< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Incidenti del viaggio per Pekino; arrivo, incontro con una carovana di Moscoviti
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Incidenti del viaggio per Pekino; arrivo, incontro con una carovana di Moscoviti.



V
enticinque giorni furono impiegati nel viaggio a Pekino per mezzo ad una contrada infinitamente popolosa, ma, a quanto parvemi, malissimo coltivata. Benchè venga tanto decantata l’industria di quegli abitanti, la loro economia, il lor governo domestico fanno pietà; il tenore del lor vivere è miserabile, lo dico tale rispetto a noi, non ad essi, perchè quei poveretti non ne conoscono uno migliore. Anzi l’eccessivo orgoglio de’ medesimi, superato soltanto in alcuni dalla povertà, e un accrescimento alla loro miseria; onde sono costretto credere che gl’ignudi selvaggi dell’America conducano una vita assai più felice degl’infimi dei Chinesi, perchè i primi, non avendo nulla, non desiderano nemmeno nulla. Vedete i secondi superbi ed audaci, la dove sono nella generalità meri cenciosi e pitocchi. Della loro ostentazione non vi potrei dire abbastanza. Per poco che il possano, si fanno servire da una moltitudine di famigli o di schiavi, pompa ridicola al maggior segno, siccome è il disprezzo in cui tengono il rimanente dell’universo.

Devo dire che il viaggiare pei deserti inospiti della Gran Tartaria m’allettò più in appresso, che l’aggirarmi fra questi paesi, ancorchè le strade ne sieno buone, ben mantenute e comode per chi vi cammina. Ma nulla m’infastidiva più del vedere tanta imperiosa audace superbia di quella genìa, accompagnata da altrettanta dose di crassa ignoranza e stupidezza, se bene talvolta il padre Simone ed io ce ne siamo ancor divertiti.

Per esempio, capitati in vicinanza di una villa situata a dieci leghe circa dopo Nang-King, spettante ad un gentiluomo campagnuolo, come lo chiamava il padre Simone, avemmo prima di tutto l’alto onore di fare a cavallo due miglia in compagnia del padrone della casa stessa. Area costui il portamento di un perfetto don Chisciotte, tanto era un miscuglio di boria e di povertà. Vestiva un abito adattissimo ad uno Scaramuccia o ad un pagliaccio: una zimarra di sudicia tela di bambagia, da cui penzolavano due maniche, tutta frange per la vetusta e piena di buchi da tutte le bande; stava sotto di essa una camiciuola di taffettà unta e bisunta, che parea quella di un vero beccaio; onde sua signoria Chinese sarebbe servito benissimo di modello ad un artista, per rappresentar quell’animale che i pittori cattolici sogliono mettere a’ piedi di sant’Antonio. Cavalcava una rôzza

Sdraiato di peso.... sopra a un seggiolone a bracciuoli, due Schiave lo servivano a mense. magra, zoppicante, affamata, la quale, oltre allo scudiscio con cui il cavaliere le lavorava la testa, avea bisogno di due schiavi a piedi che le prestassero lo stesso servigio alla coda per farla andare. Così ci veniva a fianco, seguìto da dieci o dodici schiavi, nell’andare dalla città alla sua villeggiatura, da cui eravamo distanti non più di una mezza lega. Si camminava adagio come potete credere; ma quando fummo ad un certo punto questa caricatura di gentiluomo ne precedè.

Poichè la brigata del mandarino si fermò un’ora a un dipresso nel villaggio per ristorarsi, profittammo dell’indugio per andare a visitare questo alto personaggio nella sua delizia campestre, vera specie d’ortaccio. Lo trovammo in un piccolo angolo rimpetto alla porta di casa che stava facendo il suo pasto; ma gli piaceva essere veduto anche in tale atto, e ne fu detto che più lo avremmo guardato, più gli saremmo dati nel genio. Sedea sotto un albero, simile alquanto alla palma, che gli riparava effettivamente il capo dal sole di mezzogiorno, a cui sovrastava un ampio ombrello postovi col fine di rendere più magico l’effetto di quella vista. Sdraiato di peso, perchè era un omaccio grave e corpulento, sopra un seggiolone a bracciuoli, due schiave lo servivano a mensa, oltre a due altre, una delle quali imboccava con un cucchiaio il suo sire, l’altra teneva il tondo con una mano e con l’altra spazzava via le briciole che cadevano su la camiciuola e la barba di sua signoria.

* Quel bestione avrebbe creduto digradarsi, se avesse adoperate le sue mani in tutti quegli atti famigliari, che i monarchi ed i re preferiscono fare da sè, per non essere toccati dalle ruvide dita del loro servidorame. Pensai allora alle torture che la vanità procura agli uomini, e quanto un orgoglio si mal inteso debba esser molesto a chi ha due dita di senso comune1.

