in un momento fummo tutti ingoiati dalle onde.



  1. Ognuno sa che fa di troppo nel secolo decimo ottavo, e che, a disonore dell’umanità, non è anche ben tolto nel secolo decimonono.


Note

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