< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Desiderio sempre più ardente di fuggire dall’isola e sogno
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Desiderio sempre più ardente di fuggire dall’isola e sogno.



C
ominciai ora a riposarmi, a vivere secondo il mio antico costume, a prendermi cura de’ miei domestici affari; e, a dir vero, per un certo tempo me la passai bene abbastanza, se non che era divenuto assai più vigilante di prima, mi teneva in guardia più frequentemente, nè andava più tanto attorno; e se qualche volta mi diportai con maggiore libertà, il feci sempre verso la parte orientale dell’isola, ove io era ben sicuro che i selvaggi non capiterebbero mai ed ove io potea trasferirmi senza il bisogno di tante cautele o di tanto carico d’armi e di munizioni, quanto ne portava sempre meco quando mi volgeva ad altre parti.

In tali condizioni io vissi più di due altri anni, ma in tutto questo tempo la mia sgraziata testa, che ho sempre scoperto essere destinata a fare la miseria del resto del mio corpo, fu ingombra e piena di disegni e macchinamenti su le probabilità che mai mi potessero occorrere di fuggir da quest’isola. Talvolta era lì per imprendere un secondo viaggio al vascello naufragato, ancorché la mia ragione mi dicesse nulla esser rimasto colà che bilanciasse i rischi di simile gita. E quando meditava una navigazione e quando un’altra, e credo da vero che se avessi avuta la scialuppa, entro cui partii da Salè, mi sarei commesso al mare: per andar dove, non lo sapeva.

Io sono stato in tutti i casi della mia vita una grande lezione per coloro che si sentono percossi da quella malattia generale della specie umana, malattia donde, a quanto so io, procede una metà delle loro sventure: quella cioè di non esser paghi della condizione ove Dio e la natura li collocò. Dappoichè, per non dir della follia che mi fece dimenticare i buoni consigli di mio padre, e che fu quasi il mio peccato originale, sempre di tal fatta sono stati gli errori che mi gittarono in questo miserable stato. Certamente se quella providenza da cui riconobbi il mio sì felice collocamento di piantatore al Brasile, mi avesse arriso al segno che, limitato ne’ miei desideri, mi fossi contentato di far gradatamente la scala de’ miei progressi, avrei potuto, in tutto l’intervallo del mio languire in quest’isola, rendermi un de’ più ragguardevoli possessori di piantagioni in quella contrada; anzi sto certo che, se ai miglioramenti di fortuna da me conseguiti nel breve tempo di mia dimora colà si fossero aggiunti que’ maggiori che avrei probabilmente ottenuti rimanendovi, possederei a quest’ora un patrimonio del valore di cento mila moidori1. E che bisogno aveva io di abbandonare una fortuna già stabilita, una piantagione ben provveduta, e che cresceva ogni dì più, per andarmi a mettere soprastante d’un vascello destinato alla Guinea a procacciarvi dei Negri? Il tempo e la pazienza non avrebbero forse aumentata di tanto la domestica nostra ricchezza, che avremmo potuto senza moverci dalla porta di casa nostra comprarceli da coloro la cui professione sta in simile traffico? È vero che gli avremmo pagati un poco più caro; ma questa più grave spesa non compensava ella l’immenso pericolo corso per risparmiarla? Ma, tal è il fatale destino delle giovani menti: la considerazione su la follia di un’impresa vien dietro alla pratica di molti anni e di un’esperienza a caro prezzo acquistata: tal fu allora di me. E tuttavia l’errore avea piantate sì profonde radici nella mia natura, che non potendo acconciarmi alla presente condizione, la mia vita era un continuo fantasticare su i modi di fuggire di qui; e, affinchè io possa con maggiore soddisfacimento del leggitore mandare a termine la rimanente parte di questa mia storia, non sarà inopportuno ch’io gli presenti qui alcuni cenni delle prime idee da me concepite su tal pazzo divisamento di fuga e de’ modi e de’ fondamenti di quanto operai per mandarlo ad effetto.

