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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Soggiorno a Tobolsk, conoscenza fatta con un esule moscovita d’alto affare.
Ma non mi convenne d’intraprendere un viaggio cosiffatto nel verno. Io avea bisogno, come ho detto, di cercar l’Inghilterra non la Moscovia, il qual primo scopo io poteva raggiugnere in uno di questi due modi: o andarmene con la carovana finchè fossi a Jaroslaw e di lì, tenendomi a ponente di Narva, attraversare il golfo di Finlandia per rendermi a Danzica, ove avrei vendute le mie merci della China con grande vantaggio; ovvero, lasciare la carovana ad una piccola città situata sul Dwina, donde mi bastavano sei soli giorni di viaggio d’acqua per trasferirmi ad Arcangelo. Giunto che fossi a questo porto, non mi sarebbe mai mancato un imbarco per l’Inghilterra o per l’Olanda o per Amburgo.
Ma! imprendere o l’uno o l’altro di questi due viaggi durante il verno non mi conveniva. Già a Danzica non ci doveva pensare, perchè essendo gelato allora il mar Baltico, tutte le vie per acqua mi sarebbero state disdette nel disgiungermi dalla carovana, e il camminar per terra in que’ paesi è cosa anche men sicura che il trovarsi fra i Tartari Mongoli. Col portarmi ad Arcangelo in ottobre, avrei trovato vuoto affatto di bastimenti quel porto; e gli stessi trafficanti che vi dimorano la state, appena hanno veduto salpare i vascelli mercantili, cercano il più meridionale soggiorno di Mosca. Non ci avrei dunque trovato altro che freddo eccessivo con minori modi di ripararmene, carestia di viveri e la molestia di rimanere in una città deserta tutto quanto l’inverno. Fatti pertanto tutti questi conti, vidi che la meglio era per me il lasciar andare la carovana e provvedermi per passare la fredda stagione a Tobolsk in Siberia sotto la latitudine circa di sessanta gradi. Qui almeno aveva la sicurezza di tre cose: copia di que’ viveri che somministra il paese, stanza calda e combustibili per serbarmela sempre tale, ottima compagnia.
In che clima mi trovava ora io diverso dalla diletta mia isola ove non sentii mai freddo che quando ebbi la febbre, ed ove al contrario stentava a portare ogni sorta di panni in dosso nè accesi mai fuoco se non fu, e anche all’aria aperta, per cucinarmi il mio cibo! Qui mi riparavano il corpo tre buone camiciuole e sovr’esse tre zimarre che mi scendevano alle calcagne, con le maniche abbottonate quasi sino alle dita, e tutt’e tre foderate di pelliccia perchè mi tenessero sufficientemente caldo.
Quanto all’avere un appartamento ben riscaldato, ho sempre avuta avversione, lo confesso, al metodo de’ nostri Inglesi che aprono un cammino in ciascuna stanza1, onde, appena il fuoco è finito, l’avere intorno è sempre freddo come lo dà il clima al di fuori. Io mi regolai meglio: preso un appartamento in una buona casa della città, feci fabbricare un cammino solo a guisa d’un forno, e come una specie di stufa, nel centro delle sei stanze che componevano questo appartamento. La canna di questo unico cammino mandava il fumo fuori da una parte; l’uscio d’introduzione nell’appartamento era da tutt’altra banda. Così tutte le sei camere si mantenevano calde egualmente senza che si vedesse fuoco, come si pratica nelle case addette per bagni nell’Inghilterra. Finchè stavamo in casa avevamo un clima uguale, e uguale lo serbavamo da per tutto comunque fosse perverso al di fuori, nè mai veniva ad incomodarci il fumo.
La cosa più maravigliosa di tutte si era il poter trovare buona compagnia in contrada così barbara come questa, che è una delle più settentrionali dell’Europa, posta in vicinanza dell’Oceano Glaciale e sotto una latitudine di pochi gradi diversa da quella della Nuova Zembla. Ma essendo questo il paese ove, come osservai dianzi, vengono confinati tutti i rei di stato della Moscovia, ne derivava che Tobolsk fosse zeppa di nobili, di gentiluomini, di soldati e di cortigiani di Mosca.
Qui ragunavansi e il famoso principe di Gallitzin e il vecchio generate Robostiski e parecchi personaggi d’alto affare d’entrambi i sessi. Grazie al mio mercante scozzese, dal quale nondimeno mi separai a Tobolsk, aveva fatto conoscenza con più d’uno di questi signori, e da essi, in quelle serate quivi sì lunghe del verno, ricevei molte visite che mi resero piacevole la mia permanenza.
