< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Viaggio per terra alla spiaggia innanzi cui quasi pericolò la piroga
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Viaggio per terra alla spiaggia innanzi cui quasi pericolò la piroga.



M
i pungea sempre, come ho già osservato, un tal qual desiderio di avere a mia disposizione la mia scialuppa ancorchè fossi schifo di correre d’ora in poi più gravi rischi sul mare; qualche volta pertanto stava fantasticando se pur vi fosse qualche modo di tirarmela vicina; altre volte poi mi rassegnava a far senza di essa. Ma mi durava la strana malinconia di tornare alla nota punta d’isola ove, come ho narrato nel descrivere il mio ultimo viaggio, salito su d’un’eminenza, guardai, per vedere fin dove potessi arrischiarmi, la positura della spiaggia e la situazione di quella corrente. Questa malinconia mi andava crescendo di giorno in giorno sì che risolvetti finalmente di andarmene per terra sin là, tenendo sempre l’orlo della spiaggia: così feci. Oh! se qualche abitante dell’Inghilterra si fosse scontrato in tal creatura qual io appariva allora! Se non moriva dallo spavento si sarebbe senza dubbio smascellato dalle risa; ed io spesse volte stando a contemplar me medesimo non poteva fare altrimente, immaginandomi di passeggiare in quella forma e con quell’abbigliamento per la contea di York. Permettetemi che vi dia un abbozzo della mia figura.

Io aveva un grande, alto, informe berrettone di pelle di capra: una larga falda che ne sporgeva di dietro mi riparava il sole ed impediva alla pioggia di cadermi giù per le spalle, nulla essendovi di così pernicioso in questi climi come l’acqua piovana che s’introduca tra i panni e la carne.

Il mio abito era una specie di saio di pelle di capra anch’esso, i cui lembi mi venivano giù sino alla coscia, ed un paio di brache aperte al ginocchio della medesima pelle, che per altro appartenne ad un vecchio caprone, il cui pelo mi scendea da entrambi i lati sino a mezza gamba formandomi una specie di pantaloni; calze, scarpe io non ne avea di veruna sorta; nondimeno io m’avea fatto un paio di cose, che non so come nominare: chiamiamole borzacchini, che coprendomi il resto della gamba, si allacciavano da una parte come le uose; ma d’una barbarissima forma come, per dir la verità, era di barbarissima forma tutto il restante del mio abbigliamento.

Aveva una grande cintura di pelle, sempre di capra, tenuta stretta da due coregge della stessa pelle che prestavano ufizio di fibbie; ad entrambi i lati le pendeano da una specie d’anello di fune, come se fossero spada e pugnale, una da una parte una dall’altra, una piccola sega ed un’accetta. Aveva pure una tracolla non larga quanto la cintura, assicurata alle mie spalle nello stesso modo, che veniva ad unirsi sotto al mio braccio sinistro e da cui pendeano due borse, già fatte anch’esse di pelle di capra, una delle quali contenea la mia polvere, l’altra i miei pallini. Dietro a me portava il mio canestro e su la spalla il mio moschetto, e sollevato al di sopra del capo un tozzo, deforme, enorme ombrello, già della pelle medesima, ma che, dopo il mio moschetto, era la cosa più importante e necessaria che avessi indosso. Quanto al colore del mio volto non era veramente tanto quel d’un mulatto, quanto si sarebbe potuto aspettare da un uomo che non si curava niente di comparire e che vivea tra i nove e i dieci gradi dell’equatore. La mia barba avrebbe potuto naturalmente crescere sino alla lunghezza di un quarto di braccio; ma non mancando io punto nè di rasoi nè di forbici, la teneva affatto corta, salvo quella del mio labbro superiore da me acconciata a foggia d’un ampio paio di baffi turcheschi, come almeno gli ho veduti portare da alcuni Turchi a Salè, perchè i Mori a differenza dei primi non li portavano. Di questi miei baffi o mustacchi non dirò che fossero abbastanza lunghi per attaccarli al mio cappello, ma erano di una lunghezza e di una forma sì bastantemente mostruosa, che in Inghilterra avrebbero fatto paura.

Ma tutto ciò e detto per un presso a poco; perchè quanto alla mia figura ho avuto sì poche occasioni di contemplarla, che non ho potuto dedurne nozioni di molta importanza; di questa pertanto non si parli più, e limitiamoci a dire che tale era il mio aspetto quando impresi il mio nuovo viaggio che durò cinque o sei giorni all’incirca.

Impresi il mio nuovo viaggio . . . . . presi per terra una via più corta,
per giungere all’altura ov’era salito dianzi.

Camminai da prima lungo la riva dirigendomi al luogo ove la prima volta misi all’áncora la mia piroga per aggrapparmi agli scogli. Non avendo questa volta la piroga che mi desse fastidio, presi per terra una via più corta, per giungere all’altura ov’era salito dianzi. Di lì postomi a guardare la punta degli scogli sporgenti all’infuori, quella punta intorno alla quale fui costretto passare con la mia navicella, come già narrai, rimasi attonito al vedere la somma calma e placidezza del mare: non un increspamento, non un moto, non una corrente più quivi, che in qual si fosse altro luogo. Non sapendo menomamente spiegare a me stesso come ciò avvenisse, risolvetti d’impiegar qualche tempo in osservazione, per vedere se mai tutto ciò fosse stato opera della marea; nè andò guari che dovetti convincermi donde fosse derivato il tutto. La marea venendo da ponente, ed influendo sul corso di qualche torrente ingrossato della spiaggia, potè sola essere stata l’origine di quella corrente; e secondo che il vento soffiava con maggior forza da ponente o da tramontana, la corrente stessa si sarà estesa più vicino alla spiaggia o ne sarà andata più lontana. Di fatto trattenutomi in que’ dintorni fino a sera, e tornato su la stessa eminenza che il riflusso si era già fatto, vidi di bel nuovo la corrente siccome in passato: solamente non radea tanto la punta, perchè questa volta ne era lontana di mezza lega all’incirca; mentre nel caso mio le stava sì da presso, che trascinò me e la mia piroga in sua compagnia: ciò che ora non mi sarebbe accaduto.

Questa osservazione mi persuase ch’io non aveva a far altro che notare i momenti del flusso e del riflusso della marea, e che dietro una tale osservazione non mi sarebbe stato difficile il ricondurre nuovamente alla mia parte d’isola la piroga; ma quando io m’apparecchiava a mandare ad esecuzione questo mio disegno, tale atterrimento s’impadronì dell’animo mio che, al rimembrare unicamente il pericolo in cui mi trovai, non solo non fui più capace d’intertenermi nel primo pensiere, ma presi al contrario una nuova risoluzione più sicura, se bene più faticosa: quella cioè di costruirmi un’altra piroga e così averne due, una per ciascun lato dell’isola.



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