Avete a figurarvi che, dopo il mio ultimo viaggio al luogo del vascello naufragato, dopo condotta alla sua cala e assicurata, secondo il solito, sott’acqua la mia fregata, io m’era ritirato entro la mia fortezza ove tornava a fare la vita di prima. Io possedea veramente più ricchezze che non ne ebbi in passato; ma non per questo era più ricco; perchè non poteva usarne più di quanto ne usassero gl’Indiani del Perù prima che gli Spagnuoli fossero approdati in quella contrada. In una notte della piovosa stagione di marzo, correndo l’anno ventesimo quarto da che posi piede la prima volta in quest’isola, io giacea nel mio letto, o letticciuolo pensile, ma svegliato; perchè, se bene in ottimo stato di salute, senza sentire dolore od incomodo, o disagio di corpo, e nemmeno di mente più che d’ordinario, non potei in tutta la notte chiudere gli occhi: cioè prendere tal sonno che veramente fosse un dormire.

Egli è impossibile il contare lo sterminato numero di pensieri che mi girarono per tutti i labirinti del cervello e della memoria nel durare di quella notte. Ripassai in compendio o, percosì esprimermi, per iscorcio tutta la storia della mia vita sino al momento del mio arrivo in questo deserto, ed anche una parte di essa da che vi fui. Nel meditare le cose occorsemi dal primo momento che il mio destino mi vi balzò, paragonava la felice mia posizione nei primi anni che vi soggiornai, e la vita d’angosce, di travagli e paure che vi ho condotta fin da quando vidi un’impronta di piede umano sopra l’arena. Nè credeva io già che i selvaggi non avessero frequentata quest’isola, e che parecchie centinaia di essi non vi fossero sbarcate anche prima ch’io mi fossi accorto di loro. Ma finchè, non gli avendo mai veduti, io non poteva concepirne il menomo timore, vivea perfettamente tranquillo, ancorchè il mio pericolo fosse lo stesso, ed era felice come se veramente non mi fosse mai sovrastato. Ciò somministrava alla mia mente molta copia di salutari considerazioni, e singolarmente su l’infinita bontà di quella providenza che nel suo governo del genere umano ha posti alla vista e cognizione dell’uomo tali opportuni limiti, per cui camminando egli in mezzo a migliaia di pericoli (l’aspetto de’ quali se gli apparisse com’è, ne travaglierebbe la mente e ne deprimerebbe gli spiriti) si mantiene sereno e tranquillo sol perchè gli eventi delle cose rimangono celati al suo sguardo, e non sospetta i rischi dai quali è circondato.

Poichè questi pensieri mi ebbero intertenuto per qualche tempo, cominciai a pensar seriamente al vero pericolo in cui m’aggirai per tanti anni in questa medesima isola, all’intrepida sicurezza onde me ne andava attorno con ogni possibile tranquillità, intantochè null’altro forse che un giogo di monte, o un grand’albero, o l’avvicinarsi della notte, si erano frapposti fra me e la più atroce calamità: quella di cadere nelle mani di cannibali che si sarebbero impadroniti di me con la stessa intenzione che io mi piglierei un tortore o una capra, nè dell’uccidermi e divorarmi si sarebbero fatto uno scrupolo maggiore di quel che io ne abbia fatto nel dar morte ad una tartaruga o ad un piccione, e cibarmene. Calunnierei me medesimo se dicessi di non essere stato sinceramente e debitamente grato al mio grande Salvatore divino, dalla cui speciale protezione io riconobbi con cuore umiliato tanti scampi a me ignoti, e senza de’ quali sarei sicuramente caduto fra l’ugne di barbari che non sentivano misericordia.