Io stava conversando col principe di ***2 un de’ ministri di stato del czar di Moscovia, quando la natura del discorso mi fornì l’occasione di trarre in campo le cose mie; ma ciò fa dopo ch’egli mi ebbe esaltato la grandezza, la magnificenza, l’estensione de’ dominî e l’assoluto potere dell’imperatore di Russia.
— «Io fui, così gl’interruppi il suo dire, un sovrano più grande e potente che nol sia mai stato il vostro czar di Moscovia, benchè non di un dominio tanto esteso nè di una popolazione sì numerosa.»
Spalancò gli occhi su me quel principe russo alquanto sorpreso ed imbarazzato a comprendere che cosa intendessi dire.
— «Signor principe, gli dissi, cesserà il rostro stupore, quando vi avrò raccontato che primieramente ho un potere assoluto su le vite e le sostanze di tutti i miei sudditi, e che, a malgrado di tal mio assoluto potere, non ce n’è un di loro il quale non sia affezionato al mio governo o alla mia persona in tutti quanti i miei dominî.
— Da vero, mi soggiunse il magnate crollando il capo, voi siete arrivato più in là del czar di Moscovia.
— Le terre del mio regno, continuai, sono tutte di mia proprietà, e tutti quelli che vi stanno sopra, non solamente sono miei vassalli, ma volontari vassalli; tutti si batterebbero per me fino all’ultima stilla del loro sangue, nè vi è despota, perchè mi confesso tale, che sia tanto amato e tanto temuto ad un tempo dai propri sudditi.»
Dopo averlo divertito alcun poco con questi indovinelli che si riferivano al mio governo, gli spiegai finalmente in lungo ed in largo la storia della mia vita nell’isola e del modo onde governai la popolazione postasi sotto il mio comando tal quale ve l’ho specificata in queste mie memorie. Tutto il mio uditorio la gustò non vi so dir quanto, ma il principe più degli altri, che mi tenne questa discorso.
— «In fatti la vera grandezza consiste nell’essere padroni di noi medesimi. Così mi vedessi (e qui mise un sospiro) in una condizione di vita siccome la nostra e non m’augurerei cangiarla per essere czar di Moscovia! Ho trovata più felicità in questo ritiro, ai vostri occhi terra d’esilio, che mai ne trovassi nella più alta autorità a cui pervenni un giorno alla corte del czar mio padrone. Il sommo dell’umana saggezza sta nell’attemperare il nostro animo al pari delle nostre circostanze, e nel crearci una calma interna sotto l’urto dei più tremendi turbini esterni. Ne’ primi momenti che venni qui, io mi strappava i capelli dal capo, mi squarciava le vesti, come hanno fatto altri innanzi di me; ma un poco il tempo, un poco la riflessione, mi condussero a portar lo sguardo dentro di me stesso e alle cose che mi stanno intorno ed a quelle poste fuori di me. Oh! se la mente dell’uomo si traesse, basterebbe una volta, a meditare da vero l’universale condizione della vita, e quanto poco il mondo contribuisca alla sua vera felicità, saprebbe presto formarsi una felicità da sè stesso, pienamente adatta alla propria soddisfazione e conforme ai propri migliori fini e desideri con ben poco bisogno di aiuto dal mondo. Aria per respirare, quanto cibo basta a sostenere la vita, panni per ripararsi dal freddo, libertà di moversi per conservar la salute: qui sta tutto quanto il mondo può darci per far compiuta la nostra felicità. Certamente la grandezza, l’autorità, le ricchezze e i piaceri di cui godemmo su questa terra, ebbero in sè medesimi il loro lato gradevole per noi; ma tutte queste cose appagarono soprattutto le più ignobili delle nostre inclinazioni, l’ambizione, l’orgoglio, l’avarizia, la vanagloria, la sensualità; tutte cose che essendo il prodotto della più spregevole parte della natura umana, furono colpevoli in sè medesime e racchiusero in sè medesime i semi di ogni maniera di delitti; ma niuna di queste può essere in affinità o divenire origine d’alcuna di quelle virtù che ci dimostrano uomini saggi, o di quelle grazie che ci fanno ravvisare cristiani. Per me, sol quando mi vidi spogliato di queste sognate felicità che andarono congiunte alla piena possanza di darmi in balìa ad ogni viziosa inclinazione, allora soltanto potei guardarle a tutto mio agio nel lor tristo verso ed accorgermi di tutte le brutture da cui sono contaminate. Allora potei convincermi che la sola virtù ha forza di rendere l’uomo e saggio e ricco e grande, e di mantenerlo su la via che guida a più alta beatitudine in uno stato avvenire. Circa allo stato presente, ci troviamo più beati nel nostro esilio di quanto il sieno i nostri nemici nel pieno godimento di quella ricchezza, di quella possanza che ci siamo lasciate addietro. Nè crediate, signore, trasfuse in me queste massime dalla sola necessità delle mie circostanze che vi parranno calamitose e miserabili. No! Se conosco qualche cosa di quel che sento io medesimo, vi giuro che non tornerei addietro, quand’anche il czar mio signore mi richiamasse per ripormi in tutta la mia antica grandezza. Credo tanto impossibile ch’io tornassi indietro, quanto lo sarebbe che la mia anima, liberata un giorno da questa prigione del suo corpo, e tratta a gustare lo stato di gloria promessone dopo la vita, volesse tornare nel carcere di carne e di sangue entro cui adesso è rinchiusa, e abbandonare il cielo per avvolgersi nuovamente nel loto e ne’ delitti degli affari di questa terra.»