Lasciata al povero sciocco la soddisfazione di bearsi, credendo che stessimo ammirando la sua pompa, mentre in vece ne eccitava a compassione e disprezzo, proseguimmo il nostro viaggio. Sol prima di partire, il padre Simone ebbe la curiosità d’informarsi quali prelibati cibi componessero il pasto di quella specie di principe campagnuolo, ed anzi gli fu compartita la grazia di assaggiarne. Tutto consisteva in una vivanda di riso bollito con entro molti spicchi di aglio, e un sacchetto pieno di pepe verde, e un’altra pianta indigena di que’ paesi simile alquanto al nostro zenzero, ma che sa di muschio e pizzica come la senapa. A tutto ciò andava unito un pezzettino di castrato magro, bollito anch’esso col riso. Eccovi tutta l’imbandigione della chinese sua signoria, di cui stavano aspettando gli ordini quattro o cinque servi in distanza, ed aspettando anche, supponemmo, il momento del loro pasto che per lo meno non sarà stato più lauto di quello del loro padrone.

Quanto al mandarino con cui facevamo questo viaggio, egli veniva rispettato come un re, sempre circondato dai suoi gentiluomini e servito con si sfarzosa etichetta, che non abbiamo potuto vederne la faccia, fuorchè in distanza. Una cosa che notai si fu non esservi in tutto il suo traino un cavallo rispetto a cui un nostro cavallo da carretta o da basto non avesse avuta più bella apparenza. Egli è vero che non potevamo giudicar ciò con pienissima cognizione di causa, perchè tanti arredi e gualdrappe coprivano quelle bestie, che a mala pena potevamo discernerne le teste e le zampe allorchè camminavano.

Io mi sentiva adesso alleggerito il cuore, ed essendo cessate tutte le angosciose perplessità, di cui vi ho già dato conto, potei gustar meglio quanto fuvvi di piacevole in questa traversata, durante la quale non mi accadde nulla di sinistro, se si eccettui l’essermi, nel passare o guadare un fiumicello, caduto sotto un cavallo, che mi fece, come si suol dire, acquistare la cittadinanza del paese, cioè andare lungo disteso in acqua, senza nondimeno farmi altro danno fuor quello di inzupparmi dalla testa ai piedi, poichè il torrente non era molto profondo. Ricordo una tale minuzia, perchè fu in quell’occasione che mi si guastò il mio libretto da tasca ove, come ho accennato qualche tempo prima, io notava i nomi de’ luoghi e abitanti che mi sarebbe occorso in appresso di notare. Non avendo io fatto attenzione alla pagina ove l’umidità fece prendere la muffa, se ne dileguarono le parole al segno, di non potere essere mai più lette; donde mi è venuto il dispiacere di non poter citare alcune stazioni del presente mio viaggio.

Finalmente arrivammo a Pekino. Io non avea presa con me altra persona di mio servigio, che il giovine lasciatomi da mio nipote il capitano, allorchè ci dovemmo separare, il qual giovine veramente mi si mostrò attento e fedele. Nemmeno il mio socio aveva altri che lo servisse, fuor d’un suo parente. Entrambi nondimeno ci addossammo le spese del viaggio pel vecchio pilota portoghese, che desiderò vedere la corte della China, e che ci fece da interprete, perchè conosceva la lingua Chinese, e parlava anche il francese e un poco l’inglese. E da vero questo vecchio ne fu utile in ciò e in cose di maggior importanza, come subito udirete.

Non era passata una settimana da che eravamo a Pekino, quando venne a trovarmi tutto ridente:

— «Ho, diss’egli, da raccontarvi una cosa che dee farvi star molto allegro.

— Farmi star molto allegro! replicai. Che cosa sarà? In questo paese non conosco nulla che possa darmi grande allegrezza o tristezza.

— Sì, sì: allegro voi e malinconico me.

— E perchè, nel caso, malinconico voi?

— Perchè mi avete fatto fare un viaggio di venticinque giornate sin qui in vostra compagnia, e mi lascerete tornare indietro solo. Come farò io, povero diavolo! a raggiugnere un’altra volta il mio porto senza un vascello, senza un cavallo, senza pecunia?» perchè danaro non parea lo sapesse dire, e andava giuocando di latino nel suo discorso per farci stare più allegri.

In somma mi raccontò come si trovasse a Pekino una grande carovana di negozianti moscoviti e polacchi, che si disponeva entro quattro o cinque settimane a partire per terra alla volta della Moscovia.

— «Son ben sicuro, soggiunse, che vi gioverete di questa occasione, e mi lascerete tornare addietro solo.»

È inutile il dirvi se rimasi gratamente sorpreso da questa buona notizia, tanto che per qualche tempo non fui buono a mettere insieme una parola per rispondere a chi me la portò. Finalmente mi volsi a lui.

— «Come sapete questa cosa? Chi ve l’ha detta? Siete poi sicuro che sia vera?

— Sì, rispose. Stamane, dietro la strada, ho incontrato un antico mio conoscente, un Armeno, che fa parte della carovana di cui vi ho parlato. Venuto ultimamente da Astracan, divisava trasferirsi a Tonchino, ove lo conobbi la prima volta; ma poi, cangiato di proposito, ha risoluto seguire il viaggio della carovana sino a Mosca e di là raggiugnere di nuovo Astracan per acqua sul Wolga.