Poichè questa meditazione fu terminata, altri pensieri si suscitarono per qualche tempo nella mia mente su la natura di quegli sgraziati selvaggi, e sul perchè il saggio regolatore di tutte le cose avesse permesso che creature fatte a sua similitudine nutrissero pricipi di tanta inumanità: anzi di una crudeltà che eccedeva i limiti della brutalità stessa, siccome è l’appetito di divorarsi fra loro. Ma siccome ciò in quel momento non andava a terminate in veruna utile considerazione, mi volsi ad investigare in qual parte del mondo quegli sciagurati vivessero? quanto lontana fosse la costa donde si partivano! perchè si avventurassero in tanta distanza fuori delle case loro? che sorta di navigli avessero? E perchè non avrei io potuto dare tal ordine e sesto alle cose mie, da potere andarli a trovare, com’essi venivano a trovar me?

Io non mi dava poi il menomo fastidio di pensare come l’avrei fatta quando fossi sbarcato colà; che cosa sarebbe addivenuto di me se fossi caduto nelle mani de’ selvaggi, o come mi sarei salvato da loro se m’avessero assalito; a niuna di tali cose io pensava, e nemmeno come mi sarebbe stato possibile il raggiugnere la costa e non essere assalito da qualcheduno di costoro senza nessuna probabilità di scampo per me. O ponendo ancora che non fossi caduto in loro potere, io non pensava ove mi sarei volto per nudrirmi, o a qual parte avrei addirizzato il mio cammino: nessuna di queste cose, torno a dirlo, occorse alla mia mente, tutta assorta nel divisamento di andare con la mia scialuppa al continente che avea veduto. Io considerava la presente mia condizione come miserabilissima, e tale ch’io non poteva incontrarmi, salvo la morte, in nulla di più tristo; che ponendo piede su la spiaggia del continente, avrei forse potuto trovare qualche soccorso, o tenermi costeggiando, come mi accadde lungo la spiaggia africana, finchè fossi giunto in qualche paese abitato donde sperare alcuna sorta di aiuto. Soprattutto, io diceva a me stesso, avrei potuto abbattermi in qualche vascello cristiano che mi avesse raccolto; e a peggio andare sarei morto, il che avrebbe troncato ad un tratto il corso delle mie sciagure. Vi prego notare come tutte queste idee fossero generate in me da un delirio di mente, da un animo inquieto, e ridotto quasi ad ultima disperazione dalla continuazione del turbamento e dell’angoscia che nacque in me sin d’allora che a bordo del vascello naufragato vidi defraudate, su l’avverarsi, le mie speranze di ottenere quanto aveva sospirato da sì lungo tempo; di rinvenire cioè qualche creatura con cui dire parola, di ricever qualche notizia sul luogo ove mi vedea confinato, e probabili mezzi di liberazione. Io era tutto immerso, tutto agitato fra questi pensieri; ogni mia precedente calma, fondata sul rassegnarmi ai voleri della providenza e su l’aspettare la riuscita delle disposizioni del cielo, sembrava per allora sospesa; nè io aveva la forza di volgermi ad altri pensieri che non fossero il divisamento di un tragitto al continente, idea fermata in me con tanta forza e tanto impeto di desiderio, ch’io era divenuto impotente a resisterle.

Poichè tali considerazioni ebbero tenuto per due o più ore agitati i miei pensieri con tanta violenza, che pose in uno stato di gran bollore il mio sangue, e mi fece battere i polsi come sotto l’impeto della febbre, (e tutto ciò per mero effetto dell’ardore che investì la mia mente al solo fissarsi su questi oggetti), le spossate mie forze fisiche finalmente, cedendo alla natura, m’immersero in un profondissimo sonno. Potrebbe credersi che i miei sogni portassero l’impronta delle cose pensate; ma nè di queste sognai nè di null’altro che a queste si riferisse.