Nel dir queste cose tanto vedevasi animata e raggiante la fisonomia di chi le profferiva, vi ponea questi tanto fervore e calore che non potea menomamente dubitarsi non fossero la sincerissima espressione dell’intimo suo sentimento.
— «Signore, gli dissi, v’ho ben raccontato che aveva considerato me stesso come una specie di monarca in quell’antica mia posizione di cui vi ho già dato ragguaglio; ma voi... io riguardo voi non solamente come un monarca, ma come un grande conquistatore, perchè avete riportato vittoria su l’esorbitanza de’ vostri desiderî, avete riacquistato il dominio di voi medesimo; e colui che sa assoggettare sì bene il proprio volere al governo della ragione, è più grande del conquistatore di una città. Pure, eccellenza, potrei io prendermi la libertà di farvi un’interrogazione?
— V’ascolto di tutto cuore.
— Se vi si aprisse un mezzo di scampo, non vorreste almeno afferrarlo per liberarvi da questo esilio?
— Afferrarlo! ripetè il principe. Voi mi fate una domanda che è sottile, e che esige alcune giuste e serie distinzioni per darle una risposta sincera. Cercherò dunque di cavarla dal fondo della mia anima questa risposta. Nessuna delle cose ch’io conosco al mondo mi farebbe muovere un passo per liberarmi da questa condizione di esilio fuor d’una di queste due: l’una, il piacere di vivere con la mia famiglia; l’altra, un clima alquanto più mite. Del resto, vi giuro che il ritorno alle pompe della corte, la gloria, la possanza, le luminose faccende d’un ministro di stato, la ricchezza, la giocondità ed i piaceri d’un cortigiano, non solo tutte queste cose son divenute un nulla per me, ma supponete che nel momento in cui parliamo il czar mio padrone mi promettesse di restituirmi tutto quanto mi ha tolto, vi giuro, se pur so qualche cosa di quello che dico, che non abbandonerei questa solitudine, questi deserti, questi laghi di ghiaccio per la reggia di Mosca.
— Ma, eccellenza, soggiansi, mi sembra non vi sieno stati tolti soltanto i piaceri della corte, la possanza, l’autorità, la ricchezza di cui godevate da prima; ma, se non m’inganno, devono mancarvi ancora alcuni comodi indispensabili della vita. Le vostre signorie forse confiscate, i preziosi arredi delle vostre case dati al saccheggio, gli scarsi mezzi che vi vengono lasciati qui pel vostro sostentamento non si conformano, io credo, alle solite necessità della vostra vita.
— Vi pare così, perchè mi guardate come uno de’ vostri lôrdi, o come un principe, che veramente lo sono; ma consideratemi ora soltanto come un uomo, come una creatura umana niente distinta da un’altra qualunque. Come tale, non manco di niente, semprechè non vengano a visitarmi malattie, o disgrazie che producano imperfezioni negli organi del mio corpo. Ma per venir più alle corte, voi vedete qui il nostro sistema di vita. In questo paese, siamo cinque d’un grado nobile: viviamo in un perfetto ritiro come bisogna che vivano gli esiliati. Dal naufragio delle nostre ricchezze qualche poca cosa l’abbiam riscattato; ciò ne dispensa dalla necessità assoluta di andare a caccia per procurarci il cibo giornaliero; ma anche i poveri soldati, nostri compagni d’esilio, che non hanno come noi questo vantaggio, vivono nella stessa abbondanza in cui viviamo noi, perchè s’aiutano coll’andare a caccia pe’ boschi; le volpi e i zibellini presi in un mese li fanno vivere un intero anno; e poichè i meri bisogni della vita non sono si estesi, tutti ne siamo sufficientemente contenti. Voi vedete che è tolta di mezzo anche questa obbiezione.»
