< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Ritorno dal primo viaggio
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Ritorno dal primo viaggio.



N
on valgo ad esprimere la mia consolazione al trovarmi nuovamente nella mia tana e sul mio letticciuolo. Questo piccolo pellegrinaggio privo di stazioni di riposo mi era stato si molesto che la mia casa, com’io la chiamava, avea per me l’aspetto di eccellente dimora cui non mancasse alcuna sorta di comodi; ed ogni cosa di essa mi divenne sì deliziosa, che faceva proposito di non imprendere più mai grandi viaggi, finchè il mio destino m’avesse tenuto in quell’isola.

Qui stetti una settimana per riposarmi e ristorarmi dai disagi della mia lunga peregrinazione. Gran parte di questo tempo fu impiegata nell’importante affare di fabbricare una gabbia pel mio Poll: tal fu il nome da me imposto al mio pappagallo, che principiava ora ad essere più dimestico e a mettersi in perfetta corrispondenza con me. Pensai pure alla mia povera capretta lasciata a stentare nel mio frascato, e che era ben ora per me di andare a visitare per darle almeno di che cibarsi, se non me l’avessi tirata, come poi feci, a casa. Andai dunque e la trovai dove l’aveva lasciata, chè già di lì non poteva uscire, ma quasi morta di fame. Tagliate frasche d’alberi o di macchie, come mi riuscì trovarne, gliele gettai dinanzi; poi pasciuta che fu, la posi al guinzaglio siccome la volta precedente, indi la condussi via. Ma poteva risparmiare la cautela del guinzaglio, perchè la fame l’aveva tanto addimesticata, che mi seguì a guisa d’un cagnolino. Avendo poi sempre continuato a nutrirla, divenne sì amorosa e gentile che fu in appresso anch’essa nel numero della mia gente di casa, nè avrebbe mai voluto staccarsi da me.

Era or venuta la piovosa stagione dell’equinozio di autunno. Il 30 settembre, giorno del mio arrivo nell’isola, fu da me festeggiato con la stessa solennità dell’anno scorso. Correa già il secondo anno da che io mi trovava qui, nè aveva migliori speranze d’uscirne ch’io non ebbi nel primo giorno. Impiegai l’intera giornata in umili affettuosi ringraziamenti al Signore per tanti prodigi di misericordia versati su la mia solitudine, prodigi senza de’ quali essa sarebbe stata infinitamente più miserabile. I più fervorosi di questi rendimenti di grazie si riferivano all’avermi egli scoperta la possibilità di essere anche in questo deserto più felice che non sarei stato in seno ai godimenti della società ed a tutti i piaceri del mondo. Egli avea fatti colmi e il vuoto della solitudine e la privazione d’ogni consorzio di uomini col comunicare all’anima mia i doni della sua grazia, col sostenermi, confortarmi, incoraggiarmi a porre ogni fiducia nella sua provvidenza quaggiù, ogni speranza nella sua eterna presenza per l’avvenire.

In questo punto cominciai veramente a sentire quanto fosse più felice la vita da me condotta ora, anche accompagnata da tutte le sue deplorabilissime condizioni, che non quella perversa, esecrata, abbominevole, vissuta in tutto il precedente intervallo de’ giorni miei: in questo punto si cangiarono affatto i miei contenti e i miei crucci; le mie brame si fecero diverse, le mie affezioni mutarono scopo, i miei diletti erano tutt’altro da quel che furono all’atto del mio primo arrivo, ed anzi per tutto il tempo de’ due scorsi anni.

Per l’addietro, s’io mi diportava o per cacciare o per iscoprire paese, l’angoscia della mia anima travagliata dalla considerazione di sì misero stato scoppiava in me d’improvviso, e mi sentiva lacerare il cuore pensando alle foreste, alle montagne, ai deserti tra cui andava vagando, tra cui era prigioniero, racchiuso dall’eterne sbarre dell’oceano, in un deserto il più tristo, senza speranza di riscatto. Nei momenti anche di maggior calma della mia mente quest’angoscia vi prorompeva a guisa d’orrida burrasca, mi costringeva a contorcermi le mani, a piangere come un fanciullo; talvolta essa mi sorprendeva tra i miei lavori, sì che io mi lasciava cadere seduto, e sospirava e guardava fiso la terra per una o due ore continue: e ciò era anche peggio per me; perchè se avessi potuto alleviarmi col pianto o dar varco al dolore con le parole, questo sarebbe svanito, o almeno, esausto dal ripeterne gli accenti, si sarebbe mitigato.

Ma ora pensieri di una nuova natura mi sollevavano: col leggere ogni giorno la parola divina, io ne applicava i conforti al presente mio stato. Una mattina ch’io mi trovava assai malinconico, apersi la Bibbia al punto di quelle parole: «Non ti lascerò, non ti abbandonerò mai!» Pensai tosto che questi detti fossero vôlti immediatamente a me; altrimenti mi sarebbero essi occorsi in tal guisa, allorchè appunto io stava gemendo su la mia condizione come chi si crede abbandonato da Dio e dall’uomo? «Quand’è così, dunque, diss’io, se Dio non mi abbandona, che male può derivarne, o che importa a me, se anche tutto il mondo mi abbandona? D’altronde, se tutto il mondo fosse mio, e dovessi perdere la grazia e la benedizione di Dio, vi sarebb’egli confronto tra il guadagno e la perdita?»