— Or bene, gli dissi, non v’inquieti la paura di dover restare addietro solo. Se mi appiglio al mezzo che mi proponete per rivedere l’Inghilterra, sarà colpa vostra se siete costretto ritornare a Macao.»

Cercato indi il mio socio per vedere che cosa ne convenisse di fare, e raccontategli le nuove che mi diede il pilota, gli chiesi se un viaggio di tal sorta gli potrebbe convenire.

— «Per parte mia, mi rispose, non ho difficoltà di far quelle che farete voi. I miei affari al Bengala gli ho già assestati e lasciati in buone mani; onde, avendo già fatti voi ed io vantaggiosi negozi da queste parti, ove ne riesca di convertire i nostri guadagni in tante partite di seta cruda e lavorata della China, che meritino l’incomodo di trasportarle, non mi parrebbe vero di rivedere la mia patria, perchè di lì potrei poscia tornare al Bengala co’ vascelli della compagnia dell’Indie.»

Trovatici d’accordo su questo punto, divisammo, se il pilota portoghese acconsentiva venire con noi, di provvederlo sino a Mosca, o anche in Inghilterra, se così gli piacea; nè da vero ci saremmo mostrati troppo generosi, se non avessimo fatto altro per lui, perchè i servigi che ne avea prestati valeano molto di più. Avemmo in esso un buon pilota sul mare ed un ottimo sensale sopra la spiaggia: la sola sua mediazione presso i mercanti giapponesi ne avea fatto intascare di belle centinaia di sterlini. Consultatici dunque a vicenda su questo punto, e desiderosi di dargli una maggiore gratificazione, che in fine adempivamo con ciò un dovere di giustizia e niente di più, desiderosi ancora di averlo con noi, com’uomo che ne diveniva in tutte le occasioni sì necessario, risolvemmo regalargli fra tutt’e due tanto oro monetato, quanto equivalesse ad una somma circa di cento settantacinque sterlini, oltre al sostenere le spese del viaggio così per lui come pel suo cavallo, eccetto quelle del trasporto delle sue mercanzie. Combinate insieme queste risoluzioni, lo facemmo venire a noi per fargliele sapere.

— «Vi siete lamentato, gli dissi, su la possibilità che noi, partendo di qui, vi lasciassimo tornare addietro solo. Vi dico mo che non resterete addietro del tutto, e che se ci risolviamo a tornare in Europa con la carovana, nol faremo senza domandarvi in nostra compagnia. Vi abbiamo dunque chiamato per sentire su di ciò le vostre intenzioni.

— È un lungo viaggio, disse il nostro vecchio crollando il capo; ed io non ho nè pecunia per arrivare sin là, nè pecunia per mantenermici quando ci sono.

— Questo è quello che c’immaginavamo, io soggiunsi, e per ciò abbiamo pensato di darvi un attestato della nostra gratitudine pei servigi che ne avete fatti ed anche della soddisfazione che proviamo nell’avervi con noi.»

Qui gli raccontai qual somma gli avessimo assegnata, affinchè la potesse mettere in traffico, come avremmo fatto noi co’ nostri danari.

— «Quanto, continuai, alle spese del viaggio, se acconsentite di venire con noi, vi metteremo franco di esse, salvo il caso di morte o disgrazie imprevedute, in Moscovia o in Inghilterra. Voi dovrete pensare unicamente a pagare il trasporto delle mercanzie che acquisterete.

— Con le signorie loro, il pover uomo esclamò, vengo in capo al mondo!» e si vedea proprio che gongolava dalla gioia.

Ci allestimmo dunque pel nostro viaggio. Ma accadde a noi quanto s’avverò per gli altri mercanti della carovana. Avevamo tutti tante cose da disporre, che invece di cinque settimane, ci vollero quattro mesi e alcuni giorni prima che tutti i nostri affari fossero in punto.

In questo intervallo, il mio socio e il vecchio pilota tornarono a Quinchang per esitare alcune mercanzie, che avevamo depositate in quel magazzino. Io, in compagnia di un negoziante Chinese, di cui aveva fatto conoscenza a Nang-King, e venuto per affari propri a Pekino, tornai a Nang-King, ove comprai novanta pezze di fino damasco, alcuni tessuti d’oro, che potei far giugnere a Pekino, quando appunto vi arrivava il mio socio reduce da Quinchang. Oltre a ciò, comprammo dugento pezze di drappo di seta di varie qualità, una grande partita di seta cruda ed altre merci, che unite a quelle portate di fuori, formavano un carico equivalente al valore di circa tremilacinquecento sterlini. Queste mercanzie, e di più una provvigione di tè, di tela di bambagia, e di noci moscate e di garofani per un carico di tre cammelli, ci costrinsero ad allestire diciotto di queste bestie, non comprese quelle che dovevano servire al nostro trasporto. Aggiunti due o tre cavalli da cavalcare, due che ci portavano dietro le vettovaglie, gli animali che impiegammo furono ventisei tra cammelli e cavalli.

  1. Il tratto contraddistinto con due asterischi non si legge in diverse edizioni inglesi di questa storia.


Note

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