Non finirei più se volessi qui ripetere tutti i particolari di tale intertenimento con quell’uomo veramente grande. Fu questo un dei più gradevoli dialoghi ch’io abbia mai avuti in mia vita, durante il quale quel mio interlocutore diede sempre a vedere quanto la sua mente fosse inspirata da una eminente saggezza, quanto il suo disprezzo del mondo fosse reale e tal quale lo aveva espresso, e qual si mantenne sino all’ultimo, come apparirà da quanto io dovrò narrare fra poco.
Passai quivi otto mesi di un verno il più spietato, il più atroce, cred’io, di quanti se ne possano immaginare. Il freddo fu sì intenso ch’io non potea nemmeno guardar di fuori se non era imbacuccato entro pellicce e con una maschera di pelliccia al volto o piuttosto cappuccio che aveva tre buchi, uno perchè respirassi, due altri perchè ci vedessi. Per tre mesi, a quanto mi ricordo, la luce diurna o passava di poco le cinque ore, o sei ne erano la massima durata; pure la neve giacente immobile su la terra e il tempo serbatosi sereno fecero sì che non fossimo mai affatto nelle tenebre. I nostri cavalli venivano mantenuti, o piuttosto affamati, sotterra; e quanto ai servi, che dovemmo prendere a nolo qui per assistere a noi e alle bestie, ogni tanto avevamo che fare per liberare dal gelo le dita intormentite delle loro mani e de’ loro piedi; altrimenti sarebbero ad essi cadute.
Egli è vero che in casa ci mantenevamo ben caldi tenendo sempre chiuse tutte le porte fatte a bella posta strette, come pure a bella posta erano a doppio tutte le invetriate delle finestre. Il nostra cibo principale consisteva in carne di daino affumicata e apparecchiata a suo tempo, pesci seccati d’ogni sorta e alcuni pezzi di carne fresca di castrato e di bufalo che riusciva per noi uno squisito mangiare. Tutta la scorta delle provvigioni veniva preparata e ben condizionata nella state; la nostra bevanda era acqua corretta con l’aqua vitae in vece di esserlo col vino stillato3, e per un pezzo coll’idromele, che era eccellente, in cambio del vino stillato. I cacciatori, soliti ad andar contro a tutte le stagioni, ci portavano sovente del salvaggiume, e qualche volta della carne d’orso, pietanza, di cui veramente non eravamo ghiotti gran che. Avevamo una buona provvigione di tè per presentarne gli amici che v’ho antecedentemente indicati; e, tutte le cose bilanciate, ce ne stavamo assai bene e lietamente.
- ↑ Il lettore si ricorda sicuramente che Robinson viveva nel secolo decimo settimo, e che anche nel decimo ottavo continuò per qualche tempo a non conoscersi bene il modo di riscaldar le stanze nemmeno ne’ paesi ove vi sarebbe stato più bisogno di saperlo. Le stufe certo furono grandemente usate nel tempo degli antichi Romani; ma rispetto ai moderni, i dizionari delle origini francese e italiano ne accertano che furono praticate ben tardi in Germania e in Francia, e l’arte qui era stata sì addietro che sotto il regno di Luigi XIV non si sapea come far nascere il frutto dell’ananas. L’Italia sì, benchè non avesse tanto bisogno di stufe atteso il suo clima, nè le usasse ne’ tempi andati più vicini a noi siccome adesso, ne aveva di stupende fino nel secolo decimosesto, come può vedersi da qualche lettera del Bembo.
- ↑ È a credersi che il principe qui innominato sia lo stesso principe di Gallitzin citato da Robinson un momento prima. Molte somiglianze che si vedranno tra poco in altra mia nota, col Basilio Gallitzin della storia, contemporaneo di Robinson o sia dell’autore di questa vita, m’inducono in tale opinione e spiegherebbero ancora la circospezione dell’autore stesso nel non additare in guisa troppo aperta un alto personaggio allora vivente.
- ↑ Pei popoli molto settentrionali la parola latina aqua vitae corrisponde allo spirito dei grani fermentati, e il vino stillato alla nostra acquavite.