Da quel momento io cominciai a concepire col mio pensiere, che forse era più felice in questa solitaria derelitta posizione, di quanto sarei forse stato mai in ogni altra relazione con la società; e fermo in tale pensiero io volea ringraziare il Signore per avermi condotto in quest’isola. Pure non so dire come ciò fosse: sentii nel pensiero stesso qualche cosa che ripugnava, onde queste parole di ringraziamento non ardii profferirle. «Come puoi tu essere ipocrita, dissi ad alta voce a me medesimo, al segno di ringraziar Dio per averti posto in una condizione dalla quale, per quanti sforzi tu faccia alla tua ragione per trovartene contento, pregheresti con tutto il cuore di essere liberato?» Qui mi fermai; ma benchè io non fossi buono a ringraziar Dio per aver permesso ch’io mi trovassi in quest’isola, gli resi grazie sincere per quelle afflizioni di qualunque genere con cui piacque alla sua providenza aprirmi gli occhi, affinchè vedessi qual fu il primo tenore di mia vita e piangessi su la mia perversità e me ne pentissi. D’indi in poi non ho mai aperta o chiusa la Bibbia ch’io non ringraziassi il Signore e per avere inspirato a quel mio amico inglese di mettere, senza alcun avviso mio anticipate, questo divino libro entro le cose del mio fardello, e per avermi indi assistito tanto che lo salvai dal naufragio.

Così ed in tale disposizione di mente io cominciai il mio terzo anno; e benchè nel descrivere il secondo io non abbia recata al leggitore la molestia della minuta descrizione d’ogni mio lavoro, come feci nel primo anno, ciò non ostante egli può generalmente persuadersi ch’io rimaneva in ozio ben rare volte. Io aveva già ripartito regolarmente il mio tempo a proporzione con le giornaliere faccende dalle quali io non potea dispensarmi: primieramente i miei doveri verso Dio, e la lettura delle sacre carte, chè io mi teneva in disparte quanto tempo bastava perchè seguisse tre volte ogni giorno: in secondo luogo l’andarmene attorno col mio moschetto per procurarmi il vitto, occupazione che generalmente parlando, e se non pioveva, mi tenea tre ore d’ogni mattina: per ultimo l’ordinare, l’allestire, il conservare, il cucinare gli animali ch’io aveva uccisi o presi pel mio sostentamento. Ciò portava via una gran parte della giornata, perchè fa d’uopo in oltre considerare che al mezzogiorno, quando il sole stava sullo zenit, l’eccesso del caldo era troppo grande da permettere di far nulla; per lo che quattro ore della sera erano tutto il tempo che si potea supporre dato al lavoro. Tale ripartimento va soggetto alla eccezione cagionata dall’aver io talvolta permutate le mie ore della caccia e del lavoro, ed essermi, per esempio, posto al lavoro la mattina, essere andato a caccia la sera.

In questo tempo lasciatomi pel lavoro si computi di grazia l’estrema difficoltà ch’esso mi costava: quelle tante ore cioè che, per mancanza di stromenti, di aiuto ed anche di perizia, io doveva levare degl’intervalli dedicati alle mie manifatture; per esempio, io dovetti impiegare quarantadue giorni a fabbricarmi una lunga asse da scaffale che mancava nella mia grotta; laddove due segatori forniti de’ loro cavalletti e d’una sega, ne avrebbero cavate fuori sei dello stesso albero in una mezza giornata.

Ecco in qual modo operai. Enorme era l’albero da abbattere, e volendo cavarne un asse della larghezza da me immaginata, mi bisognarono tre giorni soltanto per atterrarlo, ed altri due per rimondarlo di tutti i suoi rami e ridurlo ad un pezzo di legname da lavoro. A furia di tagliare e tagliuzzare da tutti i lati, lo assottigliai tanto delle schegge toltene, che fu leggero quanto bastava per poterlo movere. Allora, voltato sopra un fianco il mio tronco, ne piallai da una estremità all’altra la lunghezza superiore, poi riversatolo su l’altro fianco ripetei la stessa operazione su la lunghezza di sotto che diveniva superiore, con che ottenni un asse grossa in circa tre pollici e sufficientemente liscia ad entrambe le superficie. Ognuno può immaginarsi se le mie mani non si affaticarono in tal genere di lavoro; ma la pazienza e la buona volontà mi condussero a buon fine in questo come in molti altri.

Mi sono unicamente esteso nella presente descrizione per dare a conoscere il motivo del molto tempo impiegato in un lavoro sì piccolo, o sia per dimostrare che quanto sarebbe stato una cosa da nulla per chi avesse avuto aiuto di uomini e stromenti, diveniva un immenso lavoro e chiedeva un tempo prodigioso per chi operava solo e col solo sussidio delle proprie braccia. Ciò non ostante col non iscoraggiarmi mai venni a capo di molte cose, anzi di tutte quelle che le mie presenti condizioni mi rendeano necessario procurarmi, come ne recherò tosto una prova evidente.

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