Sognai in vece di essere una mattina uscito della mia fortezza secondo il solito, e d’avere vedute alla spiaggia due piroghe ed undici selvaggi che ne sbarcavano. Costoro si traevano seco un altro della loro razza che si apparecchiavano a macellare per indi mangiarlo; quando in un tratto la vittima, spiccato un salto, si diede per salvare la propria vita a fuggire. Credei vederlo correre nel mio folto boschetto posto innanzi alla mia fortificazione per nascondervisi entro. Io, notando che l’uomo era solo, nè accorgendomi che alcuno lo inseguisse da quella banda, me gli mostrai, sempre in sogno, e sorridendo a lui gli feci coraggio. Egli allora mi s’inginocchiò innanzi come se mi pregasse a proteggerlo; per lo che gli additai la mia scala a mano, feci che la salisse, lo condussi meco nella mia grotta, e appena credei d’aver fatto l’acquisto di quest’uomo, dissi a me stesso: «Ora posso con sicurezza avventurarmi alla volta del continente, perchè questo cotale mi servirà da piloto, e mi suggerirà come contenermi, ove andare per vettovaglie e ove non andare per paura di essere divorato; quali sieno i luoghi da essere impunemente cercati, quali da essere del tutto evitati.»

Io così ragionava, allorchè mi svegliai, dominato da una sì ineffabile impressione di gioia a questa speranza di liberazione offertami dal mio sogno, che lo scompiglio fattosi nel mio animo quando tornato in me mi accorsi di avere meramente sognato, mi cagionò un’impressione ugualmente straordinaria, ma in senso inverso, gettandomi net più profondo abbattimento.

Ciò non fece nondimeno ch’io non venissi a questa conclusione: vale a dire che la sola via di riscatto per me consistea nell’impadronirmi di un selvaggio, se fosse stato possibile. E se vi era tale possibilità, io non potea contare se non sopra uno di que’ prigionieri che, condannato ad essere mangiato, venisse condotto su questa spiaggia al macello. Ma a questi pensieri andava sempre unita quella grande difficoltà che non sarei cioè mai riuscito in ciò senza assalire un’intera carovana di costoro ed ucciderli tutti: impresa, non solo da disperato e che poteva andare a mal termine; ma tale che d’altra parte mi dava grandi scrupoli su la giustizia del tentarla. Il mio cuore abbrividiva sempre all’idea di spargere tanto sangue umano, ancorchè io lo facessi per la liberazione di me medesimo. Non ho bisogno di ripetere gli argomenti che mi s’offrivano per rattenermi dal cercare un simile cimento, perchè erano tuttavia gli stessi di prima; e benchè nella condizione presente avessi anche migliori ragioni per confutarli, vale a dire che que’ selvaggi erano nemici della mia vita; che m’avrebbero divorato, se lo avessero potuto; che stava per me nel massimo grado il diritto della propria salvezza riservato a ciascun vivente, se mi liberava da una vita di continua morte, e per sola mia salvezza assaliva costoro considerandoli come in continuo procinto di assalirmi, e altre simiglianti ragioni; nondimeno con tutti questi argomenti che favorivano il secondo partito, l’idea di versare il sangue de’ miei simili anche per la mia liberazione mi appariva terribile, nè seppi per un gran pezzo darvi retta. Pure per ultimo, dopo molte interne lotte e dopo grandi perplessità, perchè tutti gli anzidetti argomenti pro e contra si fecero lunga guerra nella mia mente, il fervido desiderio della mia liberazione ebbe causa vinta su tutti gli altri riguardi; onde risolsi finalmente di procacciarmi a qual si fosse costo uno di que’ selvaggi. Or non mi restava più che studiare al come riuscirvi; e questa da vero era cosa difficile. Ma siccome io non potea trovarne il bandolo, mi determinai senza pensare ad altro di mettermi alla vedetta, per cogliere il momento di qualche loro sbarco, fermo quanto al rimanente nella risoluzione di lasciare il governo del tutto alla sorte, e d’appigliarmi a quegli espedienti che l’opportunità additasse come i migliori; andassero poi come volessero andare le cose.

  1. Moneta portoghese che al tempo in circa della prima pubblicazione di questa storia (1719) equivaleva in Londra a 27 scellini.

Note

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